Le aule sono ambientazioni ricorrenti nelle vicende narrate: insegnanti da una parte e allievi dall’altra agiscono come personaggi di storie che offrono al lettore la possibilità ben più ampia di ricostruire, per via narrativa, le trasformazioni sociali e culturali degli ultimi cento anni della nostra storia.
La scuola è specola privilegiata per questa operazione di scandaglio della realtà tipica della letteratura circostante, e gli scrittori che hanno scelto di raccontare la scuola mostrano di averne piena consapevolezza: si conferma in particolare l’ambivalenza, il bifrontismo del racconto di scuola, sospeso fra l’utopia e il disincanto, spesso incastonato nel romanzo di formazione, cioè in un terreno di coltura che favorisce la crescita e la maturazione di nuove consapevolezze di pari passo con il dispiegarsi di un’esperienza di apprendimento strutturato nella scuola.
Segnalo gli studi sull’argomento di Cinzia Ruozzi, che ha più volte condiviso gli esiti delle sue ricerche in occasioni pubbliche e li ha resi disponibili nel volume Raccontare la scuola. Testi autori e forme del secondo Novecento, il secondo volume della collana scientifica Loescher “QdR / Didattica e letteratura” (2014).
Esclusioni
In questa breve ricognizione mi occuperò di un segmento specifico dell’istruzione, ossia di quella che oggi si chiama scuola primaria, all’interno della quale l’indagine sarà concentrata sulle figure dei maestri elementari.
Tralascerò dunque il segmento di istruzione e la categoria di insegnanti che mi riguardano più da vicino, quelli della secondaria. Rimarranno dunque escluse la professoressa di matematica Elisabetta Maiorano in servizio presso l’istituto penale di Nisida protagonista del romanzo di Valeria Parrella Almarina (Einaudi, Torino 2020), la professoressa di latino Raiola, «fredda come un cadavere steso sul lettino dell’obitorio» quando infierisce su Marco, il protagonista del romanzo di Alessio Forgione Giovanissimi (NN editore, Milano 2020, p.130), e la prof di inglese Bianca Villani Moore, «che sa di fiori e di spezie, riempie tutta l’aula e lascia la scia», di cui è studente Jonathan Bazzi, autore e protagonista del romanzo Febbre (Fandango, Roma 2019, p. 186), presso le scuole medie di Rozzano, periferia sud di Milano, uno di quei «posti da cui vengono un sacco di rapper, posti da cronaca nera» (ivi, p. 24).
Il maestro Cianfarra Romeo
Remo Rapino è autore di Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimumfax, Roma 2019), storia di un eroe senza lapide nato nel 1926, di un emarginato che è insieme matto, idiota esemplare, alienato dai ritmi della modernità: uno che, in equilibrio fra incanto e tragedia, tiene i sassi in tasca per non sollevarsi da terra e racconta, con la sua voce innocente e con la sua lingua sporca, la storia di un secolo, regalandoci così una prospettiva inedita e sorprendente sul Novecento che credevamo di conoscere.
Il maestro Cianfarra Romeo entra in scena a pagina 18 del romanzo, quando Liborio è solo un bambino, non è ancora lo scemo del villaggio che lo condannerà a essere la vita con i suoi traumi (che nel linguaggio immaginoso del protagonista sono «segni neri»). Benché l’avventura di Liborio scolaro sia destinata a terminare a dieci anni, la luminosa figura del maestro Cianfarra Romeo persiste ben oltre il capitolo dedicato alla scuola, viene evocata ossessivamente e accompagna Liborio per un’intera esistenza, fino alle ultime pagine del libro.
Il maestro Cianfarra «veniva da lontano, da un paesone dell’Italia di sopra» (p.18): forse per questioni politiche era stato destinato a una sede disagiata, Lanciano, mai nominata nelle pagine del libro e tuttavia facilmente identificabile dal racconto della rivolta ottobrina del ’43 alla quale Liborio assiste spaesato. Insegnava a una numerosa pluriclasse, come era consuetudine al tempo, ma per il protagonista, per l’alunno brillante a cui l’esistenza non avrebbe regalato nulla, aveva attenzioni delicate. Ad esempio gli aveva donato, il 7 aprile 1936, una copia del «libro Cuore, che aveva una bella copertina rossa di cartone duro e alla prima pagina ci aveva scritto con la penna stilografica che sembrava d’oro ma non era d’oro una dedica che diceva Al mio alunno Bonfiglio Liborio per la sua vita futura con affetto, e sotto la firma» (pp. 17-18). Conservato come una reliquia, letto e riletto, quel libro seguirà Liborio dalla trincea alla fabbrica, dal carcere al manicomio, per dare sollievo e insieme ordine alla confusione del mondo.
Durante gli esami di licenza elementare «il maestro Cianfarra Romeo me lo diceva con gli occhi che era contento e orgoglioso di me» e «mi carezzò pure la testa per dirmi che era un bel compito davvero» (pp.23-24). Liborio alla scuola andasse «proprio come un treno» perché amava leggere e «fare i numeri» (p.20): per questo il maestro «era un poco dispiaciuto che avevo finito le scuole, […] veniva a parlare con mia madre e diceva che io dovevo continuare a studiare, che ero bravo e intelligente»; «mia madre lo stava a sentire senza dire una parola, a me mi pareva un poco vergognosa, stava solo a sentire e non diceva niente» (p. 24) e la prevedibile conclusione fu che, siccome «il pane non nasce con i libri» (p.24), «mi dovevo imparare un mestiere […], la scuola era per i ricchi».
La maestra Colombani e il maestro Poli
Il romanzo di Gian Arturo Ferrari Ragazzo italiano (Feltrinelli, Milano 2020) racconta la vicenda di Ninni/Piero, nato durante il secondo conflitto mondiale, che vive la sua infanzia e la sua adolescenza nel dopoguerra, in anni aspri e difficili per la storia del Paese impegnato nella ricostruzione. Il romanzo si ferma alle soglie del boom economico, con un viaggio premio in Grecia all’ultimo anno del liceo, cioè alla fine dell’esperienza scolastica del protagonista.
L’autore ha creato un personaggio dalla forte carica autobiografica e, assegnando alle tappe della carriera scolastica il compito di scandire il tempo della storia narrata, dichiara il debito profondo contratto con la scuola pubblica italiana, che ha modellato la sua vita privata e professionale, che è stata motore di un riscatto, di una promozione innanzitutto umana, quella che è stata invece negata a Liborio, il protagonista del romanzo di Remo Rapino, quindici anni prima. Il primo giorno di scuola per Ninni, che ha lasciato l’ambiente rurale dell’Emilia in cui era nata la madre e si è trasferito in Lombardia nei luoghi della famiglia paterna, si consuma nel paese di Zanegrate, in una provincia che ha i tratti della prima rivoluzione industriale, dura e classista.
La maestra Colombani si caratterizza per «la grettezza e la meschinità» (p. 177). Distribuisce i bambini nelle file di banchi secondo un preciso ordine, quello sociale e di censo: i figli degli industriali al primo banco, quelli degli impiegati dietro, ancora più indietro quelli degli operai e agli ultimi posti gli scolari più poveri, quelli che avevano entrambi i genitori condannati a lavorare per mantenere la famiglia e che per questo si trattenevano anche per la refezione. Anche i voti erano assegnati con questo stesso ordine feroce.
Ninni in questo ambiente non ha vita facile per almeno tre ragioni: non è di origini lombarde (non parla il dialetto che la maestra condivide con gli alunni del primo banco e, anzi, Ninni chiama addirittura il padre “babbo”, all’emiliana, anziché “papà”); balbetta e inciampa nelle sillabe (l’unica soluzione possibile sembra alla maestra Colombani quella di coinvolgerlo il meno possibile: «Ninni scivolava alla periferia della vita della classe, in un limbo di silenzio e imbarazzo» p. 85); ha, infine, una madre maestra – figlia, nipote e pronipote di maestra, peraltro – attenta al percorso scolastico del figlio, e che , siccome «si rendeva conto che le cose non filavano lisce e quindi andava a parlarle» (p.85), metteva una pressione sgradita alla docente.
Dopo tre anni scolasticamente disastrosi, la famiglia di Ninni si trasferisce nel capoluogo. A Milano avviene l’incontro con il maestro Saverio Poli, fautore di un apprendimento attivo, secondo un metodo maieutico e induttivo d’avanguardia: «Propriamente parlando, il maestro Poli non insegnava alla sua classe, la guidava alla carica, come uno squadrone di cavalleria» (p.137) e durante la mattinata, dato che «aborriva i pensierini» (p. 138), proponeva ai bambini «un misto di interrogazioni, spiegazioni e racconti» (p. 138). Democratico e sognatore, così si esprimeva: «A noi qui non interessa da dove viene uno, se da una baracca o da un palazzo. In generale ci interessa altro, cosa c’è dentro la sua testa. Quella ci preoccupiamo di arredare. E comunque, più che da dove viene, a noi interessa sapere dove uno va» (p. 184).
Se i genitori sono i primi maestri
Singolare è la vicenda autobiografica narrata da Giuseppe Lupo in Breve storia del mio silenzio (Marsilio, Venezia 2019): nato nel 1963 ad Atella, borgo di tremila anime della Basilicata, è figlio di due genitori il cui «dialogo era cominciato con il gesso delle lavagne e sulle lavagne sarebbe continuato per sempre, tant’è che anche dopo, negli anni a venire, se qualcuno mi avesse chiesto cosa li avesse fatti innamorare avrei risposto che era stata colpa degli abbecedari appesi ai muri, dalla A di ape alla Z di zebra. […] Fare scuola, per entrambi, era un modo per sostenere le impalcature del mondo» (p. 13).
Non bastava avere in casa un padre e una madre che vivevano nella «convinzione che insegnare l’alfabeto agli alunni era un po’ come guardarsi negli occhi, riconoscersi una sola carne» (ivi): quando Giuseppe aveva tre anni, i genitori «si erano divertiti a sperimentare un gioco pedagogico inventato da studiosi americani, che permetteva di memorizzare i nomi di oggetti scritti su un cartoncino» (p. 17).
In servizio presso una scuola di Marotta, la coppia aveva l’abitudine di portare il piccolo al lavoro ben prima che venisse il tempo della scolarizzazione; fu così che Giuseppe vide l’aula trasformata in un «palcoscenico perenne», in una scuola senza cattedra in cui gli alunni imparavano la vita, con il padre autore di copioni e la madre coreografa e costumista: «Due pedagogie, due vocabolari. In mezzo mi trovavo io» (p. 19).
Quando venne il momento di frequentare regolarmente la scuola, il narratore protagonista ritrovò in veste di maestra, accanto alla lavagna, la madre: «il miscuglio di gesso, legno e carta che si accumulava a scuola nelle ore a ridosso della campanella […] restava impresso sulle giacche di mio padre o tra i capelli di mia madre, se avessi chiuso gli occhi difficilmente avrei saputo dire se mi trovavo a casa o in aula» (p. 60).
La sovrapposizione dei due ruoli generava situazioni comiche: poco prima del rientro a scuola, quando mamma vedeva Giuseppe svogliato, che scansava i campiti delle vacanze che lei stessa aveva assegnato, «presa dallo scontento, inaugurava la cantilena dei rimproveri» che terminavano con l’esclamazione «Chissà la tua maestra cosa direbbe…», frase di per sé del tutto lecita, se non fosse stato che «la maestra era lei, non c’era bisogno di quella messinscena» (p. 78).
Giuseppe Lupo, che rifugge dai facili sentimentalismi ma sa dare voce alle emozioni autentiche con rara sensibilità, dedica il romanzo ai suoi genitori “primi maestri”, con tutto il valore aggiunto in termini di senso che il gesto materiale compiuto dalla madre di mettere letteralmente per la prima volta la penna in mano al figlio assume per chi dei libri, letti e scritti, ha fatto il centro della sua vita, dopo esser scampato al pericolo del silenzio che incombeva su di lui (silenzio su cui non vogliamo rivelare nulla per non togliere il gusto della scoperta ai potenziali lettori).
A proposito di maestre e maestri
Nella nostra storia personale tutti abbiamo, credo, una figura di riferimento, un maestro o più spesso una maestra che ci ha guidati alla scoperta del mondo fuori dall’ambiente domestico dove siamo cresciuti nei primi anni. Per me è stata la maestra Oronza, di cui, a parte il nome desueto, direi anzi esotico e leggendario nel Nord-Est in cui frequentavo le scuole elementari, ricordo nitidamente dettagli dell’aspetto fisico e dell’abbigliamento non meno del tono di voce. La maestra Oronza incarna per me l’idea di maestro, e ogni volta che, nella vita o nei libri, ne incontro un altro o un’altra, solo a partire da quell’archetipo fondativo formulo un giudizio, nel bene e nel male.
In verità, uno ne ho poi incontrato fra le pagine dei libri che, senza nulla togliere agli altri, ha svolto un’analoga funzione di parametro di riferimento; una funzione che ho arbitrariamente applicato ad altri “maestri” di ogni ordine e grado dell’istruzione, anche oltre quella di base, perché mi sembrava simbolicamente interpretare al meglio la missione di ogni insegnante, nel suo agire fin dal primo giorno di scuola, cioè guidare dal caos all’ordine, proiettando il gesto pratico e quotidiano di combinare lettere e di scrivere in un orizzonte etico.
Riporto il breve racconto di cui è protagonista e mi consola che fra i maestri di questo Premio Strega 2020 ci sia chi gli assomiglia.
Il primo giorno di scuola, il maestro ha appoggiato sulla cattedra una scatola di legno. Poi ha sollevato il coperchio, ci ha guardato dentro, e una dopo l’altra ha cominciato a tirare fuori le lettere dell’alfabeto. Erano pezzi di legno colorati, ciascuno con una sua forma. Senza respirare, abbiamo lasciato i banchi e siamo scivolati verso di lui, come limature di ferro richiamate dalla calamita. In pochi minuti eravamo raccolti intorno alla cattedra. Quando ha estratto l’ultima lettera – era la G e il maestro l’ha lasciata insieme alle altre sulla fòrmica del tavolo – ci ha chiesto di fare silenzio. Quindi ci ha spiegato che le lettere dell’alfabeto sono ventuno. Possono sembrare poche, ha detto, ma con queste lettere, d’ora in poi dovrete fare tutto. Con ventuno lettere – ha detto prendendole tutte nelle mani e poi passandole sotto i nostri nasi – si può costruire e distruggere il mondo, nascere e morire, amare, soffrire, minacciare, aiutare, chiedere, ordinare, supplicare, consolare, ridere, domandare, vendicarsi, accarezzare.
(A. Bajani, La vita non è in ordine alfabetico, Torino, Einaudi, 2014, p. 3).