Ritorno all’olocene

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Siamo tornati nell’Olocene. O forse non ne siamo mai usciti. La notizia della bocciatura del termine Antropocene ha fatto rumore e sollevato qualche riflessione. Gli effetti delle azioni antropiche, però, sono più che mai evidenti e chiamano in causa la responso-abilità.

All’improvviso ci siamo ritrovati nell’Olocene! Colpo di scena, ribaltamento, il coniglio è stato estratto dal cilindro. Il trucco di magia è riuscito, il pubblico incredulo manifesta espressioni di stupore sui propri volti. Terminato il fugace attimo di sospensione e meraviglia, possiamo iniziare ad applaudire riempiendo la sala del fragoroso suono del successo. Ovazione e tripudio. Dopo lungo e tormentato peregrinare abbiamo fatto ritorno al nostro amato lido, nella zona di comfort che conosciamo tanto bene: quell’epoca che ci ha dato tante soddisfazioni, che ci ha visti crescere e riempiti di illusioni portatrici di fallaci e pericolose speranze.

Olocene fuori dal cilindro

La notizia della mancata approvazione del termine Antropocene per designare l’epoca geologica in cui stiamo vivendo ha fatto un certo clamore, ma non deve essere interpretata erroneamente. Soprattutto non deve concedersi a facili strumentalizzazioni. Coloro (pochi) che ancora negano il coinvolgimento delle attività antropiche nelle crisi ambientali potrebbero vedere in questa novella un’insperata scialuppa di salvataggio, un dono caduto dal cielo di inaudita generosità. Ma non si tratta di questo e sarà meglio fare un po’ di chiarezza.

Come ha scritto Sara Urbani nell’articolo Non solo Antropocene, il 5 marzo 2024 l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche (Iugs) ha bocciato la proposta che l’Anthropocene Working Group stava portando avanti dal 2009. In quell’anno, il gruppo di lavoro aveva ipotizzato – sostenuto da basi scientifiche – l’inizio di una nuova epoca geologica: la Terra, e di conseguenza gli esseri umani, era uscita dall’Olocene (il periodo iniziato con la scomparsa dei ghiacciai wurmiani e dei grandi carnivori circa 11700 anni fa), ed era entrata in un’epoca segnata dalle modificazioni impresse dall’essere umano all’ambiente, visibili anche negli strati rocciosi, l’Antropocene.

Gli esseri umani sono diventati una forza geologica le cui azioni hanno conseguenze evidenti sugli equilibri biogeochimici terrestri. Immagine CC.

Ora non intendo dilungarmi su questo punto, poiché la vicenda e le possibili alternative al termine sono state esaustivamente descritte nell’articolo sopracitato. Ciò su cui desidero concentrarmi, invece, sono le riflessioni che seguono a quanto accaduto.

In bilico tra epoche geologiche

In primo luogo, la momentanea bocciatura del termine non ha niente a che fare con il giudizio sul ruolo che le azioni umane, o meglio, che il modello capitalista (secondo il concetto di Capitalocene di J.W. Moore[1]) genera sull’ambiente e sulla Terra, nelle sue componenti biotiche e abiotiche. Per essere più chiari, chi ha bocciato la proposta di adottare il termine Antropocene continua a ritenere che l’azione antropica sia responsabile delle crisi in atto. E su questo c’è ampio consenso tra gli scienziati. Piuttosto, le ragioni della bocciatura dipendono dalla difficoltà di individuare un periodo preciso che indichi l’inizio della nuova epoca geologica: la detonazione della prima bomba nucleare[2], la rivoluzione industriale, l’avvento dell’agricoltura? Si registra anche un certo attrito tra gli studiosi nel decidere quale debba essere il sito di riferimento che meglio descrive il passaggio da un’epoca all’altra: quale luogo e quali strati sedimentari esplicano meglio l’impatto antropico sulla Terra? Quali sono in grado di giustificare l’uscita dall’Olocene? A ciò si deve aggiungere la giustificabile scarsa confidenza di una disciplina come la geologia di ragionare su tempi recenti e brevi. Se l’inizio dell’Epoca umana (poiché Anthropos significa Uomo, da qui il termine Antropocene) deve essere individuato nella comparsa della bomba atomica (1945), una settantina di anni sono troppo pochi per una disciplina abituata ad analizzare tempi molto più lunghi e lontani. Il dibattito sulla nuova epoca, dal punto di vista geologico, ma non solo, è sferzato e dilaniato da una meticolosità caratteristica – e giustificabile – che permea un approccio scientifico prevedibilmente minuzioso.

Dunque, l’Antropocene – insieme alle altre definizioni che, compenetrandosi a vicenda, arricchiscono in maniera esaustiva la condizione attuale, come quelle di Capitalocene, Piantagionocene, Plasticene, Pandemicene, Pirocene, Chthulucene – esiste ed è più presente e urgente che mai, se lo intendiamo come gli effetti che l’azione umana ha impresso sulla Terra. La mancata adozione del termine, infatti, non cancella all’improvviso – come in un gioco di magia – l’aumento degli eventi estremi che minacciano vite umane e più-che-umane[3] (alluvioni, siccità, incendi, ondate di calore, raffiche di vento ecc.), così come la perdita di biodiversità che cresce e viene perpetrata quotidianamente, l’alterazione dei cicli biogeochimici, l’aumento della concentrazione di inquinanti nell’aria, nell’acqua e nel suolo, la formazione di rocce di plastica fusa che prendono il nome di plastiglomerate[4], e l’emersione di fenomeni più propriamente psicologici che affliggono ogni fascia di età come l’ecoansia e la solastalgia[5]. Il ritorno dell’Olocene non si presenta quindi come una buona novella giunta a scacciare i nostri mali, ma piuttosto come un ennesimo campanello d’allarme che si somma a quelli che già da tempo stanno risuonando per implorarci di agire. Dovremmo essere storditi dal frastuono che producono!

Diventare responso-abili

Chiarito questo punto, però, il tonfo del termine Antropocene ci deve fare riflettere sulla nostra capacità di adoperare quella che Donna Haraway chiama “responso-abilità” (response-ability). Una capacità essenziale per abitare il mondo e vivere nel presente, restando “a contatto con il problema” (Haraway, 2019). La questione si lega indissolubilmente a quelle proteste che milioni di giovani, e non solo, stanno portando avanti ormai da diversi anni nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo: siamo immersi in una crisi (forse) senza precedenti, i nostri piedi sprofondano in terreni alluvionati e le voci si fanno sempre più flebili a causa dell’arsura dettata dalle siccità. Parlare di “crisi” al singolare pare quasi un oltraggio, poiché l’emergenza si irraggia a trecentosessanta gradi nei mari, nei suoli, nei cieli e in ogni ambito di vite umane e più-che-umane. Essere responso-abili significa proprio recuperare questa consapevolezza: le crisi vanno trattate come tali. Occorre vivere nel presente, essere presenti al presente, ed essere abili a rispondere di conseguenza. Per questo il dibattito sull’Antropocene, sferzato da indecisioni, punti di vista differenti, ripensamenti e minuziosa rigorosità scientifica – un carico giustificabile, ma altrettanto gravoso da rallentarne l’andatura – va slegato dall’Antropocene in atto, dalle crisi e dalle relazioni che lo attraversano. Relazioni! Questo modo di vivere e abitare la Terra in corrispondenza con Altri pressoché estinto, che sopravvive ormai quasi unicamente in termini teorici. Perché se l’Epoca umana ha mostrato l’impatto antropico sulla Terra e le crisi in corso, ha anche manifestato con veemenza le reti che gli esseri viventi intessono tra loro e con l’ambiente che li ospita. Si tratta di relazioni di mutua dipendenza da cui non è possibile districarsi.

Le crisi dell’Antropocene coinvolgono tutti, umani e più-che-umani. Oggi il tasso di estinzione è da 100 a 1000 volte superiore a quello naturale. Immagine: CC.

Julia Adeney Thomas, storica dell’Università di Notre Dame nell’Indiana, afferma che abitiamo un pianeta fondamentalmente imprevedibile (Witze, 2024), questo è l’Antropocene. Un presente in cui gli esseri umani fanno ritorno nella Natura, dopo aver creduto di potersene tirare fuori, per fare i conti con essa. La Natura negli ultimi secoli, è diventata Altro dall’Uomo, distaccata, a sé. Uno scenario sullo sfondo, risorsa da sfruttare, sostituibile ed esportabile. Nelle definizioni di Capitalocene e Piantagionocene questa concezione della Natura è essenziale: umani, più-che-umani, ecosistemi sono stati trasformati in merce e tutto ciò che non soddisfa questo requisito può o deve essere eliminato. Nell’Antropocene, al contrario, la Natura non è più un paesaggio statico e inerte su cui agire a piacimento, ma ci riagguanta scuotendoci e agisce e reagisce (Latour, 2020) agli agenti inquinanti, all’antroturbazione che scava e divora il pianeta, alla morìa di forme di vita che sancisce l’ecocidio in atto. Una Terra imprevedibile comporta vite imprevedibili e precarie. Come scrive Anna Tsing, una delle antropologhe contemporanee più attente e sensibili a questi temi, la precarietà è un carattere determinante delle vite che conduciamo (Tsing, 2021), prive di quella promessa di stabilità che aveva abbagliato e confortato una parte della popolazione mondiale nel corso del XX secolo. Occorre evidenziare che la precarietà, l’imprevedibilità e le conseguenze dell’Antropocene-Capitalocene-Piantagionocene (ecc.) coinvolgono tutti, esseri umani e più-che-umani, ma soprattutto i più fragili e indifesi: le fasce più povere della popolazione umana e quelle specie che hanno più difficoltà a adattarsi ai cambiamenti. Facendo riferimento all’Uomo, i gruppi che risentono maggiormente delle conseguenze sono anche quelli che contribuiscono meno alla costruzione della nuova Epoca umana.

Lasciare spazio

Per questo il ritorno al passato, all’epoca d’oro dell’Olocene, ci mostra i limiti evidenti degli esseri umani (per lo più bianchi, occidentali e benestanti, che sono anche coloro che in linea di massima sono investiti di potere decisionale) nel confrontarsi con le trasformazioni in corso. Limiti che non possono essere una giustificazione all’incapacità di coltivare la responso-abilità e di restare a contatto con il/i presente/i. Le crisi vanno trattate come tali. Per questo nonostante il termine Antropocene (e annessi) abbia registrato una caduta fragorosa, continuerà a essere adoperato per esprimere ciò che tutti stiamo vivendo, con l’aggiunta di altre definizioni che possano aiutare a comprendere meglio i caratteri del presente.

In conclusione, l’Epoca umana – non facciamoci fuorviare dal termine, poiché le conseguenze ricadono su tutti gli esseri viventi – ha molto a che fare con la volontà di lasciare spazio. Con ciò intendo la necessità di ridurre la pervasività dell’Uomo sul pianeta e la voracità di un sistema che trasforma forme di vita in merci e risorse. Ma anche la capacità di permettere all’Altro, umano o più-che-umano, di coltivare il proprio ambiente di vita: talvolta occorre farsi da parte per promuovere un dialogo, lasciando respirare. Inoltre lasciare spazio significa dare vita a relazioni, parentele (Haraway, 2019) umane-più-che-umane che favoriscano una rinascita multispecie (Tsing, 2017), ossia paesaggi vivibili frutto della cooperazione tra organismi. Con questo molteplice significato, lasciare spazio permette anche di voltare pagina e andare oltre l’Olocene. Che l’epoca in cui viviamo porti con sé un nuovo termine o meno, gli effetti del cambiamento sono tangibili. E noi dobbiamo saper essere presenti.


Bibliografia

–        G. Albrecht, G. Sartore, L. Connor, N. Higginbotham, Solastalgia: the Distress Caused by Environmental Change, in «Australasian Psychiatry», vol. 15, num. 1., febbraio 2007.
–        E. Brum, Amazzonia. Viaggio al centro del mondo, trad. I. V. Barca e G. Falconi, Sellerio, Palermo 2023.
–        D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Produzioni Nero, Roma 2019.
–        B. Latour, La sfida di Gaia, trad. I. D. Caristina, Meltemi, Sesto San Giovanni (MI) 2020.
–        A. Nocera, From Denis Villeneuve’s Arrival to Adam McKay’s Don’t Look Up, cultivating a meeting ground for communicating the Anthropocene: will we speak Eggplant?, in E. Nicosia, L. Lopez (a cura di.), Cinema, Disasters and the Anthropocene, «Geographies of the Anthropocene», Il Sileno Edizioni, Vol. 5, No. 2., 2022.
–        A.L . Tsing, A Threat to Holocene Resurgence Is a Threat to Livability, in M. Brightman, J. Lewis (a cura di), «The Anthropology of Sustainability», Palgrave Macmillan, Londra 2017.
–        A.L. Tsing, Il fungo alla fine del mondo, trad. I. G. Tonoli, Keller, Rovereto 2021.
–        A. Urbani, Non solo Antropocene, «La ricerca» online, 27 marzo 2024.
–        A. Witze, Geologists reject the Anthropocene as Earth’s new epoc – after 15 years of debate, in «Nature», vol. 627, pp. 249-250, 14 marzo 2024.

Note

1. Secondo Moore, le crisi ambientali di oggi non sarebbero causate da un generico Anthropos, dalla specie Homo sapiens nella sua totalità – come potrebbe suggerire il termine Antropocene –, ma dal sistema capitalista, fondato sull’organizzazione della natura, sulla subordinazione di questa, sia umana che non, al fine di produrre e accumulare capitale e ricchezza.

2. Più precisamente, l’anno individuato sarebbe il 1952. Il momento in cui il plutonio proveniente da test di bombe all’idrogeno è comparso nei sedimenti del lago Crawford (Toronto, Canada), il sito scelto da alcuni geologi come golden spike – esempio o marcatore di riferimento – per registrare l’impatto dell’uomo sulla Terra.

3. Con il termine simbiotico “più-che-uman*” faccio riferimento a tutti quegli esseri viventi che sono altro dall’umano. Solitamente ci si riferisce a essi come “non-umani”, ma qui adotto da Eliane Brum un termine che suggerisce qualcosa di diverso: «l’idea che ci sono molti più mondi al di là dell’umano e il messaggio che l’insieme di quelli che sono altr*, anche se visti attraverso il concetto limitato di specie, è molto più importante di una specie sola. “Più-che-uman*” è una definizione meno povera di “non uman*” e, allo stesso tempo, una provocazione» (Brum, 2023).

4. Il plastiglomerate venne scoperto per la prima volta nel 2006 dall’oceanografo Charles Moore a Kamilo Beach (Hawaii). Si tratta di conglomerati di plastica fusa, sedimenti di spiaggia, frammenti di lava basaltica e detriti organici.

5. La solastalgia è un senso di angoscia, che può degenerare anche in malattia, dovuto alla perdita dello stato attuale della propria casa, territorio, paesaggio con cui ci si identificava e a cui si sentiva di appartenere (Albrecht et al., 2007; Nocera, 2021).

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Andrea Nocera

è laureato in Storia e in Antropologia. Negli ultimi anni, anche grazie al Master “Futuro Vegetale”, si è avvicinato al mondo delle piante, da cui trae ispirazione per indagare i rapporti umano-non umano e immaginare modi di abitare più integrati.

Oggi lavora nel gruppo di ricerca della Fondazione Futuro delle Città di Firenze, collabora come autore e revisore di testi per Lœscher Editore e altre case editrici ed è co-fondatore dell’Associazione Fungi CollectIF.

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