Un museo sui modi in cui amiamo e perdiamo

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Il «Museum of Broken Relationships», nato a Zagabria nel 2006, raccoglie oggetti che provengono da relazioni finite e li espone in giro per il mondo. Un progetto che ha cambiato la nostra idea di museo e che ha riportato l’esperienza artistica alla sua essenza: l’incontro con l’Umano.
Museum of Broken Relationships. Foto © Mare Milin/Museum of Broken Relationships

A Copenhagen, questo dicembre, mi sono imbattuta in un museo piuttosto bizzarro: il Museum of Broken Relationships, dove oggetti che provengono da relazioni finite vengono esposti e trovano una catarsi.

Sapevo poco o niente di questo “museo delle relazioni finite”, ma ho intuito subito che fosse sbagliato tradurne il nome. Il termine inglese “broken”, infatti, implica un’idea di trauma che l’italiano “finite” non restituisce: relazioni “rotte”, quindi, qualcosa che, prima intero, compiuto, a suo modo perfetto, si è spezzato; “finite” assomiglia piuttosto a “terminate”: finite per esaurimento, perché giunte a compimento, finite perché la fine, in un processo, è un momento naturale e previsto, laddove lo spezzarsi è un imprevisto e un trauma.

Foto © Ana Opalić/Museum of Broken Relationships

Maneggiare l’amore è faccenda complessa e io ero sospettosa. Ancora non sapevo che nel 2011 il MBR aveva vinto il Kenneth Hudson Award, un riconoscimento per progetti artistici innovativi e coraggiosi; né che mi apprestavo a visitare una mostra itinerante e non un singolo museo, perché il Museo vero e proprio ha fatto molta più strada di quella che immaginavo io, con un patrimonio immenso in termini di pezzi, due sedi permanenti (una a Zagabria, che risale alla fondazione nel 2006; un’altra recentissima a Los Angeles, dal 2016), tante mostre itineranti passate e in progetto, un’ispirazione autentica e un’idea di globalità (cioè di partecipazione) sia fisica sia virtuale.

A Copenhagen la mostra ha sede nella Rundetårn, o torre rotonda, il più antico osservatorio astronomico europeo tuttora in funzione, in pieno centro. Una sede prestigiosa. All’entrata, i visitatori sono accolti dall’immagine-simbolo della mostra e da una breve spiegazione. L’immagine è la foto di due pupazzi di stoffa, che fanno venire in mente una coppia di creativi un po’ hipster: lui ha i capelli di lana gialla, lei un caschetto castano; ciascuno ha in mano la metà di un cuore di stoffa. Leggo che il Museo è pensato come uno spazio per custodire e mettere in condivisione oggetti che vengono da storie «che vi hanno spezzato», un museo «su di voi, su di noi, sui modi in cui amiamo e perdiamo». Mi colpisce l’uso dei pronomi, prima «voi», poi «noi». Mi colpisce anche, e mi fa sorridere: «piuttosto che affidarsi a “devastanti” metodi di auto-aiuto per riprendersi dal dolore e dalla perdita, il Museo offre la possibilità di superare il collasso emotivo attraverso la creatività».

Foto © Ana Opalić/Museum of Broken Relationships

La sala consiste in un unico ambiente, accogliente, essenziale, nordico. Legno chiaro, travi portanti dipinte di bianco, silenzio. La luce è quella calda ma non soffusa di un appartamento a metà del pomeriggio. Ogni pezzo ha il suo spazio: quelli piccoli poggiano su quadrati di sughero; quadri, disegni, un tiro a segno se ne stanno appesi alle pareti; ci sono stampelle appoggiate al muro; un vestito bianco su un manichino; gli oggetti legati alla sfera delle perversioni sessuali sono collocati dietro a una parete, lontani dalla portata immediata dei bambini, ma non nascosti. Non vedo enfasi, giudizio, morbosità.

Ogni pezzo ha un breve testo, la sua storia. Non ci sono nomi. Solo la durata della relazione e la nazionalità di chi ha scritto.

Più di 10 anni
Santoña (Cantabria), Spagna

Questi pupazzi li ha fatti a mano la mia ex-ragazza e me li ha regalati per un compleanno. Siamo noi due. Io ho matite colorate sulla maglietta e un CD attaccato ai pantaloni perché sono un direttore artistico e un musicista. Lei ha una macchina da cucire sul vestito perché è una sarta. Proprio come noi, anche loro hanno una stella tatuata sul braccio. Il regalo includeva anche un biglietto per un concerto dei Block Party al quale non siamo mai andati.

Di fianco ci sono i due pupazzi simbolo del museo, quelli della foto all’entrata. Un testo semplice. L’ha scritto lui. Non dice perché si sono lasciati, né come si siano incontrati. Restano di loro questi pupazzi fatti a mano. Ma serve davvero altro?

Dal sito del Museo – @ Museum of Broken Relationships

Non tutte le storie sono così essenziali, pudiche, paradigmatiche. E non tutte sono storie d’amore. Tra i cimeli sessuali, un paio di scarpe da donna, il tacco altissimo. Il testo che lo accompagna non racconta di perversioni, ma di violenza psicologica – cioè di una perversione non condivisa ma imposta. Ora l’ex-proprietaria di queste scarpe sta con un uomo molto diverso. E questa è una storia di liberazione.
C’è uno specchietto rotto. Lei vede per caso l’auto del marito dove non dovrebbe trovarsi, davanti a una casa – dall’amante. Spacca lo specchietto dell’auto di lui, però non dice nulla. Il marito torna a casa. Le racconta di tifosi che l’hanno aggredito e hanno danneggiato la macchina.

Foto © Ana Opalić/Museum of Broken RelationshipsRelationships

Non tutte le storie sono essenziali, pudiche, paradigmatiche come quella della coppia rappresentata dai pupazzi, dicevo. Qualche volta, chi scrive si rivolge all’altra metà della coppia. Usa frasi fatte: «non ho rimpianti», «grazie per i nostri meravigliosi figli», «ti meriti il meglio»: ma non suonano patetiche.
Le date. Questo tizio che parla con l’ex-moglie e la ringrazia dei figli (e della carriera – sic!) ha donato al museo il primo regalo di compleanno che gli ha fatto lei. «Buon 22° compleanno, Matthew», sul biglietto. Era il 1995. 1995-2014, invece, sono le date della loro storia.

Foto © Ana Opalić/Museum of Broken Relationships

Guardare questi oggetti è stata un’esperienza fortissima, quasi insostenibile. Oggetti comuni mi facevano piangere. Sono io? Mi sono guardata intorno. Vedevo persone di età diverse reagire allo stesso modo. Con commozione forte.
Questi oggetti erano portatori di verità. Non di bellezza: di verità. Le storie che li accompagnavano erano la loro voce, la voce di chi ne conosceva il senso emotivo e psicologico, la posizione e il ruolo.
Successivamente ho scoperto un dettaglio significativo, e cioè che il MBR invita chi intende fare una donazione a esprimersi nella propria lingua. Non in inglese, come davo per scontato e come sarebbe tanto più comodo per chi dovrà fare ordine in questi lasciti. Scrivere nella propria lingua è meglio perché è più facile che il racconto conservi la sua forza – che non è la forza di un intreccio, per una volta, è la forza di una verità.

Il carico di verità di questi oggetti comunissimi scarta qualsiasi idea di esperienza artistica come esperienza di bellezza, concetto, erudizione. Non c’è neanche un autore, non nel senso che intendiamo comunemente, almeno. E se una narrazione ancora esiste, è così esile e frammentaria da far pensare piuttosto a voci. Quello che resta, in questa esperienza artistica, sembra essere soltanto il nudo cuore dell’arte. L’Umano.

Per chi è interessato alle mostre itineranti organizzate dal MBR ora in circolazione segnalo: Copenhagen, ormai in chiusura, fino al 22 gennaio. E Heidelberg, fino al 14 febbraio, giorno di san Valentino.

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Donata Cucchi

Laureata in filosofia, lavora per la casa editrice Zanichelli dal 2005. In precedenza ha lavorato per la Libri Scheiwiller. Ha inoltre collaborato con diverse case editrici, tra cui Mondadori, Utet, il Mulino. Da alcuni anni si dedica anche alla fotografia e al teatro (inteso come lavoro sulla persona).

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