Un quarto d’ora di celebrità
Il 7 ottobre 2021 ho avuto il mio quarto d’ora di celebrità. All’ora di pranzo, infatti, un amico giornalista mi ha telefonato per ricordarmi che, vent’anni prima, avevo tradotto By the Sea dello scrittore africano Abdulrazak Gurnah, a cui era stato appena assegnato il Premio Nobel per la letteratura. Siccome nessuno sapeva niente di questo autore (il libro da me tradotto a suo tempo, come i due successivi, era passato nel silenzio quasi assoluto), l’amico mi contattava per chiedermi un articolo al volo. Pochi giorni dopo, alla Fiera di Francoforte, la Nave di Teseo ha riacquistato i diritti di traduzione delle opere di Gurnah (nel frattempo scaduti) e mi ha incaricato di rivedere la vecchia traduzione e di iniziarne un’altra.
Approfitterò di questa occasione per affiancare al lavoro artigianale sul testo qualche riflessione più teorica. Io ho cominciato a fare il traduttore editoriale in un’epoca in cui non era richiesta una preparazione specifica certificata, cioè un diploma o un master o un attestato di qualche tipo: mi sono conquistato la fiducia degli editori sul campo, man mano che lavoravo e passavo da testi più semplici (articoli di rivista, saggi divulgativi, racconti brevi) a testi più impegnativi e complessi.
Vorrei poter dire tuttavia che, pur essendo poco propenso alla riflessione astratta, non ho trascurato la lettura di alcuni grandi classici sulla teoria della traduzione, dalla Lettera LVII di san Girolamo a Dopo Babele di George Steiner, passando per Leonardo Bruni, Schleiermacher, Jakobson e altri. Spero che quanto segue risulti di qualche interesse per i colleghi che con la traduzione hanno a che fare quotidianamente nella scuola, e più in generale per i lettori che, frequentando testi tradotti, desiderano interrogarsi sulla genesi di tali testi.
Uno scrittore poliglotta
Gurnah è nato a Zanzibar, nell’attuale Tanzania, da cui è fuggito a vent’anni, rifugiandosi nel Regno Unito, dove vive. La sua lingua madre è lo swahili, ma la sua opera letteraria (romanzi, racconti e saggi) è scritta in inglese – un inglese molto classico, senza alcuna “inflessione”, ma con numerosi inserti in altre lingue, in particolare lo swahili, cioè la lingua parlata quotidianamente dai protagonisti delle sue opere, l’arabo, giacché la popolazione della Tanzania è in maggioranza musulmana e legge o ascolta il Corano nella versione originale, e il tedesco, essendo stata la Tanzania una colonia della Germania fino alla Prima guerra mondiale.
Questo plurilinguismo pone un primo problema: l’autore solo in rari casi fornisce la traduzione inglese delle espressioni in altre lingue, come se desse per scontato che il suo lettore ideale sia in grado di capirle senza difficoltà. Probabilmente questo è vero nel caso di un lettore colto della Tanzania, certo non vale per i lettori italiani, che a parte casi eccezionali sono più a loro agio col latino e il francese che con le lingue subsahariane o semitiche.
Il problema, tuttavia, è meno grave di quello che potrebbe apparire in teoria. Non richiede uno sforzo inarrivabile intuire dal contesto il significato di alcune espressioni, quali per esempio le battute con cui si apre il seguente dialogo:
“Karibu”, disse lei per dargli gentilmente il benvenuto.
“Marahaba”, rispose lui sorridendo.
Allo stesso modo possiamo essere ragionevolmente fiduciosi che il lettore sia in grado di capire una frase come:
la zia arrivò asciugandosi le mani nel suo kanga.
Le difficoltà sono maggiori, come sempre, laddove dal livello lessicale si passa alle questioni di enciclopedia: che cos’era la schutztruppe? il toponimo Tanga indica una regione, una città o un fiume? che cos’era la rivolta di al Bushiri? e così via. Il traduttore ha a disposizione Internet e trova facilmente la risposta a queste e a mille altre domande. (Non era così vent’anni fa, beninteso: il lavoro di traduttore è radicalmente cambiato, da quando ho intrapreso la mia attività – ma di questo vorrei parlare in un prossimo articolo. Dico solo che buona parte delle correzioni che ho dovuto fare alla mia vecchia traduzione di By the Sea erano dovute proprio a problemi di questo tipo, e alla difficoltà – allora – di reperire informazioni oggi disponibili in pochi secondi.)
Ma questo è appunto il lavoro del traduttore: non possiamo pretendere che il lettore interrompa la lettura, soprattutto di un’opera narrativa, per svolgere ricerche sulle enciclopedie online. Quindi?
Il lettore attivo
Un tempo la soluzione adottata era la nota a piè di pagina. È così, grazie alle NdT (note del traduttore), che ho imparato cos’erano le verste e i copechi e chi erano i pope e i decabristi e tutte le altre cose che hanno accompagnato la mia lettura dei russi.
Oggi, salvo rare eccezioni, a me sembra meglio che questo tipo di informazioni (lessicali o enciclopediche) arrivino al lettore non attraverso le note, ma attraverso la fascinazione della storia. Anche in questo caso, mi permetto di fare appello alla mia esperienza di lettore e al piacere che mi dava, quando cominciavo a decifrare i libri di Salgari, scoprire l’esistenza di Calcutta e delle Sundarbans, di Visnù e di Brahma e di Shiva, di James Brook e dei thugs e della rivolta dei sepoy. Piacere di non comprendere tutto, di non dover “studiare” un libro, ma di potersi abbandonare al fascino anche sonoro della lingua, delle parole, dei luoghi.
Il lettore, in altri termini, va considerato un soggetto attivo. Tale sicuramente lo considera Gurnah, per esempio laddove (rivolgendosi a un lettore madrelingua inglese) fornisce la traduzione in swahili di una strofa in tedesco (è un caso che si verifica nel romanzo che sto traducendo ora, Afterlives). La tentazione di fornire la traduzione italiana a mio avviso va evitata: l’autore chiaramente vuole che quei versi (una poesia di Schiller, che ha notevole importanza sul piano narrativo, perché permette al protagonista di dichiarare il suo amore alla ragazza che sposerà) siano circondati da un’aura di mistero, svelino il proprio contenuto (o almeno una parte di esso) a poco a poco, man mano che la storia procede.
In-traducibilità della letteratura
So di aver toccato, pur avendo poche righe a disposizione, un problema spinosissimo. Innanzitutto, perché il rischio di un esotismo estetizzante è sempre presente, soprattutto quando si traduce un autore extraeuropeo, e ancora di più se questo autore appartiene a una tradizione letteraria post-coloniale, come è il caso di Gurnah. Ma più in generale perché qui emerge la questione della traducibilità o della intraducibilità della letteratura. E su questo mi sembra fondamentale spendere qualche parola.
L’idea che i testi, con l’eventuale eccezione dei testi d’uso più semplici, siano sostanzialmente intraducibili, affonda le sue radici nell’antichità. Sia il testo sacro, sia il testo poetico, secondo numerose e autorevoli teorizzazioni, non sarebbero trasferibili da una lingua all’altra, giacché nessuna traduzione può render conto pienamente del significato dell’originale, in quanto tale significato non risiede solo nel valore semantico-referenziale delle parole, ma anche nella loro forma, nel loro significante, nel loro suono e nella loro disposizione, infine nella loro aura, cioè nelle infinite connotazioni che le accompagnano. In Italia, l’ultimo sostenitore di questa posizione radicale è stato nientemeno che Benedetto Croce, che, coerentemente con la sua impostazione idealistica, considerava la traduzione uno strumento ahinoi necessario, per ragioni pratiche, ma del tutto inadeguato alla vera comprensione del testo poetico (intendendosi ovviamente sia quello in verso che quello in prosa), in quanto rompeva l’unità costitutiva di contenuto e forma che, secondo Croce, è alla base della poesia stessa.
Non è mia intenzione negare che vi siano casi in cui un testo risulta intraducibile. Pensiamo per esempio ai giochi di parole di Lewis Carroll: è evidente che il traduttore deve reinventare, perché restare fedele all’originale porterebbe, questo sì, a un tradimento delle intenzioni dell’autore, cioè a un testo non solo insensato, ma illeggibile, misero, deludente. Un caso assai divertente si trova nel IV volume della saga di Harry Potter, che scelgo apposta perché si tratta di un testo con poche pretese stilistiche e anche perché è un esempio un po’ sboccato, e quindi utile sul piano didattico, nelle mani di un insegnante con un po’ di esperienza.
Siamo a lezione di divinazione. Gli studenti di Hogwarts stanno osservando il cielo notturno con dei telescopi. All’improvviso, una ragazza lancia un gridolino: «Vedo qualcosa!» e la professoressa Cooman spiega: «È Urano, cara!» Ron, l’amico di Harry, non resiste: «Fai vedere Urano anche a noi!», esclama. E la professoressa lo rimprovera aspramente. Non è affatto chiaro perché Ron debba essere rimproverato. La sua frase appare del tutto innocua, finché non si capisce che in inglese Uranos (il pianeta) si pronuncia in modo quasi identico a your anus (vi risparmio la traduzione…).
Nella mia esperienza quasi tutti i libri contengono episodi, passaggi, frasi, giochi di parole, che impongono al traduttore una scelta radicale: tagliare o reinventare, per evitare il fallimento della comunicazione. In alcuni casi, tuttavia, il mito dell’intraducibilità viene comodo per occultare una certa dose di pigrizia o di incapacità: per decenni si è affermato che il celebre titolo di Oscar Wilde, The Importance of Being Earnest, era intraducibile, in quanto giocato sul doppio senso di “Ernest” (Ernesto) – “earnest” (onesto). Poi qualcuno ha scoperto che lo stesso doppio senso è presente nell’italiano Franco…
Che qualcosa si perda, in termini di aura, è inevitabile. Pensiamo a Leopardi tradotto in tedesco, cioè in una lingua che attribuisce alla luna e alla morte il genere maschile (der Mond, der Tod): è evidente che chi legge Leopardi in tedesco perde una quantità enorme di riferimenti impliciti alla femminilità, all’eros… E viceversa il lettore italiano della Morte a Venezia faticherà a spiegarsi perché Thomas Mann abbia scelto di simboleggiare la morte con un ragazzo…
Testi e opere
Altra cosa, tuttavia, è riconoscere le difficoltà, altra ancora teorizzare l’assoluta intraducibilità del testo poetico (o religioso). Non solo la storia dimostra che questo tipo di testi è traducibile nei fatti (pensiamo all’enorme importanza, anche linguistica, che ha avuto nella cultura europea la Vulgata di san Girolamo, dal Medioevo a pochi decenni fa; né vorrei che si dimenticasse che la letteratura latina muove i primi passi grazie alla traduzione dell’Odissea di Livio Andronico, e che la letteratura italiana muove i suoi primi passi producendo un’infinità di volgarizzamenti, come si chiamavano allora le traduzioni, o ancora che la rivoluzione romantica giunge in Italia sulla scorta di un dibattito riguardante proprio la traduzione, quello iniziato dal famoso articolo di M.me de Stael).
Sostenere l’intraducibilità di alcune tipologie di testi non è solo contraddittorio rispetto alla realtà dei fatti, ma frutto di un’impostazione teorica che, per quanto ben argomentata, rimanda in ultima istanza alle poetiche dell’ineffabile, al concetto di genio individuale e imprevedibile e nei casi peggiori addirittura al romanticume irrazionalistico ed esoterico-cabalistico. A Croce bisogna quindi contrapporre vittoriosamente Contini, secondo il quale il valore di un testo si misura proprio nella sua traducibilità, cioè nella sua capacità di parlare a epoche e a culture differenti.
Aggiungerò, a conclusione di questa apologia del mio mestiere, la distinzione fra testo e opera. Se leggo Guerra e pace, io che non so il russo certo non leggo il testo di Tolstoj, ma l’opera sì, e posso parlare di Nataša e del principe Andrej e del generale Kutuzov con un russo, un inglese o un giapponese, anche se ciascuno di noi ha letto testi diversi, perché, ciascuno nella propria lingua, abbiamo letto in realtà la medesima opera. E mi azzarderò ad affermare che perfino di alcune scelte espressive dell’autore (non dico di tutte: ma del ritmo delle scene, della tecnica del dialogo, dell’uso di alcune figure retoriche e così via) è possibile avere un’idea sufficientemente precisa attraverso una buona traduzione.
La traduzione, lungi dall’essere un tradimento della poesia originale, è quindi un’apertura sul mondo, uno degli strumenti efficaci attraverso cui l’umanità ha risposto e continua a rispondere alla maledizione di Babele.
(continua)