Superficialmente colti?

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Mi ha dato molto da pensare Claudio Giunta, quando spiega cosa ha spinto verso l’attuale modo di proporre la traccia d’italiano all’esame di Stato: “invitare gli studenti a scrivere quello che pensano di cose difficili come la letteratura o la democrazia o la pena di morte è un rischio, perché incoraggia il dilettantismo e la retorica dei pensierini: meglio glossare le opinioni di altri” (Il Sole 24Ore – 10.02.2013).

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Nel suo Elzeviro sul domenicale de Il Sole, Giunta riflette sull’attuale modo di svolgere la prova di italiano (qui il testo). Il passo su citato chiarisce cosa ha mosso ad adottare la “tipologia B”. Essa, come è noto, consiste nella redazione di un saggio breve a partire da documenti forniti dal Ministero. Nella stesura del saggio (o di un articolo di giornale) lo studente deve “cucire” insieme le fonti di cui dispone, aggiungendo passaggi connettivi e di commento. Il rischio per lo studente è di sostenere cose di cui non si rende affatto conto, dato che con ogni probabilità egli ignora i contesti da cui sono tratti i passi che cita e il pensiero generale dei relativi autori. Il lavoro a patchwork che ne segue rischia di essere una penosa carrellata di pensieri(ni) in libertà. Perciò il giudizio di Giunta è motivatamente severo: “Ma ho l’impressione che il pendolo abbia fatto ormai tutta la corsa, e che a quel dilettantismo e a quella ingenuità, si sia sostituito un atteggiamento blasé che fa perno sulla stessa ignoranza ma che in più paga il prezzo della posa, della simulazione”. Lo studente insomma assumerebbe la posa di una persona colta, forse persino saccente, accostando autori e idee di cui non conosce l’itinerario di maturazione e l’impianto di giustificazione. Qualcosa del genere, mi viene da aggiungere, capita anche al modo in cui gli studenti tagliano e cuciono le tesine, raccogliendo da Internet materiali disparati, senza rendersi conto delle fonti con cui hanno a che fare. Perciò agli esami capita non di rado di assistere all’esito effettivo, ma deprimente, del desiderio peraltro positivo del legislatore di spingere gli studenti a confrontarsi coi maestri.

Tutte le vie sembrano sbarrate: a fare riflettere gli studenti sulle grandi questioni, si incoraggiano il dilettantismo e la retorica di corto respiro, mentre a spingerli a glossare i maestri li si rende saccenti e, tocca ripeterlo, blasé. Dunque, cos’è andato storto? Ovviamente la responsabilità non è delle giovani generazioni, né della tecnologia che fa credere di sapere, solo perché si è informati, o peggio perché si crede di esserlo per il facile accesso all’informazione. E allora?

Il dilemma a cui ci porta Giunta è intrigante e costringe ad andare al fondo della via dell’insegnamento e dei suoi fini. Nel passo citato in apertura Giunta usa una parola chiave: rischio. L’educazione è, intrinsecamente, rischio. Se lo si vuole evitare, o si riduce l’educazione ad addestramento, oppure ci si dedica ad altro. Il rischio fa parte del mestiere dell’educatore: non va temuto, né evitato. Bisogna offrire agli allievi l’occasione di cadere nei pensierini, nella retorica, nella presunzione. Siamo così abituati che di fronte al rischio si previene e protegge che dimentichiamo che in ambito educativo ci vuole invece coraggio e una sapiente propensione al rischio.

Gli studenti possono essere descritti come dilettanti, in realtà sono apprendisti. Vanno perciò trattati e valutati come tali, non col metro riservato ai maestri (per questo ormai solo i giornalisti sportivi e forse qualche docente ottocentesco danno i voti fino all’otto). La ragione per cui educhiamo è che desideriamo che gli apprendisti possano diventare un giorno maestri. Potranno farlo solo imparando a riconoscere e censurare in se stessi e negli altri il dilettantismo, la retorica di corto respiro, la posa. Alla fine della propria formazione solo pochi avranno la stoffa intellettuale e umana per diventare maestri. Con delle buone guide però la maggior parte degli studenti avrà gli strumenti per riconoscere la maestria e per apprezzarla, sapendo evitare per parte propria almeno le cadute più rovinose. Inoltre essi avranno capito che per conseguire tale fine la via è lunga e faticosa. Soprattutto, essi avranno appreso un’attitudine a quell’onestà intellettuale che trattiene dal vendere per proprio e acquisito ciò che è altrui e, ultimamente, a sé ancora estraneo. Allo studente il compito di camminare, eventualmente cadendo e rialzandosi, all’educatore di indicare la via e la necessità della fatica, sapendo mostrare che il rischio merita di essere corso.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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