Tra arti e scrittura, poesia e immagine

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Se la scuola francese, letteraria e filosofica, ha posto un particolare accento sulla centralità dello sguardo nell’intersezione con la scrittura, dal libro di Régis Debray, “Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente”, (Il Castoro, Milano 1999, ed. or. 1992) ai saggi di di Yves Bonnefoy, “Lo sguardo per iscritto. Saggi sull’arte del Novecento” (Le lettere, Firenze 2000), non è mai mancata nella tradizione critica italiana un’attenzione a quella peculiare zona di scambio fra scrittura e arte, intendendo per quest’ultima una varietà espressiva che lo storico dell’arte Ludovico Ragghianti definiva già a metà degli anni Trenta del secolo scorso come “arti della visione”, a prefigurare e anticipare l’esplosione più recente dei cosiddetti visual studies.

Con il volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione(Le lettere, Firenze 2014), Riccardo Donati ci offre una ricognizione selettiva e molto interessante di come i poeti italiani del Novecento si siano accostati non solo e non tanto alle opere d’arte, quanto alla modalità del pensare e del fare poetico in termini di creazione visiva, attraverso un procedimento di assimilazione che opera con codici diversi, e nella consapevolezza che il poeta è nei confronti del visibile come un cacciatore, il cui sguardo prosegue a mo’ di dardo, o lancia, ben oltre il momento del guardare, per usare una metafora venatoria molto calzante coniata da Valerio Magrelli.

Donati utilizza come griglia le quattro categorie desunte dallo storico tedesco Heinrich Wölfflin, articolate nei Concetti fondamentali della storia dell’arte, e distingue pertanto fra ‘sguardo evento’, ‘sguardo avvento’, ‘sguardo esperimento’, ‘sguardo accecamento’.

Lo ‘sguardo evento’ si caratterizza per Donati nella coincidenza di visione personale e gesto artistico come atto che non imita la realtà ma la amplia. Ne sono portatori poeti e prosatori come Emilio Villa, Toti Scialoja, Piero Bigongiari e Bartolo Cattafi. Fondamentale per questo gruppo è il riferimento alla pittura di Jackson Pollock e l’identificazione del gesto artistico, del suo farsi e divenire, con l’opera stessa. Lo sguardo evento è quello che concepisce una cosmopoiesi infinita, che trascende i limiti del testo e trasborda nei paratesti (Villa), ma fa anche assumere la responsabilità della visione – distinguendola dall’immagine – al suo creatore, che è così inestricabilmente connesso alla propria opera (Scialoja); centrale è poi la riflessione sul binomio caso e caos, in cui l’opera d’arte si colloca come un moltiplicatore di possibilità che la forma s’imponga su quest’ultimo. Caratteristico dello ‘sguardo evento’ è l’estasi, l’uscita da sé: secondo Bigongiari, grande ammiratore e studioso della pittura fiorentina del Seicento, l’arte, sulla quale si proiettano sempre pulsioni libidiche, è in grado di provocarla. Per Cattafi invece la scrittura sollecita le potenzialità plastiche della visione; la mano, elemento ricorrente nella sua scrittura, taglia e plasma l’aria e la pagina, come quella degli uomini primitivi lasciava il segno sulle pareti delle grotte. Cattafi è anche il poeta che più di tutti presagisce e soffre la perdita dello ‘sguardo evento’ nell’era dominata dalla riproducibilità e indistinzione seriale delle immagini digitali.

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Lo ‘sguardo avvento’ è caratterizzato da Donati come la ricerca di un senso ultramondano e ultrasensoriale, pur a partire da una datità fisica anche intensamente indagata ed esperita, e raccoglie invero poeti e autori molto diversi fra loro: Mario Luzi, Alfonso Gatto, Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini.
Di Luzi è dunque ricordata la predilezione per il pittore senese Simone Martini, la cui pittura evocata nel Viaggio terreste e celeste è varco verso un tutto che ci trascende, verso la luce che ci avvolge anche quando non ce ne accorgiamo, in un processo in cui l’arte sublima il magma del reale e della storia. Di Alfonso Gatto è ricostruito l’arrivo a Firenze e il contatto con la geometria urbana d’impianto rinascimentale, avvertita come glaciale e funerea. Per contro, la ricerca del colore che scaturisce da dentro e che deriva dal vedere interiore del pittore francese Cézanne – molto caro a Gatto, che elabora una poetica dell’assecondare la realtà a essere, la durata a durare. Per Giovanni Testori, artista e letterato, l’opera non è epifania o varco per l’eternità, ma incarnazione delle miserie e dello splendore umano. La predilezione per i corpi caravaggeschi, per i nudi, diventa in Testori una forma d’idolatria non della bellezza estetica che essi recano, ma della verità umana che comunicano: come le bottiglie di Giorgio Morandi, che non rappresentano ma presentano se stesse in forma di tempo eternato.

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Assai complesso è il rapporto di Pasolini con le arti, anche perché, oltre a riconoscere un primato assoluto al magistero del più grande storico dell’arte del Novecento italiano, Roberto Longhi, Pasolini praticò e mescolò le arti, dalla poesia al cinema al disegno, sotto il segno di una ricerca della sacralità dell’esistere che oscilla in certi momenti della sua vita e della sua opera verso la sacralizzazione feticista dei corpi amati.

Nella terza sezione, dedicata allo ‘sguardo esperimento’, inteso come dispositivo di indagine che a diversi livelli mette in discussione l’immagine, Donati raccoglie cinque autori molto distanti: Cesare Zavattini, Giovanni Raboni, Andrea Inglese, Edoardo Sanguineti e Nelo Risi.
Di Zavattini analizza nello specifico il poemetto composto per il pittore Antonio Ligabue, cogliendo nell’ossessione per il ritratto – caratteristica anche di Van Gogh, anch’esso molto amato – la complessa dinamica dell’identificazione con l’altro da sé, in una scomposizione dell’io che parte dal ‘je est un autre’, riflettendolo all’infinito.
Di Raboni si sofferma sul testo de Le nozze, costruito sulla pittura di Jan Van Eyck e in particolare sul celebre I coniugi Arnolfini.

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Con il dipinto il poeta milanese istituisce un gioco di rispecchiamento che è un modo per abitare l’immagine con la propria vicenda biografica trasfigurata, facendone il luogo di una temporalità che sottrae al logorio gli accadimenti. E come in parte fa anche Andrea Inglese nel pometto La liberazione di Andromeda, ispirato al dipinto di Piero di Cosimo, e affisso sotto forma di poster nel bagno dell’autore, inconsapevole allegoria e forma fissata per sempre di una vicenda amorosa che solo una volta terminata è stata riconosciuta come modellante.
Di Sanguineti, che al pari di Pasolini ebbe un intenso scambio con le varie arti, anche quelle perfomative, si prende in considerazione soprattutto la raccolta Maurithuis, dedicata al Museo olandese omonimo, che il poeta torinese percorre con ironia dissacrante, innescando un meccanismo di lettura e degradazione comico-satirica, sia nei confronti dei dipinti che celebrano l’opulenta borghesia nordica del ‘500-‘600, sia del luogo stesso del museo istituzionalmente votato a onorare il bello.
Nella medesima direzione di uno smascheramento dell’arte come forma di controllo sociale, viene annoverato anche il componimento del regista e poeta Nelo Risi, Un albero appeso al muro, dove non solo si denuncia la vieta autolegittimazione dell’arte contemporanea in quanto tale, ma anche il venire meno di qualsiasi forma di reale sprone cognitivo, contestario: meglio sarebbe quell’albero riportarlo alla terra, che tenerlo appeso dentro una artificiosa cornice.

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Infine lo ‘sguardo accecamento’ sarebbe quello che maggiormente caratterizza i contemporanei, presi da una divaricazione tra occhi e sguardo, tra avere sotto la vista migliaia di immagini e vederle per davvero, che Yves Bonnefoy ha teorizzato essere effetto dell’impatto tecnologico sulle abitudini visive. Per reazione alla sovrabbondanza iconica di cui siamo bersagliati, l’artista e poeta contemporaneo cerca nel ‘non veduto oculare’ quel di più di informazione e percezione che gli consente di suscitare ‘una visività più fluida’, una forma di autoscopia o eteroscopia che trascina il corpo dentro l’opera stessa. Ed ecco, allora: il corpo, inteso come insieme di organi senzienti, ma scollegati, un corpo dunque spossessato, visto attraverso sonde ecografiche e protesi – quello che si trova nell’opera di Valerio Magrelli, accostato agli svitamenti anatomici del pittore Francis Bacon.

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La natura disindividuante dello ‘sguardo accecamento’ avvicina il corpo umano (inteso come dissezione anatomica e biologica) a quello animale, slittando verso una desessualizzazione dello sguardo che si percepisce molto bene nel lavoro poetico di Elisa Biagini, messa a confronto non solo con la poetica dello sguardo rivolto all’interno dell’artista Giuseppe Penone, ma anche con l’autoscultazione, sempre per tramite di strumenti medici, di Mona Hatoum. Anche la quotidianità domestica così presente nella poesia di Biagini diventa oggetto di uno sguardo che non cerca conforto ma tracce del passaggio fisico, della convivenza fra il corpo e le sue estensioni: lavandini, tazze, pavimenti, federe, fili e lenzuoli.
Di tutt’altra tonalità, ma sempre con una forte scissione tra vedere ed essere parassitato da visioni esterne, è l’opera poetica di Tommaso Ottonieri, di cui si prende in considerazione, oltre alle riflessioni teoriche, soprattutto il volume Cinema come poesia.
Chiude infine il capitolo Gabriele Frasca, di cui si analizza soprattutto Il fermo volere, romanzo uscito nel 1987 e poi nel 2004 con le illustrazioni del cartoonist Luca Dalisi. Una riscrittura per l’occhio e per l’orecchio in cui gli eventi si dipanano in maniera allucinatoria, complanare, schizoide, a partire dalla duplicità stessa dei due codici di scrittura e immagine.

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Alessandra Sarchi

Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell’arte; ha poi svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi: «Violazione» (2012), «L’amore normale» (2014) e l’ultimo, «La notte ha la mia voce», uscito nel 2017.

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