Sguardi che liberano pensieri. Ghirri e Celati

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Luigi Ghirri, uno dei massimi fotografi del secondo Novecento italiano, concepiva l’arte fotografica come dispositivo di selezione delle percezioni e attivazione di un campo di attenzione attraverso cui recuperare una “visione naturale” degli ambienti e dei paesaggi umani. Un’idea antisistemica e a suo modo radicale, condivisa, sul piano letterario e cinematografico, dal sodale Gianni Celati.

Nel saggio che chiude il volume Lezioni di fotografia di Luigi Ghirri, meritoriamente pubblicato dalle edizioni Quodlibet di Macerata per le cure di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro e giunto nel 2014 alla terza ristampa, Gianni Celati definisce l’amico fotografo «un uomo normale, ma pensante». La normalità di cui parla Celati è riferita alla piacevolezza della persona e alla semplicità delle sue abitudini, naturalmente, e non alla sua opera, tra le più straordinarie del secondo Novecento, non solo in Italia. È tuttavia sulla parola «pensante» che merita soffermarsi, perché il suo impiego non deve essere letto come una generica allusione all’intelligenza e alla cultura dell’artista emiliano (anche se l’uso dell’avversativa “ma” insinua il dubbio che per Celati la maggior parte degli uomini “normali” si astengano dalla pratica del pensiero), bensì come un riferimento al fatto che Ghirri letteralmente pensava attraverso la fotografia, attraverso l’immagine.

Lo si vede bene in questa straordinaria raccolta di lezioni, né astratte né sistematiche, ma segnate da una produttiva frammentarietà di esercitazioni alla visione, svincolate da ogni dogmatismo o ansia catalogatoria, all’insegna di una pratica liberamente associativa e insieme costantemente speculativa. Ghirri lavora sempre per sottrazione, nel doppio senso della parola: rifiuta l’accumulo percettivo a vantaggio di una elementarità evocativa, contemplativa, e inoltre si sottrae sistematicamente alle trappole del “già visto” e del “ben fatto” (la fotografia industriale è uno dei suoi bersagli polemici più frequenti).

Non procede, si potrebbe dire, per accumulo orizzontale di contenuti e sensazioni, ma per scavo verticale, approfondimento del senso e riflessione sul valore di quanto l’occhio osserva e la macchina fissa. In questo senso, si può ben dire che la sua è una fotografia pensante, una fotografia che pensa il suo farsi.

 

Ciò che appare eccezionale di questo libro è che può essere letto sia come un manuale di fotografia vero e proprio che come un testo di propedeutica alla visione, un vademecum di educazione al pensiero per immagini. Più si procede nella lettura, più chiaramente emergono i numerosi punti di tangenza con le opere letterarie e cinematografiche dell’amico Celati, da Narratori delle pianure (1985) a Verso la foce (1989), da Cinema naturale (2001) alle pellicole Strada provinciale delle anime (1991) e Case sparse (2002): ma in realtà il discorso potrebbe prolungarsi fino al Celati più recente, quello dei viaggi in Africa, ad esempio.

Lezioni di fotografia è sia manuale di fotografia vero e proprio sia testo di propedeutica alla visione, vademecum di educazione al pensiero per immagini.
I due autori condivono lo stesso sgomento per gli orrori della civiltà contemporanea – Ghirri parla per l’uomo d’oggi di un «disastro visivo colossale» (p. 54) – senza tuttavia che questo sfoci nel macerante quanto vano catastrofismo che aveva contraddistinto il pensiero di alcuni “padri nobili” della letteratura italiana all’altezza degli anni Settanta, dall’ultimo Pasolini al Calvino degli anni di Palomar. Nei loro rispettivi percorsi autoriali, frequentemente intrecciatisi nel corso degli anni Ottanta, Ghirri e Celati si sforzano di individuare una terza via rispetto ai vicoli ciechi dell’ottimismo insensato (l’adeguamento idiota alle bestialità del presente) e del pessimismo abissale (il rifiuto completo e annichilente del proprio tempo), avendo ben salda in testa la lezione di un loro conterraneo che per tutto il Novecento ha trafficato con la letteratura, il cinema, la fotografia e la pittura: Cesare Zavattini.

Questa terza via consiste nella ricerca di uno sguardo naturale, intendendo con tale formula uno sguardo quanto più possibile aderente alla natura, libero dai condizionamenti culturali e dalle emozioni mediali che l’epoca impone; uno sguardo non intellettualistico, non documentaristico, privo di intenzionalità statistiche o pregiudizi iconografici, ma neppure freddamente disincantato, qualunquista o presuntuosamente ascetico. Uno sguardo non di acquiscenza ma neppure di denuncia, mobile e inquieto, critico in senso dialettico e non polemicamente preordinato. Uno sguardo, insomma, deciso a entrare in dialogo con «tutto quello che c’è», direbbe Celati, a comprenderlo e persino ad amarlo nella sua finitudine e imperfezione. “Misurarsi con la fotografia” significa per Ghirri non solo sfruttare al meglio il mezzo tecnico per ottenere risultati professionali e artistici di alto livello, ma soprattutto prendere, attraverso un incessante accostamento alle immagini, le misure a se stesso, alla propria sensibilità e alla natura dei tempi che gli sono toccati in sorte.

Lo sguardo diventa in quest’ottica un modo per confrontarsi apertamente con il reale, e non è un caso che verbi come “comprendere”, “rapportarsi”, “mettersi in relazione” tornino frequentemente nel corso delle lezioni. Ghirri invita i suoi allievi a «dare spazio alle cose», a non lavorare sulle immagini – che nel suo caso, come in quello della narrativa celatiana, sono spesso immagini di paesaggi – avendo in testa un risultato già deciso, bensì lasciando libero corso all’imprevedibile, alla scoperta dello sconosciuto e dell’inatteso. Solo aprendo al massimo, per così dire, il diaframma della sensibilità, sarà dato accogliere la complessità dell’esistente:

si tratta di attivare un processo mentale, di attivare lo sguardo e cominciare a scoprire nella realtà cose che prima non si vedevano, anche dando agli oggetti, agli elementi della realtà un altro significato. Attivare un campo di attenzione diverso (p.162).

Tale processo costituisce l’antitesi dei meccanismi di accelerazione tecnologico-percettivo in atto nella contemporaneità, dal momento che richiede tempo, pazienza, voglia di approfondimento e disponibilità ad accogliere in modo incondizionato ciò che cade sotto i nostri occhi. Statica come la pittura, dinamica come il cinema, quella fotografica è per Ghirri una «immagine impossibile» (p. 23), per molti versi enigmatica, ma proprio questa sua eccentricità le consente di occupare, oggi, un ruolo decisivo dal punto di vista comunicativo, perché rallentando «la velocizzazione dei processi di lettura dell’immagine», «rappresenta uno spazio di osservazione della realtà, o di un analogo della realtà […] che ci permette ancora di vedere le cose» (p. 55).

Ghirri difende il diritto dell’uomo a far divagare mente e passi in cerca di attrazioni momentanee, fortuiti incontri con la naturalità delle cose, con lo stupore del sentimento di stare al mondo.
Coltivando un’ostinata, inattuale, «lentezza dello sguardo», il fotografo cercherà di muoversi incessantemente «alla ricerca di quello strano e misterioso equilibrio» tra interiorità e mondo esterno che solo può consentirci di arrivare a una salutare de-soggettivizzazione dell’io, o, come scrive Ghirri, «a dimenticarci un po’ di noi stessi» (p. 21). Di contro alle ingiunzioni del pensiero trionfante che nega valore e dignità agli individui improduttivi e a ogni azione priva di uno scopo immediatamente monetizzabile, Ghirri difende il diritto dell’uomo a disperdersi, a far divagare la propria mente e i propri passi in cerca di attrazioni momentanee, fortuiti incontri con la naturalità delle cose o, come scrive Celati, con lo stupore derivante dal «sentimento di “stare al mondo”» (p. 263).
La stessa urgenza, pacifica ma inflessibile, di rapportarsi con il reale attraverso uno sguardo capace di liberare pensieri, di vagare e smarrirsi nell’ambiente per restituire in chiave laica il mistero dell’esistenza e la meraviglia suscitata da «tutto quello che c’è», si ritrova nelle pagine di molti testi celatiani degli ultimi trent’anni. Esemplare, in tal senso, la Notizia che apre Verso la foce, libro tutto improntato a quel “narrare naturale” che rappresenta il corrispettivo letterario della “visione naturale” ghirriana:

Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicini alla nostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi.

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Riccardo Donati

Docente e saggista, insegna all’Università di Napoli “Federico II”; tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “I veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi” (Bulzoni, 2010), “Le ragioni di un pessimista. Bernard Mandeville e la cultura dei Lumi” (ETS, 2011), “Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione” (Le Lettere, 2014), “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier, 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue, 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci, 2020), “Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici” (Quodlibet, 2022), “«Queste mie carte argute». Sei studi su Giuseppe Parini” (Cesati, 2022). Si occupa di letteratura italiana ed euro-statunitense dal Settecento a oggi, con interventi in volume e in rivista; nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il “Premio Giuseppe Borgia” per i suoi contributi sulla poesia.

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