Nell’italiano contemporaneo la parola stereotipo indica una rappresentazione semplificata di uno stato di cose o di un evento, un luogo, un gruppo sociale, basata su una generalizzazione che prescinde dall’osservazione diretta dei singoli casi e la precede. Il termine è usato spesso in senso negativo, per marcare la scarsa corrispondenza alla realtà di immagini, parole, credenze, opinioni, cosa non desiderabile perché porta a una visione deformata e spesso peggiorativa della realtà2. Si dice, ad esempio, «Crede che io incarni lo stereotipo del professore, ma non è vero», per prendere le distanze da alcune attese pregresse sui professori in generale, che si presumono negative.
La parola stereotipo – la cui etimologia risale al greco antico stereós, che voleva dire rigido, e týpos, che significava impronta – nacque a fine Settecento in ambiente tipografico, per indicare la riproduzione di immagini a stampa tramite forme fisse. Nel Novecento il concetto fu introdotto nelle scienze sociali dal giornalista statunitense Walter Lippmann nel 19223. Da allora, la nozione è usata soprattutto in psicologia e nelle scienze sociali (sociologia, scienze politiche, massmediologia), che mettono l’accento sul ruolo che gli stereotipi hanno nelle relazioni fra i gruppi umani, il che è rilevante per una riflessione sul nesso fra stereotipi e discriminazioni di genere, perché queste riguardano interi gruppi sociali.
Perciò fra gli usi ordinari della parola seleziono solo quelli che la riferiscono ai gruppi umani e propongo questa definizione: uno stereotipo è un insieme rigido e semplificato di caratteristiche che i/le componenti di un certo gruppo sociale attribuiscono a un altro gruppo, considerandolo come insieme unico e indistinto, senza fare nessun ragionamento critico né verifica su eventuali differenze, sfumature o eccezioni che possano esserci in quel gruppo. Tornando all’etimologia, uno stereotipo è un’impronta (týpos) che appiattisce una moltitudine di esseri umani in un unicum rigido (stereós), impronta che si ripete identica e incurante delle differenze e dei cambiamenti che quella moltitudine di fatto manifesta.
Questa definizione dà conto di come funzionano ad esempio gli stereotipi sui caratteri nazionali, per cui i tedeschi sarebbero “freddi e razionali”, i parigini “snob”, gli italiani “grandi amatori”; di come funzionano gli stereotipi sulle professioni, per cui gli ingegneri sarebbero “rigidi”, i professori “pedanti”; di come funzionano gli stereotipi di genere su donne eterosessuali, uomini eterosessuali, gay ecc., per cui ad esempio le donne sarebbero “materne”, “più emotive degli uomini”, “meno inclini agli studi scientifici”, mentre gli uomini sarebbero “poco inclini all’accudimento” e così via. In tutti questi casi, si attribuiscono a un gruppo sociale, in modo rigido e ripetitivo, alcune proprietà generali, che trattano il gruppo come unità indistinta, senza verificare se ci siano differenze, sfumature o eccezioni né ragionare sulla possibilità che vi siano.
Fra l’altro, i vari stereotipi sono spesso attribuiti ad altri gruppi (cosa pensano e dicono gli uomini delle donne, e viceversa), ma ogni gruppo attribuisce anche a sé stesso tratti stereotipati (cosa dicono e pensano di sé gli ingegneri, i professori, le donne).
Non c’è una differenza sostanziale, insomma, fra l’uso comune del concetto di stereotipo, se riferito a gruppi umani, e l’uso che se ne fa nelle scienze sociali, che dunque hanno avuto il merito di partire dal senso comune e renderne conto.
Dagli stereotipi ai pregiudizi
Anche se il concetto di stereotipo e quello di pregiudizio sono spesso sovrapposti, concordo con lo psicologo sociale Bruno Mazzara4 nel mantenerli distinti. In questa prospettiva, gli stereotipi sono l’insieme di caratteristiche (generali, rigide e ripetute) che stanno alla base della formulazione di pregiudizi, cioè ne costituiscono il «nucleo cognitivo». I pregiudizi, dal canto loro, sono giudizi pre-, cioè o pre-cedono l’esperienza diretta da parte di chi li formula, o non sono basati su dati empirici sufficienti a formularli. Fin qui non c’è ancora molta differenza fra stereotipi e pregiudizi, il che giustifica chi li pensa equivalenti.
La differenza per cui invece credo sia importante tenerli distinti è questa. Mentre gli stereotipi possono non implicare un giudizio di valore, i pregiudizi portano sempre con sé una valutazione, che può essere positiva, ma più spesso è negativa. Non solo: proprio perché carichi di valutazioni, i pregiudizi escono dalla sfera cognitiva e orientano le azioni delle persone nei confronti dei gruppi sociali a cui sono rivolti.
Se ad esempio dico «Le donne sono più inclini all’accudimento degli uomini», esprimo uno stereotipo tutto sommato neutro, cioè indipendente da qualunque giudizio di valore, anche se, a seconda dei casi, ci sarà chi valuta positivamente e chi negativamente l’essere o meno inclini alla cura. Però passare a una valutazione pregiudiziale in qualche modo discriminatoria per le donne (e gli uomini) è facile, se pensiamo che questi stereotipi sono alla radice della credenza diffusa che le donne siano più adatte a professioni di cura, come la maestra di scuola d’infanzia e primaria, l’assistente sociale, l’operatrice sanitaria, eccetera; non a caso a questa credenza poi corrisponde, in molti Paesi fra cui il nostro, il dato di fatto che queste professioni siano svolte, in stragrande maggioranza, da donne. Il che è discriminatorio non solo per le donne ma anche per gli uomini, perché da anni molti studi evidenziano come una distribuzione di ruoli più paritaria fra donne e uomini in questi mestieri avvantaggerebbe tutti, sia i/le professionisti/e sia chi beneficia del loro lavoro: allievi/e, assistiti/e, pazienti ecc.5.
Un discorso analogo vale per lo stereotipo per cui «Le donne sono meno inclini agli studi tecnico-scientifici degli uomini», che porta, fin delle scuole primarie, a pregiudizi tendenzialmente negativi – da parte di genitori, parenti, insegnanti – sulle capacità delle bambine in matematica, geometria, fisica, scienze e affini. I pregiudizi negativi sono presto interiorizzati dalle stesse bambine che, fin dalla più tenera età, si convincono di avere poca attitudine per le materie tecnico-scientifiche6. Non c’è dunque da stupirsi se, in moltissimi Paesi fra cui il nostro, si registri una scarsa presenza femminile sia negli studi universitari sia nelle professioni tecnico-scientifiche7.
Il passaggio da uno stereotipo a una valutazione – positiva o negativa – è sempre sfumato, scivoloso, facile da fare. In alcuni casi si parla della presunta propensione all’accudimento delle donne in termini persino entusiastici, in altri si rilevano i problemi che essa porta alle donne, ma anche agli uomini, perché li priva di esperienze di cura, in famiglia e sul lavoro. Assai più difficile è parlarne in modo descrittivo e neutrale, cioè indipendente da giudizi di valore.
Gli stereotipi sono necessari
A cosa serve, allora, mantenere distinti stereotipi e pregiudizi, se è così facile che si confondano? Serve a evitare – o combattere, se è già avvenuto – il passaggio dagli stereotipi alle discriminazioni, perché dai primi non possiamo prescindere, mentre dalle seconde dobbiamo guardarci. Vediamo come.
Innanzi tutto la mente umana non può fare a meno di produrre stereotipi. Il processo cognitivo che sta alla base della loro formazione è, infatti, parente stretto di quello che ci permette cose fondamentali come imparare a parlare da bambini, attribuire significati alle parole, organizzare la percezione del mondo in categorie, cioè in insiemi di elementi che riconosciamo simili e ai quali diamo lo stesso nome.
Ad esempio, è solo grazie al fatto che un/a bambino/a riesce a selezionare alcune caratteristiche comuni nella miriade di differenze che percepisce fra, diciamo, il gatto di casa (un tigrato grigio), quello del piano di sotto (un persiano bianco) e quello dell’appartamento di fronte (un gatto nero), che un po’ alla volta riesce a chiamare gatto i tre animali di cui ha fatto esperienza, animali che, pur diversi fra loro, sono tutti e tre ripetutamente associati, dagli adulti che circondano il/la bambino/a, al suono gatto. È un lavoro cognitivo di attenzione selettiva su alcuni tratti percettivi comuni (certe parti del gatto, il miagolio, alcuni movimenti), a scapito di mille differenze (altre parti del gatto, il colore, la forma della coda), un lavoro simile a quello che sta dietro alla formazione di stereotipi8.
In breve, nonostante la tendenza diffusa a dire che gli stereotipi vanno abbandonati, in realtà come esseri umani non possiamo farne a meno. Senza la nostra capacità di semplificare, generalizzare e astrarre, non saremmo in grado di orientarci nel mondo, ci perderemmo in un caos cangiante di differenze, non riusciremmo a ragionare e non avremmo nemmeno imparato la nostra lingua madre.
Come evitare le discriminazioni?
I problemi nascono da tre variabili: (1) l’ampiezza della generalizzazione che fonda uno stereotipo; (2) la quantità e qualità dell’esperienza su cui si basa; (3) la sua rigidità.
Variabile (1): se uno stereotipo riguarda un insieme molto vasto di persone (tutte le donne ad esempio), la probabilità che sia sbagliato è molto alta; se viceversa riguarda un gruppo più ristretto (le donne romagnole ad esempio), è meno probabile che porti a previsioni scorrette.
Variabile (2): se uno stereotipo non si basa su nessuna esperienza diretta da parte di chi lo formula (come spesso accade) o su una scarsissima esperienza diretta, è più probabile che porti a conclusioni scorrette; se invece si basa su un certo numero di esperienze dirette e specifiche, è possibile che anticipi qualcosa di vero. Se ad esempio ho conosciuto di persona molte donne siciliane che si dedicano solo alla famiglia e hanno una grande capacità di accudimento, quando mi trovo di fronte a una donna che non conosco, ma di cui so che proviene dalla Sicilia, anticipo che possa avere quelle proprietà.
Variabile (3): quanto più uno stereotipo è datato e duraturo, cioè quante più volte l’impronta è stata ripetuta nel tempo, tanto più è difficile che le persone che condividono quello stereotipo siano disposte a cambiarlo o abbandonarlo.
Ora, nel ragionare su queste variabili, emerge un punto importante, spesso dimenticato da chi condanna gli stereotipi in sé, senza soffermarsi sulle distinzioni appena fatte: è il cosiddetto nucleo di verità degli stereotipi9, cioè il fatto che molti di essi, in qualche misura, colgono certi aspetti della realtà. Magari la caratteristica stereotipata non vale per tutti i membri del gruppo cui è attribuita, ma solo per molti o alcuni (è il problema dell’ampiezza della generalizzazione); magari è una caratteristica che un tempo c’era e ora non c’è più, perché le cose sono cambiate (è il problema della rigidità). Ci sono poi casi in cui lo stereotipo non ha nessun nucleo di verità, il che accade quando non si basa su nessuna esperienza diretta da parte di nessuno, o su una scarsissima o grossolana esperienza diretta da parte di chissà chi: leggende, falsi miti, fake news. Ma questi casi non devono farci dimenticare che molti stereotipi, entro certi limiti, possono esprimere qualcosa di vero.
In conclusione, è vero che fra stereotipi, pregiudizi e azioni discriminatorie il passo è breve, ma non c’è battaglia contro gli stereotipi – né accademica né sociale – che possa avere qualche chance di essere vinta, se si prescinde dalla consapevolezza e accettazione del fatto che dagli stereotipi gli esseri umani non possono prescindere. Nessuno è immune dal produrre, formulare e usare stereotipi, neanche l’intellettuale più raffinata/o.
È solo se accettiamo di fare questo esercizio di autocritica e insieme di umiltà, che possiamo riconoscere meglio uno stereotipo anche, e soprattutto, quando sta in noi, non solo negli altri. Ed è solo dopo averlo riconosciuto che possiamo riflettere in modo efficace sulla quantità e qualità di esperienza diretta da cui deriva (poca? nessuna? mia? di altri?), sulla sua generalità (sicuro che non siamo di fronte a un’eccezione?) e rigidità (sicuro che le cose non siano cambiate?). Solo così possiamo evitare di trasformare uno stereotipo in un’azione discriminatoria, anche lieve e innocente, ma pur sempre discriminatoria.
Concludo tornando all’ambito educativo. Come da tempo molte ricerche confermano10, alcuni stereotipi sulle professioni, secondo i quali certune rispecchierebbero le presunte predisposizioni “naturali” delle bambine, altre quelle dei bambini, contribuiscono a determinare la maggioranza femminile prima negli studi, poi nei mestieri che comportano cura (maestra, infermiera, operatrice sociale) e la dominanza maschile in quelli tecnico-scientifici (ingegnere, informatico, chirurgo, e così via). Credo che, per avviare cambiamenti effettivi, sia imprescindibile e urgente un lavoro collettivo e individuale, a scuola e in università, volto ad aumentare e diffondere la consapevolezza critica su questi stereotipi in docenti, dirigenti, presidi, personale tecnico-amministrativo, responsabili di vari livelli nelle strutture scolastiche e accademiche.
Possiamo cominciare dall’uso della lingua italiana, abituandoci a declinare al femminile parole come ingegnera, informatica, chirurga, per designare le donne che esercitano queste professioni, senza temere che ciò possa suscitare fastidio o “suonare strano”: la relativa novità del femminile di queste parole dipende solo dal fatto che finora abbiamo incontrato più uomini che donne in questi ruoli, e non ha niente a che fare con scorrettezza grammaticale, uso improprio, cacofonia, come spesso si crede11. Inoltre, possiamo introdurre buone pratiche a lezione, come quella di presentare testimonianze femminili di professioni a dominanza maschile (un’ingegnera in carne e ossa) e testimonianze maschili per lavori svolti più spesso da donne (un ostetrico in carne e ossa). Ma si dovrebbero anche selezionare dalla storia delle discipline – umanistiche, ma soprattutto scientifiche – figure femminili tanto importanti quanto trascurate, e bisognerebbe farlo in modo sistematico, nei programmi scolastici e in quelli universitari12. Sembrano azioni di poco conto, ma la resistenza che si incontra, quando si prova a realizzarle davvero, testimonia quanto sia difficile per chiunque, anche ai livelli più alti di istruzione, sradicare abitudini mentali consolidate da decenni. Perché gli stereotipi, come ho cercato di mostrare, vivono silenziosi in noi e, soprattutto, sono duri a morire.
NOTE
- Cfr. ad esempio F. Batini (a cura di), L’ABC dell’uguaglianza di genere nell’istruzione. Attitudini, comportamento, fiducia. Il rapporto OCSE, «I Quaderni della ricerca», 32, Loescher, Torino 2016 (reperibile alla pagina https://laricerca.loescher.it/i-quaderni-della-ricerca-32/, consultata il 27 settembre 2021) e l’ultima ricerca «Valore D4 STEM» (giugno 2021), reperibile alla pagina https://valored.it/ricerche/valored4stem/ (consultata il 27 settembre 2021).
- Questa sintesi proviene, oltre che dalla mia competenza di parlante nativa, dalla consultazione comparata di almeno tre dizionari aggiornati, come sempre si fa in linguistica e semiotica per condurre in modo rigoroso l’analisi del significato di parole del linguaggio ordinario.
- Vedi W. Lippmann, Public Opinion, Macmillan, New York 1922 (in Italia L’opinione pubblica, trad. di C. Mannucci, Donzelli, Roma 1995).
- Cfr. B. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, il Mulino, Bologna 1997.
- Secondo l’ultima indagine Eurostat (2016), in Europa sono donne l’85% di insegnanti nelle scuole primarie, il 68% nelle secondarie di primo grado, il 60% in quelle di secondo grado. La situazione si ribalta nelle università, dove solo il 41% di docenti sono donne (https://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/7672738/3-04102016-BP-EN.pdf consultato il 27 settembre 2021).
- È questa la cosiddetta profezia che si autorealizza (o effetto Pigmalione), di cui si parla fin da R. Rosenthal, L. Jacobson, Pygmalion in the Classroom. Teacher Expectation and Pupils’ Intellectual Development, Irvington, New York, 1968 (in Italia Pigmalione in classe, trad. di P. Campioli, FrancoAngeli, Milano 1972).
- Secondo una ricerca Eurostat del 2021, in Italia le donne che lavorano in ambito scientifico e ingegneristico sono fra il 30 e il 40% (https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/-/edn-20210210-1, consultato il 27 settembre 2021).
- Questa somiglianza è riconosciuta da decenni in molte discipline che si occupano di mente, linguaggio, segni. In psicologia cognitiva cfr. G.W. Allport, The Nature of Prejudice, Addison-Wesley Boston, 1954 (In Italia La natura del pregiudizio, trad. di M. Chiarenza, La Nuova Italia, Firenze 1973). In filosofia del linguaggio cfr. H. Putnam, “The Meaning of ‘Meaning’”, in H. Putnam, Mind, Language and Reality, Cambridge University Press, London, 1975, pp. 215-271 (trad. it. “Il significato di ‘significato’”, in H. Putnam, Mente, linguaggio e realtà, trad. R. Cordeschi, Adelphi, Milano 1987, pp. 239-297). In semiotica cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975; Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984; Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997.
- Mazzara, cit. p. 21.
- Vedi nota 1.
- Sulla resistenza a declinare al femminile le parole che designano professioni, specie se queste godono di prestigio sociale, cfr. V. Gheno Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Effequ, Firenze 2019.
- Per cominciare, cfr. P. Odifreddi, Il genio delle donne, Breve storia della scienza al femminile, Rizzoli, Milano 2019.