Perché le storie nascono per dare un senso alle azioni e intenzioni umane, hanno la funzione di aiutarci a comprendere gli altri, siano essi delle persone che si muovono, si incontrano e prendono decisioni, oppure dei luoghi o degli oggetti che, anche in assenza dell’uomo, lasciano traccia del suo passaggio. Un paesaggio è sufficiente – quando è inquadrato e fissato in un’immagine – a stimolare una storia o, meglio, a reclamarla per sé: perché non può esistere un paesaggio senza un visione di esso, e non esiste visione senza una particolare “disposizione” che lo renda possibile.
Ci sono narratori che raccontano in questo modo: semplicemente scattando fotografie. È il caso di Robert Frank e del suo The Americans, per fare solo un esempio. È il caso dei fotografi scrittori, o degli scrittori fotografi, come Bruce Chatwin, collezionista di oggetti che portavano in sé le tracce di tutte le storie umane.
Nel suo libro di fotografie e appunti L’occhio assoluto (titolo originale Photographs and notebooks pubblicato nel 1993, tradotto in Italia nello stesso anno da Adelphi), c’è una foto, scattata nel deserto peruviano, in cui campeggia una bici solitaria, appoggiata a un palo della luce. Intorno solo terra arsa segnata da tracce (forse di camion). Sulla destra, nell’angolo in alto, si può osservare una striscia di asfalto, e in lontananza un altro palo. L’ombra del palo lascia supporre un’ora quasi meridiana. E davanti alla foto – su un’altura o sul tetto di un camion? – si può immaginare il fotografo. E allora due storie s’intrecciano, entrambe accennate e aperte a tutti gli sviluppi possibili: la storia dell’uomo – o della donna – della bicicletta, la storia dell’occhio che osserva e fissa l’immagine in un quadro, scegliendo di lasciar fuori chissà cosa.
In un suo appunto, Chatwin ha scritto: “Allodole col ciuffo e stormi di parrocchetti neri che sfrecciano in ogni direzione quando si dividono in volo. Silenzio rotto solo dallo scricchiolare delle selle. Il cammello, docile e mansueto. Risate femminili come acqua gorgogliante di una fonte. Il cammello ha il buco del culo più elegante di qualsiasi altra bestia che io conosca, niente della carne rosa acceso del retto dei cavalli. E produce uno stronzo raffinatissimo – una bella forma ellittica che s’indurisce rapidamente al sole. La forma e la consistenza di una noce di Pecan.”
Immagini che si susseguono e poi un semplice paragone. Non c’è narrazione, all’apparenza. Ed ecco che, mentre sparisce la storia dal testo, fa la sua comparsa l’autore con la sua “disposizione”. Colui che ha scelto l’immagine, l’inquadratura, le parole per fotografarla. È lui il vero protagonista della storia, che si svolge in questo caso tutta al di qua dell’oggetto della descrizione. È la storia dell’uomo che cammina, osserva, riflette e poi si ferma alla sera e scrive. Una storia che si avvicina a quella del poeta prima che a quella del romanziere, perché, come il poeta, il fotografo costruisce una rappresentazione mitica di sé attraverso i tanti testi che produce.
Wim Wenders, fotografo-narratore d’eccezione, ha descritto questo modo di raccontare in un libro ormai introvabile (ma alla fiera della piccola editoria di Roma l’editore Socrates ne esponeva ancora qualche copia rinvenuta in un fondo di magazzino). Si intitola Una volta (anch’esso pubblicato nel 1993) e alterna fotografie e poesie narrative. Nell’introduzione in versi si legge: “Al contraccolpo del cacciatore / corrisponde nella fotografia / il ritratto, più o meno visibile, / di colui che fotografa. / Non vengono fissati i tratti / del volto, / bensì il suo atteggiamento, / la sua disposizione verso ciò / che gli stava davanti. / La macchina fotografica è dunque un occhio / che può guardare nel contempo / davanti e dietro di sé. / Davanti scatta una fotografia, / dietro traccia una silhouette / dell’animo del fotografo: / ovvero coglie / attraverso il suo occhio / ciò che lo motiva.”
Nell’epoca dei social network, persi tra le foto dei diari di Facebook e di Instagram, non è inutile ricordarsi la lezione dei maestri.