Un filosofo al polo nord

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Un originale reportage dalla terra di Baffin diventa per Michel Onfray occasione di riflessione, che spazia dalla filosofia all’antropologia, e arriva a indagare la realtà inuit attraverso le sue problematicità, culturali, ecologiche, sociali.

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Il tempo arcaico, pagano, contro quello moderno, capitalista. Il viaggio di Michel Onfray al circolo polare artico – raccontato in Estetica del Polo Nord (Ponte alle Grazie, 14 euro, 154 pp.) – è un sorprendente compendio delle sue controverse opere filosofiche.

Oscillante tra il freddo gelido della terra di Baffin (metafora dell’essenziale) e le temperature sature dell’occidente (il regno del superfluo) questo reportage filosofico avvolgente e vitale, netto e visionario, mostra un Onfray più personale rispetto agli scritti appuntiti e contundenti a cui ci ha abituato.

Autore tra le altre cose di un discusso Trattato di Ateologia (Fazi), all’estremo capo del mondo, Onfray si scopre invaso da un sentimento di sacralità. Le rocce fredde e spoglie della Terra di Baffin, il silenzio che risuona in quel tutto senza limiti, il bianco crudele e spietato del ghiaccio lo fanno sentire come se si trovasse al cospetto del mondo il «giorno dopo la creazion» – così vicino al demiurgo che ha innescato la vita.

Il sacro che attrae Onfray però non è quello cristiano, cattolico. È l’istinto primordiale dell’essere umano: sentirsi tutt’uno con la natura. Nello sguardo dell’Onfrayviaggiatore si legge una sorta di religiosità spinoziana, come se il divino fosse tutto nell’al di qua, terreno, e si desse nella nudità della pietra: espressione del «tempo geologico », immobile, eppure capace, «sotto l’apparente indolenza minerale», di dissimulare «la storia dell’umanità» nella sua interezza.

Ma come tutti gli eden, anche il Polo Nord è stato profanato. L’uomo occidentale l’ha penetrato e violato. Disintegrando con il suo tempo lineare e frenetico il tempo ciclico degli antichi inuit (gli abitanti del Polo). Distruggendo con la lingua scritta la loro cultura dell’oralità. Imponendo la stanzialità a dei nomadi che nella loro vita non avevano fatto altro che spostarsi da un capo all’altro. Infine, deportandoli e uccidendoli davvero, nel 1962, senza troppi riguardi intellettuali.

Nel libro il racconto dell’«etnocidio», perpetrato da statunitensi e canadesi ai danni di un popolo incapace di difendersi militarmente, è affidato alle lacrime e al ricordo di un capo tribù inuit. Che conserva ancora viva la memoria del fuoco che ha bruciato i loro accampamenti, riducendo in polvere non solo la tradizione e il passato, ma anche il loro futuro.

Oggi gli inuit vivono nello Nunavut, una regione del Canada, sottoposti al potere politico di Ottawa. Il loro territorio continua a essere stuprato dai rifiuti (a volte radioattivi) provenienti dal mondo nord americano, sotterrati a decine di metri di profondità oppure custoditi in blocchi di cemento lasciati lì a sfregiare il territorio (e puntualmente fotografati da Alain Szczuczynski, i cui scatti arricchiscono il volume). Per lavare i sensi di colpa del passato e del presente, i canadesi innaffiano gli inuit di soldi pubblici, uffialmente per proteggerne l’identità, in realtà per fagocitarli prima possibile.

Perché l’anima di questo popolo è come sospesa, entrata come è in quello che Onfray chiama il «tempo nichilista»: cioè il tempo nel quale i valori delle civiltà tradizionali sono irrimediabilmente persi e quelli della civiltà capitalista occidentale sono troppo costosi per essere comprati.

Così, l’alcolismo, le tossicodipendenze, i suicidi, la violenza, l’angoscia, proliferano senza rimedio, mostrando il rovescio maligno della promessa salvifica del capitalismo. L’intimità di queste pagine, la sensazione di essere a contatto con qualcosa di riservato e nascosto, viene però dalla presenza silenziosa (ma costante) del padre di Onfray: un contadino francese che non aveva mai lasciato il suo paese natale, in Normandia, prima che il figlio gli regalasse questo viaggio al Polo, per festeggiare i suoi ottanta anni (memore di una discussione avuta tantissimi anni prima nella quale il padre esprimeva, un po’ per gioco, il desiderio di visitare il circolo polare).

Il punto è che la fascinazione di Onfray per l’immobilità e il silenzio della natura polare, per la mineralità e la fermezza della pietra, per l’austerità della vita di questi inuit primitivi, sono consanguinei all’amore che egli esprime per la riservatezza e le poche parole del padre, la sua integrità capace di accogliere e sopportare tutte le asperità della vita, la povertà nella quale la sua famiglia ha sempre vissuto. È come se andando alla ricerca del mondo perduto del Polo Nord, dei suoi valori distrutti e smarriti, Onfray cercasse di recuperare allo stesso tempo la memoria di suo padre: la memoria di una persona umile, cresciuta conoscendo la fatica del lavoro, il lezzo del letame che impregna i vestiti e la carne, la durezza dei campi e il freddo delle mattine d’inverno.

Però una vita piena di senso, di visione del mondo, di significati. Il contrario dell’abbondanza vuota del contemporaneo. Ma non solo. La commozione che Onfray riversa nelle parole con le quali racconta lo scacco subito dagli inuit è straordinariamente affine alla rabbia con la quale ricorda quella domenica in cui un caposquadra umiliò il padre di fronte a tutta la famiglia, andando a prelevarlo direttamente a casa per portarlo immediatamente a lavorare, anche se era giorno di festa e benché avessero concordato che quello sarebbe stato un giorno di riposo.

Si scorge così, nelle pieghe di questo libro, un Onfray quasi pasoliniano (sebbene lui non lo citi mai), che di fronte all’avanzare dello sviluppo e alla distruttività capitalistica cerca di custodire il lascito di un tempo andato o in procinto di. Quello degli inuit, quello del padre. Ancora una volta confessando che il viaggio – il vero viaggio – è quello che si compie nelle profondità di se stessi.

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/128688/profondo_polo_nord

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