Siamo tornati a scuola il 15 settembre come se fosse un rientro normale in una scuola normale in un anno normale. Il ritorno alla normalità è stata la bandiera del Ministro Bianchi per tutta l’estate.
Purtroppo questo non è un anno normale e ciò che vediamo sui banchi ogni giorno lo dimostra.
Studentesse e studenti che faticano a riprendere un ritmo di lavoro, faticano a stare nelle regole, faticano e hanno due reazioni: o si lasciano andare completamente o diventano nervosissimi e irascibili oltre ogni limite. Prevale la rinuncia e si capisce cose c’è sotto: sotto c’è «non ce la faccio», «non capisco nulla di quanto mi chiedono di fare», «non capisco il senso di questa fatica». Forse non in tutte le scuole è così, ma in tante sì, almeno a sentire il confronto fra colleghe e colleghi. Forse alunni più solidi, o semplicemente più inquadrati (non sempre un bene, per me), sopportano regole e situazioni difficili. Forse si adattano perché hanno sperimentato quanto adattarsi preservi la specie. In altri casi si assiste al disastro di una scuola che vorrebbe governare il disagio – anche dei docenti, diciamolo – solo con regole e punizioni. Il disagio viene da lontano. C’era già prima, ovviamente, ma si riusciva a trattenerlo ad arginarlo. Adesso esplode in modo che non è contenibile.
Questi studenti e studentesse ci stanno dicendo che la scuola delle regole e basta non funziona. Lo dicono male, a volte senza nemmeno sapere di dirlo. Lo dicono dormendo sui banchi per sei ore, lo dicono con le loro cuffie nelle orecchie per sei ore, lo dicono rifiutandosi di fare l’intervallo in classe, di non poter uscire in corridoio, di non avere aria o spazi in cui respirare. 29 in uno spazio di metri 6×5 o giù di lì non va bene. Nemmeno 24. Mascherine su e giù come automi per loro vaccinati, quasi tutti, è inconcepibile. Ma intanto arrivano solo regole da rispettare. Mai nessuno che dia un nome al problema e lo metta al centro. Stiamo male, tutti, parliamone. Forse si potrebbe iniziare così. O forse da una lettura ad alta voce dove un problema si affronta parlando. L’esercizio della parola che è quella che ci salva non esiste. Esiste l’urlo, la parolaccia, lo sbuffare (se va bene), la lite, la spinta, lo schiaffo.
Sono stati stabiliti ad agosto fondi per aiuti psicologici e pedagogici alle scuole. Io non ne vedo traccia. Forse altri sono più fortunati. Perché in fondo io ho bisogno di aiuto, non solo loro. Tutti ne abbiamo. Non ci è mai capitato prima di dover gestire un post pandemia, e non abbiamo strumenti. Esistono? Io credo che ragionando insieme potremmo trovarli. Ma non si fa. O almeno non con assiduità, non nei luoghi preposti, nei corridoi forse, negli angoli della sala docenti. Ma il ragionamento dovrebbe essere sistemico, globale e molto coraggioso.
Mi piacerebbe avere qualcuno a scuola a cui chiedere, con cui provare a confrontarmi. Un esperto che mi desse suggerimenti. Non c’è. Eppure non sarebbe forse una della prime figure che dovremmo avere a disposizione? Chi può si arrangia chiedendo ad amiche (come ho fatto io), ma tutti gli altri? Esistono presìdi in alcune scuole fortunate, ma nelle altre? Ritornare alla normalità era uno slogan, e tale è rimasto. Sembra un’illusione lontanissima. Non c’è alcuna normalità perché questo mondo non è più quello a cui si era abituati. Prima faremo i conti con questa ovvietà prima avremo qualche possibilità di recupero. Vedo già il numero degli abbandoni e degli studenti in dispersione aumentare. Vedo negli occhi dei ragazzi la richiesta di un aiuto a cui io per prima non so dare alcuna risposta.
Areazione delle aule, dicevano. Noi abbiamo aperto una finestra e si è staccata completamente dalla ciambrana. Crollata. Spostati banchi con alunni annessi. Metafora potentissima. Ci voleva di sicuro suggerire qualcosa.