Supermamme e superpapà?

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Cosa è diventato oggi l’essere padre e madre? Francesca Nicola, antropologa e autrice de «La ricerca», ha vissuto con sei famiglie di bambini cui è stata diagnosticata l’Adhd a Detroit e New York: il suo ultimo libro, “Supermamme e superpapà. Il mestiere di genitore fra gli Usa e noi” (Meltemi, Roma 2017), restituisce uno spaccato della quotidianità di madri e padri impegnati a essere non solo educatori, ma anche terapisti, nutrizionisti, avvocati e guide spirituali dei loro figli. Uno scenario statunitense ma sempre più globale, popolato da genitori stanchi, insicuri, ansiosi, sovraresponsabilizzati e soli. Pubblichiamo di seguito un estratto del libro, ringraziando autrice e editore per la gentile concessione.

Jean Dubuffet, “Nascita” (dettaglio), 1944, MoMA, New York
Il caso dei vaccini

Ultimamente in Italia vi è allarme per la questione vaccini: non pochi genitori decidono di rinviarli o rifiutarli per paure scientificamente infondate. Perché lo fanno? Dire che non hanno a cuore il benessere dei loro figli è impossibile, perché è proprio questa preoccupazione a muoverli. Bollarli come disinformati oltre che controproducente è soprattutto falso. Le indagini dicono che sono più istruiti e più ricchi rispetto alla media; paradossalmente, dunque, sempre secondo le statistiche, anche più coinvolti nell’educazione e nella salute dei loro piccoli. Tanto è vero che le campagne pro-vaccino centrate sull’informazione scientifica della loro utilità sembrano dare scarsi risultati. Il genitore refrattario è già ben informato o almeno ritiene d’esserlo, e comunque ha fatto molti sforzi per diventarlo, di certo più dell’ordinario. Si è fatto un’idea, ha preso una scelta e ora tende a interpretare la divulgazione scientifica come un’ideologia di parte, uno “strumento delle autorità”. Come spiegare questo paradosso?
Forse, seppur con esiti sgraditi, questi genitori stanno facendo esattamente quello che la società si aspetta oggi da loro. Anche a rischio di sfidare il biasimo collettivo, rivendicano il loro essere mamme e papà coscienziosi proprio perché, attraverso ricerche oculate, valutano criticamente vantaggi e controindicazioni delle scelte riguardanti i loro figli, delle quali del resto si sentono gli unici titolari. Sempre più persone sono oggi convinte che irresponsabili siano quei genitori che si affidano ciecamente alle direttive dei pediatri, senza vagliare tutte le informazioni alternative a quelle ufficiali: libri e siti internet, ma anche il passa parola fra colleghi e amici. Nessuna informazione va trascurata, se deve fondare una libera valutazione su questioni importanti come il benessere dei figli.

Genitori di mestiere

La devianza sociale sui vaccini è in realtà una conseguenza del fatto che oggi nell’immaginario collettivo occidentale essere genitori è diventato un mestiere, e per giunta difficile, ad alta professionalità. Proprio con questo titolo Il mestiere di genitori, il «Corriere della Sera» presenta una rubrica settimanale in cui affronta temi variegati e impegnativi intorno al rapporto genitori-figli, dalla corretta comunicazione emotiva, alla migliore disciplina da applicare, dalla necessità di gestire la tecnologia alle esigenze di bambini plus-dotati. Ed è un titolo più che mai azzeccato: un mestiere è un’attività eminentemente pratica che richiede però una forte competenza. Allude alla genitorialità come un’operatività esperta, in un modo analogo all’inglese che per indicare lo stesso fenomeno usa l’espressione parenting (dal verbo, to parent letteralmente “l’essere genitori”), in cui la forma verbale del gerundio enfatizza nella genitorialità l’aspetto necessariamente operativo, quindi deliberante, e quindi ancora responsabile, consapevole e informato. Ma non a caso è un neologismo recente. C’è stato infatti un tempo in cui non esisteva la genitorialità ma solo uomini e donne che facevano i padri e le madri. Solo da poco più di mezzo secolo psicologi, sociologi e letteratura self-help hanno iniziato a riferirsi al parenting per indicare uno scarto rispetto alla genitorialità tradizionale, quando ancora era intesa come un evento ordinario nel normale ciclo vitale, che richiedeva una variegata serie di qualità umane, psicologiche e affettive fra le quali però non comparivano le competenze scientifiche.

Il mercato della genitorialità

L’idea che essere genitori sia un mestiere porta con sé un corollario: per farlo bene bisogna studiare. Ecco allora un esercito di esperti a spiegare in cosa consista la “giusta educazione”: come calibrare nella giusta misura gratificazioni e frustrazioni, premi e punizioni, affettività e normatività. È un sapere pret-à-porter, il cui valore scientifico è variabile e spesso scarso, ma che ha comunque generato un mercato consistente: manuali per regolare il sonno del bambino, migliorarne le facoltà cognitive, gestire il suo appetito, il rapporto con il cibo, il temperamento e il comportamento. La letteratura manualistica per la professione genitoriale è un business in crescita, alimentato da blog e siti ad hoc. Neppure mancano corsi e workshop, dedicati ai genitori in situazioni speciali: a basso reddito, in condizione di marginalità sociale, con bambini problematici o bisognosi di cure particolari. Abbonda persino l’oggettistica, dal regalo stimolante e intelligente sino, come vedremo nel testo, agli strumenti per gestire le emozioni dei bambini più irrequieti o altri ancora per facilitarne lo sviluppo cerebrale.

Se si esaminano i bisogni cui questo mercato cerca di sopperire (o che volutamente crea dal nulla con la propria propaganda interessata) appare in primo luogo il primato ideologico della libera scelta, strettamente connesso all’individualismo che da qualche secolo connota la civiltà occidentale e non smette di accrescersi. Essere una buona madre o un buon padre non significa più perpetuare una buona tradizione ma sostenere tutto l’onere della libertà, cioè prendere decisioni il più possibili oculate in ambiti molto disparati, dalla medicina alla salute mentale, dall’alimentazione alla psicologia, dalla legge all’educazione.

La differenziazione degli stili genitoriali

Si moltiplicano di conseguenza gli stili genitoriali. Le riviste specializzate amano creare sempre nuove etichette: vi sono i genitori naturali e anticonsumisti, quelli positivi, gli autoritari, gli spirituali, gli autonomi, gli intuitivi e persino quelli inconsapevoli. Il ventaglio è ancor ampio per le mamme, per le quali abbondano le metafore animali, a partire dalla mamma tigre il cui ruggito è stato esaltato da Amy Chua in un omonimo testo in cui rivendicava il valore della disciplina e della competizione nell’educazione infantile. Al seguito sono arrivati i papà gatto (i coniugi delle magre tigri, più inclini all’incoraggiamento che all’imposizione) e perfino i papà lupo (le mamma tigre al maschile, ossessionati dalle regole e dalla disciplina). Altre metafore sono di origine meccanica: vi sono i genitori elicottero, che terrorizzati dai pericoli supervisionano continuamente i figli e quelli spazzaneve, che tentano di spianare loro la strada assumendosi tutte le fatiche. Ma ultimamente sono apparsi anche i droni, che osservano dall’alto i bambini tentando di instradarli verso la via migliore lasciandoli al contempo liberi di compiere le proprie scelte.

D’altra parte, il rifiuto di farsi incasellare in tipologie prefissate è un tratto caratteristico dei nuovi genitori: entusiasti e frenetici, mischiano teorie pedagogiche ed etichette, si appellano a nuovi modelli educativi, compulsano manuali, setacciano il web e condividono consigli, immagini e momenti di vita in comunità online.

La genitorialità intensiva

Nel 2007 presso l’Università di Kent, in Inghilterra, è stato fondato un centro di ricerca di “Parenting Culture Studies”, ovvero di studi sulla cultura della genitorialità. Gli analisti che ne fanno parte, per lo più sociologi e antropologi, hanno coniato un termine specifico, “intensive parenting”, genitorialità intensiva, a indicare una super-genitorialità estremamente onerosa in termini emotivi, economici e di tempo.
Chi sono le super mamme e i super papà? Nei Paesi anglofoni si parla da decenni di “helicopter parents” per descrivere quei genitori che ronzano ossessivamente sopra la testa e la vita dei propri figli. Una sorta di iper-presenza fisica e psicologica, un modello culturale sempre più promosso da esperti, media e agende politiche nazionali e globali, che malgrado le buone intenzioni rischia di produrre più danni che benefici. Una brava mamma, oggi, è impegnata in una costante stimolazione delle potenzialità cognitive e intellettuali del proprio figlio: lo porta al museo, lo iscrive e segue da vicino in un numero impressionante di attività extrascolastiche, legge tutta la letteratura che esiste sulle migliori strategie educative, fa perfino volontariato a scuola.
Le cose non sembrano molto diverse per i padri, che rivendicano l’accesso a spazi tradizionalmente riservati alle donne: papà affettuosi, senza paura di mostrare i propri sentimenti e desiderosi di essere presenti in tutti gli aspetti della vita dei figli. Negli Stati Uniti questi stili genitoriali intensivi e centrati esclusivamente sui bisogni del bambino sono diventati sempre più apprezzati a partire dagli anni Novanta. Con il tempo si sono consolidati sino a diventare dominanti, al punto che oggi si cominciano a registrare le prime critiche agli effetti, non tutti benefici e previsti, della sua realizzazione.

Disincanto e critica degli eccessi

Ad aver avviato questo dibattito sono soprattutto le donne, per le quali la crisi economica e la disoccupazione maschile hanno reso la maternità intensiva una possibilità sempre meno praticabile. Oggi si trovano incastrate fra due fra due modelli contraddittori: da una parte l’idea che per realizzarsi come cittadine produttive e responsabili debbano lavorare come e quanto gli uomini; dall’altra quella altrettanto forte che i loro bambini siano bisognosi e meritevoli di un investimento continuo, che almeno nei primi anni grava prevalentemente su di loro. Le donne americane hanno iniziato a manifestare il proprio malessere verso un modello di maternità inconciliabile con la loro effettiva quotidianità.

È un disincanto che anche i media americani hanno intercettato. Uno dei numeri più venduti di Time Magazine, del 21 maggio 2012, mostrava in copertina una fotografia di Jamie Lynne Grumet, una donna di 26 anni di Los Angeles, mentre allattava il figlio di tre anni. L’immagine era particolarmente forte, poiché rappresentava una madre che allatta un bambino talmente cresciuto da non poter essere tenuto in braccio. Anche il titolo dell’articolo era significativo: “Sei abbastanza mamma? Perché l’attachment parenting porta alcune madri all’eccesso”. Ne è scaturito un vivace dibattito, perché l’ attachment parenting, una delle tanti versioni di quello intensivo, suggerisce pratiche effettivamente inusuali. Tentando di trarre applicazioni pratiche dalla teoria dell’attaccamento infantile di John Bowly, propone l’allattamento a lungo termine, il sonno condiviso con i genitori e il baby wearing, ossia una pratica di cura che prescrive la continua vicinanza fra il neonato e il corpo della madre, fisicamente uniti attraverso fasce apposite.

Una critica cinematografica

Anche il cinema ha cominciato ad occuparsi in modo critico di questi temi. Ultimo caso è Bad Moms, in Italia Mamme molto cattive, un film di cassetta del 2016 in cui Amy Mitchell (Mila Kunis) è una mamma sfinita dalla serie infinita degli impegni quotidiani: dal corso di zumba per mantenersi in forma all’assemblea dei genitori dove fioccano le proposte più ridicole. Stressata da una vita a incastri e sminuita da un marito bamboccione e fedifrago, decide finalmente di cambiare vita. Ne nasce un’amicizia con altre due mamme molto imperfette, accomunate dalla lotta contro l’impeccabile Gwendolyn, la presidente dell’associazione Insegnanti-Genitori che incarna la maternità intensiva spinta all’eccesso. Si muove con l’autorevolezza di un premier ma dimostra la sua frustrazione interiore assegnando alle altre madri compiti impossibili, come preparare dolcetti “rigorosamente privi di sesamo, soia, latte, burro, zucchero e farina”. È un delirio dietetico-vegano che nel film simboleggia le insostenibili richieste rivolte oggi alle madri moderne, tenute ad essere sempre aggiornate su tutto, dalle ultime idiosincrasie alimentari alle mode ultra permissive sull’educazione dei figli.

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Francesca Nicola

Dottoressa in Antropologia all’Università Bicocca di Milano.

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