Per comprendere il potere delle storie, proviamo a riflettere su cosa accade quando guardiamo un film o leggiamo un romanzo. Di solito ci immergiamo nel mondo rappresentato e veniamo trasportati in luoghi nuovi con persone nuove. In questi mondi narrativi, facciamo esperienza di una realtà simulata e proviamo emozioni reali in risposta ai conflitti e alle relazioni dei personaggi della storia.
Le storie sembrano dunque offrire una simulazione profondamente sentita dell’esperienza sociale: attraverso di esse le persone possono allenarsi a estendere la comprensione sulle altre persone, a incarnare e a capire le proprie convinzioni e emozioni, e infine a capire sé stesse.
Le storie esperite vanno a instaurare nella memoria di ciascuno di noi un repertorio – di schemi, di personaggi e di situazioni – che diventa materiale da costruzione dei racconti che facciamo a noi stessi e agli altri per dare un senso al mondo e alla nostra vita.
Anche per immaginarsi al lavoro le persone possono attingere dallo stesso “magazzino”, alimentato dal ricordo delle proprie esperienze vissute e di quella particolare esperienza mediata rappresentata dalle storie fruite nel corso della vita. Queste ultime rappresentano evidentemente la risorsa fondamentale per tutti coloro che non hanno avuto occasione di fare un’esperienza lavorativa: bambini, ragazzi, giovani adulti inoccupati, ecc. Categorie che sono quindi particolarmente influenzabili dalle storie di lavoro che le principali agenzie narrative diffondono in vari formati e generi.
I ragazzi e le ragazze delle scuole secondarie – in questo momento impegnati nella scelta della scuola di secondo grado – possono contare su un repertorio di storie televisive e cinematografiche che privilegiano la messa in scena di alcuni lavori, che potremmo definire super-rappresentati: poliziotti, carabinieri e medici protagonisti di fiction di successo; attori e attrici, presentatori e soubrette (per rimettere in circolazione una parola desueta ma ancora utile a riassumere le decine di definizioni usate per i ruoli femminili negli show televisivi), giornalisti e giornaliste che ogni giorno abitano il piccolo schermo.
Perché alcuni lavori sono più rappresentati di altri? Quali sono i criteri con cui i professionisti dei media scelgono le storie da raccontare? È possibile stipulare un patto educativo con gli addetti alla comunicazione al fine di favorire la pluralità e la veridicità delle storie?
Cominciamo dalla figura del medico, divenuta centrale nell’immaginario contemporaneo grazie al suo utilizzo nelle sceneggiature di numerose fiction televisive, a cominciare dall’ormai invecchiato Dottor Kildare, protagonista prima di una serie di romanzi dello scrittore Max Brand e poi messo in scena al cinema e, soprattutto, alla televisione, dando vita al primo medical-drama di successo. Il dottor James Kildare – interpretato dall’attore Richard Chamberlain e trasmesso in Italia nel 1963 – è un medico affascinante, buono, sempre disponibile, paladino dei deboli e antesignano della schiera di medici-eroi che dagli anni Sessanta in avanti ha popolato gli schermi delle televisioni di tutto il mondo: il medico legale Quincy, il chirurgo John Trapper, il pediatra Doug Ross.
La serie di maggior successo di questo genere è stata ER – Medici in prima linea (trasmessa negli USA dal 1994, in Italia dal 1996), ideata e prodotta dallo scrittore Michael Crichton (l’autore di Jurassic Park), con George Clooney nella parte del dottor Ross. Per il suo impianto realista e per la qualità di sceneggiatura e produzione, ER (Emergency Room, in italiano il pronto soccorso) è la serie che ha imposto definitivamente all’attenzione degli spettatori la figura del medico-eroe che dedica la propria professionalità e i propri strumenti alla salvezza dei pazienti bisognosi di aiuto.
Si tratta di uno schema di storia universale, tipico dell’epica cavalleresca, che consente allo spettatore di dare un significato all’attività professionale dei medici e dei paramedici (che dal punto di vista narrativo sono gli “aiutanti” dell’eroe) e che, nel caso di produzioni particolarmente realistiche e verosimili come ER, mette lo spettatore in grado di costruirsi uno scenario piuttosto preciso dell’ambiente di lavoro, delle procedure, della strumentazione e delle emozioni che sono in gioco in quelle determinate professioni.
Di fatto, la figura del medico è privilegiata dal mercato dei contenuti, perché facilmente collocabile all’interno di uno schema di storia ben radicato nella mente di milioni di persone, le quali non hanno difficoltà a riconoscere i ruoli, a crearsi delle aspettative e a provare piacere nel vederle soddisfatte.
Negli ultimi anni viene prestata maggiore attenzione al personale paramedico e ai tirocinanti che seguono i medici con la funzione di aiutanti. È il caso di Grey’s Anatomy, prodotta dal 2005 e giunta all’ottava stagione, di Scrubs – Medici ai primi ferri (prodotta negli USA nel 2001-2010, trasmessa in Italia nel 2003-2010), e soprattutto di Trauma (USA 2009, Italia 2010), di Mercy (USA 2009, Italia 2010) e di Hawthorne: Angeli in corsia (USA 2009, Italia 2011).
Per completare il quadro è importante almeno citare Dr. House – Medical Division (USA 2005-2010, Italia 2006-2010), il medico interpretato dall’attore e scrittore Hugh Laurie. Si tratta di una serie di grande successo, che ha portato all’attenzione del pubblico una figura di medico anomala (e di essere umano imperfetto, umorale, fallace). Il dottor House, infatti, è un internista-detective, protagonista di vere e proprie investigazioni condotte, con metodi spesso poco ortodossi, su pazienti affetti dalle malattie più rare e complesse.
Ma questa è un’altra storia.