Un collezionista di voci

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Lo scrittore Daniele Aristarco ha pubblicato di recente due libri per ragazzi di grande qualità e raffinatezza, che fanno riflettere sull’approccio ai classici della letteratura italiana a scuola, e non solo.

 

Una delle imprese più difficili – e anche più necessarie – che dovrebbe compiere chiunque voglia insegnare con la letteratura nella scuola secondaria consiste nel dare importanza, tenendoli separati, sia al ruolo conoscitivo dell’esperienza estetica, che avviene grazie all’incontro con l’opera, con la sua fruizione da parte di ogni studente, sia alla promozione e riproduzione dei valori culturali di una determinata società, trasmessi da una generazione a un’altra anche attraverso la selezione di alcune opere a scapito di altre. Il primo aspetto dell’insegnamento prevede che in classe sia possibile leggere le opere in comune, ad alta voce, o individualmente, in silenzio, ciascuno secondo i propri tempi e le proprie capacità. Ed è altrettanto importante che sia possibile condividere le proprie letture, parlarne, ma anche rielaborare le opere, riscriverle, raccontarle, manipolarle, in modo da favorire con ogni mezzo un incontro che può essere mediato ma non eluso. Il secondo aspetto rinvia a pratiche più direttive, come la lezione e lo studio individuale dedicati alla storia letteraria, alla vita e alla poetica degli autori e anche alle opere, che possono essere sottoposte ad analisi testuali e collegate a esercizi di comprensione e di interpretazione che non necessitano l’aver fatto un’esperienza estetica, ma possono altresì contribuire a far capire l’importanza di quella determinata opera, di quell’autore o di quel particolare fenomeno letterario per la società in cui si vive.

Daniele Aristarco, che da qualche anno si arrischia nella difficile impresa di rielaborare i classici della letteratura per un pubblico che oscilla tra infanzia e adolescenza, si muove agilmente tra queste due sponde della didattica della letteratura, offrendo anche a chi insegna strumenti di lavoro molto raffinati, complessi e di sicura qualità.

Dalla lettura del suo Decameron in poche parole (Einaudi Ragazzi, 2018) – ospitato in una collana che pubblica versioni ridotte dei classici della letteratura, da contenere rigorosamente in 100 pagine a stampa – era già evidente il ruolo centrale assegnato dall’autore agli studi filologici e critici più aggiornati, i cui risultati sono sottesi alla scelta di raccontare la storia dell’onesta brigata delle novellatrici e dei novellatori, mettendo in evidenza l’architettura narrativa e dando importanza al dialogo condotto prima e dopo la narrazione di ogni novella. Esemplare il caso del capitolo 1, “Uomini di fede”, che subito presenta una sequenza di tre storie – ser Ciappelletto, Giannotto di Civignì, Melchisedech e il Saladino, prima, seconda e terza novella della prima giornata – tra loro connesse dai commenti della brigata:

E qui Panfilo tacque. Tutta la brigata esplose in una sonora risata. La storia li aveva divertiti e, al tempo stesso, li aveva fatti riflettere. A una vita retta, quel furfante aveva saputo sostituire il «racconto» di una vita retta e tanto gli era bastato per ottenere la santità. Per fortuna, non tutti gli uomini agiscono così e, anzi, la maggior parte si pone quesiti sinceri sui misteri profondi dell’esistenza. Neifile, alla quale ora toccava intrattenere la brigata, decise di narrare una novella che aveva per protagonisti due uomini giusti e una domanda sincera: quale, tra tutte, è la «vera» religione?

Era giunto il turno di Filomena. Anche a lei venne in mente una storia che riguardava la religione e il dubbio su quale fra le tre grandi religioni monoteiste, fosse quella giusta.

Per le giornate successive Aristarco si impone la regola di raccontare una novella per giornata, sempre introdotta dalle informazioni fondamentali sul re o la regina, su narratrice o narratore e sul tema della giornata:

La regina Neifile volle che durante la terza giornata si narrasse di chi era riuscito a ottenere una cosa desiderata dopo tanto tempo. Pampinea raccontò:

– Questa storia è accaduta molto tempo fa, intorno alla fine del 500 dopo Cristo. In quei tempi, infatti, Agilulfo sposò la splendida regina Teodolinda…

Nel 2022 Aristarco esce, per le stesse edizioni EL, con un breve e intenso saggio intitolato Perché ci ostiniamo a leggere (e far leggere) i classici e con un Orlando furioso in poche parole, ideale proseguimento della riduzione del Decameron. Si legge a p. 7 del saggio:

Un classico è il risultato di una selezione operata nel tempo da una comunità di lettrici e lettori. Ogni comunità esprime la propria scelta o, talvolta, la riformula. E quella selezione costituisce un grande racconto corale, un immenso baule colmo di tesori e di documenti che narrano la tua storia, che ti aiutano a capire chi sei, da dove vieni e cosa hai in comune con gli altri, quali linguaggi, quali riti, quali delusioni, quali sogni.

Ecco che un bene immateriale – l’opera d’arte che appartiene al patrimonio culturale di una determinata comunità – viene presentato anche nel suo valore di dispositivo cognitivo da usare personalmente, per capire sé stessi in relazione agli altri, necessariamente attraverso il confronto diretto con le storie narrate, con i personaggi e le loro vicende, con lo stile.
L’importante – ed è quello che fa Aristarco nelle sue riscritture – è tenere bene in vista ciò che rende un’opera d’arte un monumento, ricordando a chi legge che quell’opera è un monumento per una determinata comunità (le italiane e gli italiani), e che ciascuna lettrice e lettore ha il diritto di prendere le distanze da ciò che indigna o ferisce di quelle opere, e di proporre i suoi monumenti, allargando il canone, modificandolo per continue aggiunte:

Per rinnovare il canone, è necessario che i giovani lettori possano introdurvi i propri «classici»: romanzi, saggi divulgativi, fumetti, graphic novel, albi, silent book. (p. 28)

Veniamo dunque a questo Orlando furioso raccontato da Daniele Aristarco, con la consapevolezza che si tratta del tentativo di mediare l’incontro – il primo contatto – delle ragazze e dei ragazzi con un classico splendidamente inattuale, la cui comprensione deve passare attraverso l’immersione nella storia narrata, e, in parallelo, la conoscenza della storia materiale dell’opera e del suo autore.

Al primo bisogno l’autore dà soddisfazione con la narrazione dei personaggi e degli avvenimenti principali, mai separati da riflessioni sulla struttura dell’opera e sullo stile, e accompagnati da citazioni puntuali di alcuni versi. Leggiamo un passo del racconto dell’incontro tra Angelica e Medoro con Orlando (pp. 62-63):

Quindi i due sposi si mettono in viaggio, valicano i Pirenei, si dirigono verso Barcellona ma, lungo la strada, incontrano un pazzo. All’inizio l’uomo se ne sta sdraiato sulla spiaggia. Poi si leva in piedi e mostra di avere un aspetto ributtante, gli occhi incavati, «la faccia macra, e come un osso asciutta, / la chioma rabbuffata, orrida e mesta, / la barba folta, spaventosa e brutta». Simile a un maiale, tutto sporco di fango, per qualche motivo misterioso si lancia contro di loro…

Ma almeno il cinquanta per cento del testo è dedicato alla riflessione – sempre criticamente acuta e aggiornata – sullo stile di Ariosto e sul suo impatto su chi legge, sempre in equilibrio tra le istanze dell’autore, dell’opera e del lettore concreto, trascorrendo senza sosta dalla filologia all’ermeneutica, dal materiale all’immaginario.

Il libriccino si apre con un prologo in cui si narra un episodio storico testimoniato da una lettera di Isabella d’Este, marchesa di Mantova – una delle protagoniste della civiltà rinascimentale italiana – al fratello, il cardinale Ippolito d’Este, il datore di lavoro di Ariosto. Ludovico ha trentatré anni, come Isabella, ed è stato inviato a Mantova per un’ambasciata. I due si intrattengono a conversare, e Ariosto – questo è ciò che si legge nella lettera di Isabella, – racconta e legge alla donna, sua coetanea e concittadina, anche lei appassionata di storie cavalleresche, l’opera a cui sta lavorando in quel momento. È il 3 febbraio del 1507, e questa lettera, conservata all’Archivio di Stato di Modena, è la prima testimonianza di un lavoro di scrittura protrattosi per decenni, di cui Aristarco rende conto dall’inizio alla fine, senza trascurare la storia editoriale e la fortuna dell’opera. Leggiamo dal capitolo uno:

Il 22 aprile del 1516 appare Orlando furioso di Ludovico Ariosto, un poema in quaranta canti, stampato a Ferrara da Giovanni Mazzocco di Bondeno. La tiratura è tra le mille e le milletrecento copie, il successo dell’opera è immediato, tanto che il 13 febbraio del 1521 viene realizzata una seconda edizione, con alcune correzioni e qualche taglio. Questa volta a stamparlo è il milanese Giovan Battista Pigna, probabilmente in cinquecento copie. Il 1° ottobre del 1532 Franco Rosso da Valenza pubblica la terza edizione dell’Orlando furioso. In quest’ultima versione Ariosto modifica la lingua, togliendo forme dialettali e latinismi attraverso l’uso del toscano della tradizione letterarie, aggiunge sei canti e lavora a una maggiore armonia della forma e alla regolarità del ritmo e dei toni. Quell’incontro con Isabella rappresenta il primo momento «pubblico» del suo Orlando. Non so se la scena si sia svolta proprio in questo modo, a volte è sufficiente un dettaglio per cominciare a scrivere una storia. In questo caso, è stato sufficiente leggere qualche riga di una lettera che effettivamente Isabella spedì al fratello Ippolito. Subito dopo, però, ho immaginato la voce di Ariosto (pp. 5-6).

Isabella, prima ascoltatrice dell’opera, ha rivelato la voce di Ariosto, consentendo ad Aristarco – che si definisce «collezionista di voci» – di figurarsela, e solo dopo averla immaginata nei minimi dettagli, di provare a farla immaginare anche ai suoi lettori e lettrici, che grazie a questo Orlando furioso in poche parole dovrebbero poter almeno iniziare il corpo a corpo con l’opera, per andare a verificare se è vero ciò che Aristarco afferma – e in qualche modo promette – verso la fine del libro, nel capitolo dedicato a “L’attualità di Orlando” (pp. 87-89).

Un’opera risulta attuale se aguzza la nostra vista su porzioni della Storia e dell’anima, quella nostra e quella degli altri, che non sospettavamo esistessero. Un’opera attuale è in grado, insomma, di «attuare» un cambiamento in chi la legge. Se questa magia scatta spesso, per milioni di lettori nel corso dei secoli, quell’opera si guadagna uno spazio sullo scaffale di una «biblioteca ideale» che chiamiamo «classici». Quale cambiamento è in grado di attuare su di noi Orlando? […]

Segue una lista di cambiamenti avvenuti nel lettore in carne ossa, di ciò che Daniele Aristarco ha imparato dalla lettura di Ariosto. Ed è solo un esempio di come sia possibile, a scuola e anche in questi libriccini che sanno rivolgersi contemporaneamente a studenti e docenti, muoversi agilmente tra le diverse dimensioni della lettura letteraria, senza rinunciare alla sua complessità e senza venir meno al compito fondamentale di allargare la partecipazione democratica al grande gioco della letteratura.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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