Si può dire: “sono un filosofo”?

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Sally Haslanger, docente di filosofia al MIT, racconta che la sua risposta di essere una filosofa, alla richiesta su che lavoro facesse, suscitava ilarità. Una volta, alla sua richieste delle ragioni di quel riso, si sentì rispondere: “Penso ai filosofi come a uomini vecchi con la barba, e tu di sicuro non sei così! Sei troppo giovane e attraente per essere un filosofo” (qui l’articolo). L’autrice usa l’episodio per riflettere sulle donne in filosofia, ma l’esempio è ottimo anche per ragionare sulla possibilità di una simile autopresentazione e, anzi, credo si debba cominciare proprio da qui.

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Dove trovare qualcuno che possa legittimamente dirsi un filosofo? Un docente di liceo, insegnante di filosofia, ha diritto di dirsi, a motivo della sua professione, filosofo? Direi di no, perché il fatto di presentare il pensiero di altri e di aiutare dei giovani a riflettere non basta a fare di qualcuno un filosofo. Forse allora, andando a cercare il filosofo all’Università, si hanno maggiori speranze. In Italia però, una gran parte dei docenti universitari che insegna le discipline filosofiche, anche per uno strascico gentiliano, insegna in realtà storia della filosofia. Di nuovo, insegnare cosa hanno pensato i filosofi non autorizza a dirsi filosofo e il fatto di farlo con gli strumenti più raffinati e con particolare originalità, non è di alcun aiuto. Se questo è vero, pare però seguirne che almeno tutti gli altri, cioè quelli che fanno filosofia, ma non sono e non fanno gli storici della filosofia, debbano essere filosofi. Se però ci si riflette bene, si vede presto che nemmeno di questi si può avere la certezza che siano filosofi. Si tratta infatti di gente che scrive libri di filosofia, ma sembra che ciò sia insufficiente per fare di qualcuno un filosofo. Lo scrivere di filosofia non è una condizione né necessaria, né sufficiente per essere filosofi: ci sono stati grandi filosofi che non hanno scritto niente (tipicamente Socrate) e autori che hanno scritto di filosofia senza essere filosofi (in Italia, per esempio, Luciano De Crescenzo). Essi poi insegnano la filosofia, ma abbiamo visto che anche gli storici della filosofia la insegnano (insegnando il pensiero dei filosofi) e però non sono filosofi. Si può ribattere che essi, diversamente dagli storici, non insegnano la filosofia mediatamente (attraverso il pensiero di altri), ma la insegnano direttamente, attraverso il loro stesso pensiero. Secondo questa obiezione il modo diretto di presentare le idee, garantisce il ruolo di filosofo. Fosse così però, quasi tutti coloro che annoveriamo nel firmamento della filosofia non potrebbero aspirare a dirsi filosofi, perché hanno sviluppato il loro pensiero mediatamente, discutendo e criticando il pensiero di altri. E, dopotutto, comunque, un buon numero di ottimi filosofi non ha mai insegnato all’Università.

Mi pare che un via concettualmente pulita e rigorosa per affrontare la questione con la speranza di fare dei passi avanti attraversi la filosofia sociale. Si dirà allora che filosofo è un ruolo sociale che si predica di un agente sociale. Ciò non è però tutto. Bisogna anche aggiungere che “filosofo” si dice in almeno due modi: come ruolo emergente e come ruolo istituito. Quanto al secondo, filosofo è colui che è stato legittimamente nominato tale. Nella nostra società, tipicamente, il docente universitario che insegna una disciplina filosofica può legittimamente definirsi filosofo: il fatto di aver vinto un concorso e di insegnare la filosofia all’Università lo rende tale. Dicevo però che “filosofo” si predica anche come ruolo emergente: esso emerge da una pratica di riflessione che riguarda le grandi questioni tradizionalmente ascritte alla filosofia e che comporta un certo rigore mentale, un pensiero originale, eventualmente un certo stile nel modo di essere. Nell’immaginario comune il ruolo emergente, che è poi quello che primariamente si collega al termine, è associato alle figure di alcuni personaggi storici (esemplarmente, Socrate, Platone, Aristotele, tutti con la barba). Non si tratta solo di persona di cultura filosofica che dispone di alcune abilità tecniche di cui i filosofi sono maestri (p.e. la dialettica o una certa abilità del “manovrare concetti”), bisogna che ci sia qualcosa di più: una certa saggezza, una capacità di pensiero speculativo, di profondità di giudizio. Rispondendo “sono un filosofo” si attribuiscono a sé tutte queste qualità e perciò non mi stupisco che la reazione sia il riso. Per certi versi dire “sono un filosofo” è sulla stessa linea, ma di un ulteriore passo di troppo, rispetto a quando si dice: “sono umile”. Non è una questione di sesso: che lo dica una donna o un uomo, l’espressione “sono un filosofo” è poco felice, o quantomeno provocatoriamente spavalda.

Vi è, a dire il vero, un senso umile dell’espressione, nella fedeltà al suo etimo: il filosofo è colui che ama la sapienza. In questo senso, ammettere di esserlo è proferire una dichiarazione di amore, è un gesto di umiltà, un socratico riconoscimento del proprio anelito al vero. Il problema è che questo senso dell’espressione, nell’immediato di un dialogo, difficilmente può essere colto. La soluzione perciò consiste, a mio parere, nel rispondere alla domanda su cosa si fa, rispondendo: “insegno filosofia”. Si tratta di un modo di presentarsi umile, che lascia tra le righe la dichiarazione d’amore, e al contempo lascia aperto, anche per il modo dimesso con cui è porto, che a parlare sia stato davvero un filosofo. All’interlocutore o forse ai posteri il giudizio.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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