Preferisco ammetterlo fin dal principio, per evitare equivoci. Il libro di cui parlo in questo articolo, Letteratura e darwinismo – Introduzione alla biopoetica, scritto da Michele Cometa e pubblicato da Carocci nell’autunno del 2018, ho dovuto leggerlo due volte, ripercorrendolo in lungo e in largo, tenendo sempre accanto, per consultarlo, il suo libro precedente (Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria, Cortina 2017), e mettendo mano – quando è stato possibile – ad altri testi, spesso altrettanto densi e carichi di stimoli e di prospettive, che vi sono presi in esame e interpretati.
È un libro importante, dunque, e non è detto che io sia il suo lettore ideale, né che sia in grado di restituirne la ricchezza e la complessità, tuttavia ritengo necessario rompere gli indugi e cominciare a parlarne, se non altro per condividere ciò, da insegnante e da studioso di didattica della letteratura, sto ancora imparando e mettendo gradualmente a frutto.
Il saggio prende le mosse dalla necessità di dare una risposta, con gli strumenti della teoria letteraria, alla teoria dell’evoluzione di Darwin e, più nello specifico, all’idea che la letteratura – e quindi tutti i comportamenti connessi alla pratica letteraria: la scrittura, la lettura, la narrazione orale… – rappresenti un vantaggio evolutivo per Homo sapiens, al punto di essere da molti considerata una delle attività indispensabili all’esistenza umana.
D’altronde, se pensiamo che la letteratura sia così importante per la vita umana – questo è uno degli argomenti forti del libro – non è forse necessario riflettere approfonditamente sul rapporto tra letteratura e vita? Ci dobbiamo accontentare di darlo per scontato, oppure, come propone l’autore, possiamo rimboccarci le maniche e capire cosa hanno da dire in proposito le scienze biologiche, le neuroscienze, la psicologia e l’archeologia cognitiva su come funziona l’essere umano? E non è questo che già fanno molti poeti e romanzieri, i quali attingono concetti, storie e interi repertori linguistici dalle scienze del bios?
I tempi sembrano maturi – e certamente lo sono per alcuni teorici della letteratura di formazione comparatistica, oltre che per molti scienziati – per mettere fine al regime di separazione che vige tra le due culture, l’umanistica e la scientifica, e costruire un orizzonte comune, fondato sulla consilience, cioè sulla «concordanza o convergenza tra i dati provenienti da ambiti disciplinari differenti» e, come auspica lo stesso autore nel suo libro precedente, sulla costruzione di «un syllabus bioculturale adeguato», ovvero di un curriculum di studi letterari e umanistici fondato su basi biologiche. L’adozione di quella che Cometa chiama una «prospettiva biopoetica» avrebbe tra l’altro il vantaggio di «emancipare la teoria letteraria (e la teoria dell’arte) dal localismo della propria visione occidentale, europea ed esclusivamente moderna, costringendola davvero a un confronto con l’altro da sé, con l’arcaico e con il “primitivo” che è fuori di noi almeno quanto è in noi» (p. 39).
Si tratta di una vera e propria «sfida transculturale» che ci aiuterebbe – scrive ancora Cometa – «a diffidare della “nostra” visione di ciò che è narrazione e letteratura» e anche – aggiungo io, anticipando alcune considerazioni che riprenderò in chiusura – a rimettere in discussione un insegnamento secondario ancora centrato su una visione etnocentrica e logocentrica dell’esperienza letteraria.
Sui motivi per cui questa sfida sia così difficile da accogliere, al di là delle sue implicazioni politiche e morali, Cometa si sofferma agli inizi del secondo capitolo, intitolato La svolta bioculturale, laddove è portato alla luce il conflitto – che si traduce di fatto nel rifiuto del reciproco riconoscimento e, quindi, in un mancato dibattito – tra gli esponenti del darwinismo letterario più ortodosso (il Literary Darwinism, un approccio nato negli anni Novanta tra gli anglisti degli Stati Uniti), i quali spesso rivelano un atteggiamento irridente nei confronti di post-strutturalismo e decostruzionismo, e i teorici della letteratura europei, i quali a loro volta accusano i neodarwinisti di riduzionismo, poiché sembrano voler ricondurre i fenomeni culturali alle leggi dell’evoluzione, operando semplificazioni considerate inaccettabili.
Contrario a questo pregiudiziale rifiuto di ogni dialogo, Cometa – e questa è una delle lezioni fondamentali del suo libro – sceglie di aiutare il lettore (e anche il ricercatore) a giudicare autonomamente la qualità e l’utilità di tutti quegli studi che possono contribuire a costruire quella che lui chiama una «biopoetica», e mette a nostra disposizione una preziosa e imprescindibile sintesi ragionata degli articoli e dei volumi più significativi degli ultimi trent’anni, dal pionieristico What Is Art For? (A che serve l’arte?) di Ellen Dissanyake ai più recenti articoli di Michelle Scalise Sugiyama, antropologa e psicologa evoluzionista specializzata nello studio del comportamento estetico e simbolico dell’Homo sapiens.
È un excursus di quasi duecento pagine, impossibile da riassumere in poche righe, da cui si ricavano informazioni bibliografiche, spunti di ricerca e informazioni necessarie a chi sia interessato non solo ad ampliare il suo orizzonte culturale (muovendosi dalla scienza del bios verso gli studi culturali, o viceversa) ma anche a chi, come il sottoscritto, ha il compito di riconfigurare oggetti e metodi dell’insegnamento al fine di renderli più efficaci e, soprattutto, dotati di senso.
Mi limito, di seguito, a riportare, sotto forma di elenco, alcuni degli stimoli più utili proprio in quest’ultima direzione, raccomandando tuttavia almeno una lettura integrale e ordinata del libro, che regala ai letterati anche un capitolo di teoria letteraria e di storia della critica caratterizzato da grande chiarezza e ordine, oltre che, specialmente nelle parti dedicate al Literary Darwinism più ortodosso, da una buona dose di ironia e di leggerezza.
Ecco dunque alcuni dei “guadagni” più specifici che l’insegnante e lo studioso di didattica della letteratura possono ricavare dalla lettura di questo libro (e, anche, di Perché le storie ci aiutano a vivere):
– Il concetto di making special (rendere speciale), usato per descrivere uno specifico comportamento di Homo sapiens, il quale tende appunto a “rendere speciali”, per esempio decorandoli, oggetti ritenuti importanti (utensili, armi ecc.) come anche situazioni e fasi della vita ritenute particolarmente rischiose, che vengono rese speciali attraverso riti e cerimonie. Si tratta di un comportamento universale, transculturale, dal carattere dispendioso – richiede l’impiego di tempo, energia e altre risorse – e per questo, dal punto di vista evolutivo, è considerato vantaggioso, altrimenti sarebbe stato eliminato nel corso dei millenni.
Indipendentemente dalla spiegazione della sua origine e dei suoi motivi più profondi, il concetto di making special ci aiuta a sganciare l’esperienza artistica dalle funzioni più avanzate (e civili) dell’uomo e a ricondurla alle fondamenta dell’educazione, ovvero, addirittura, alla relazione madre-bambino, e al bisogno di ridimensionare lo stress e di compensare i deficit esistenziali (tipici del cucciolo di Homo sapiens fin dalla nascita e nel primo sviluppo, quanto è massima la sua debolezza e la sua dipendenza dalla madre).
Per adesso mi limito, da insegnante, a ricorrere a questo concetto come promemoria, per ricordarmi che devo partire da qui per spiegare il senso della letteratura, tenendo a mente che si tratta di un comportamento che ha origini prelinguistiche e preestetiche, che ciascuno degli esseri umani con cui condivido l’aula ha in qualche modo sperimentato nel corso della sua esistenza. Ma soprattutto, uso questo concetto per dare valore e significato ad alcune pratiche di “artificazione” che sono alla base, oltre che del mio personale insegnamento, del laboratorio di lettura e di scrittura sviluppato a partire dal lavoro del Teachers College Reading and Writing Project della Columbia University, che, per esempio, attribuisce un ruolo fondamentale alle pratiche di scrittura su un quaderno (il taccuino dello scrittore: vedi Jenny Poletti Riz) che deve essere decorato e personalizzato dal suo proprietario.
Altrettanto valore è dato alla ritualizzazione del momento della pubblicazione, solitamente il più stressante, che viene gestito con una particolare sedia, la “sedia dello scrittore”, anch’essa decorata dagli studenti o dal docente stesso.
– L’idea che la letteratura, in quanto forma di comunicazione scritta, sia «una recente e per certi versi marginale variante di un comportamento, quello narrativo, di durata immemoriale» (Cometa, p. 63). La letteratura può essere intesa come un comportamento (un pensiero) narrativo applicato alla produzione di “oggetti” (i testi) portatori di un’intenzionalità estetica, che chiedono quindi di essere “attivati” nella mente e nel corpo di chi legge, facendogli provare – attraverso un grande e gratificante sforzo di attenzione – un certo tipo di piacere. È un’idea che conferma la necessità – già sostenuta dal sottoscritto su La ricerca online – di correlare gli studi letterari a una didattica basata su un approccio narrativo (e, quindi, empatica, partecipativa, orientante), e che spinge anche ad abbandonare, almeno per tutta la scuola dell’obbligo, il culto degli eroi della letteratura, quei monumenti che possono anche essere utili a trasmettere valori – ma su questo è legittimo avere dubbi, visti i risultati della scuola così come l’abbiamo conosciuta – o informazioni sulla storia patria.
La letteratura, come la narrazione, si basa su una capacità universalmente condivisa, e tutti hanno il diritto di sperimentarne anche le potenzialità più avanzate.
– La narrazione consente di sganciare l’azione reale dall’azione fisica (decoupling), mettendo l’individuo in grado di «esplorare diverse risposte in scenari mentali immaginati senza coinvolgere l’apparato motorio» (citato da Cometa a p. 59). Se questo è vero – come ci confermano i neuroscienziati – è allora difficile sottovalutare il potere effettivo che le persone acquisiscono grazie alla capacità di usare le storie non tanto per sentirsi parte di una comunità o di una “civiltà”, come accade nella didattica centrata sulla storia della letteratura, quanto semmai per poter disporre di un grande ambiente di apprendimento, una palestra in cui è possibile esercitare la mente, e quindi il corpo, alla risoluzione di problemi complessi senza correre grossi rischi.
Anche per questo ritengo che, prima di ogni altra cosa, sia necessario creare nei nostri alunni dei comportamenti da scrittore e da lettore, e non da critico o da analista del testo letterario. Prima di tutto, occorre che gli studenti facciano esperienze di lettura e di scrittura significative, dalle quali possano poi acquisire l’abitudine e poi la consapevolezza a risolvere problemi e a esplorare mondi attraverso la frequentazione, in senso lato, della letteratura.
– L’attività narrativa e, quindi, letteraria, ha origine nel corpo e non può avvenire in assenza del corpo. Il corpo di chi scrive, di chi legge, di chi narra o di chi ascolta. Il processo di comprensione è incorporato: avviene grazie ai sensi, ma anche attraverso l’attivazione della memoria a lungo termine, che viene modificata a ogni nuova comprensione.
Comprendere una storia comporta la riorganizzazione dei ricordi, e la creazione di nuovi schemi mentali che saranno poi usati dal cervello – dal corpo – per nuovi atti di comprensione. Il corpo, inoltre, non va pensato come un’entità isolata, poiché si estende, con la mente, agli oggetti a cui ricorre per mediare il suo rapporto con il mondo. E tra questi oggetti ci sono gli utensili in pietra, certo, ma anche i dispositivi digitali e, ovviamente, i testi, che hanno sempre una loro fisicità (sono visibili, udibili, tattili) e che sono delle vere e proprie protesi a cui possiamo ricorrere in ogni momento della nostra vita. È sufficiente andare in biblioteca, allungare una mano verso la libreria o scorrere il pollice sullo schermo, per instaurare una relazione dalle potenzialità straordinarie. Cerco sempre di ricordarmene quando devo pensare alla mia attività didattica: ho a che fare con corpi senzienti, i quali devono provare sulla loro pelle il senso di certe pratiche.
Per questo insisto sulla necessità di far toccare i libri, possibilmente scegliendoli da un mucchio o da uno scaffale, e, anche, di ascoltarli mentre escono dal mio corpo, letti ad alta voce. Non perché sono un sentimentale, ma perché cerco, semplicemente, di concordare la mia formazione umanistica a quella scientifica.