Il cinema dello sguardo. Dai Lumière a Matrix, per le cure di Federico Pierotti e Federico Vitella (Marsilio, Venezia 2019) è un volume nato come omaggio a uno dei maggiori studiosi italiani di storia del cinema e di estetica cinematografica, Sandro Bernardi, le cui ricerche si sono avvalse non di un solo metodo ma di una pluralità di «istanze e sollecitazioni provenienti dalla fenomenologia, dall’estetica, dalla teoria e dalla storiografia», riuscendo sempre in «letture personali, originali ed eterodosse, filtrate dalla coscienza della distanza, da un sano scetticismo, da una calibrata ironia» (così i due curatori, p. 12).
Il libro è aperto da un saggio, Analyser dit-il, in cui lo stesso Bernardi espone la propria peculiare idea di “sguardo” come elemento posto all’incrocio delle due coordinate essenziali dell’invenzione cinematografica: l’ascissa della rappresentazione visiva e l’ordinata della rappresentazione narrativa. Come dire permanenza e transitorietà, contemplazione e ritmo, spazio e tempo, insomma due «amici-nemici che hanno bisogno l’uno dell’altro e nello stesso tempo cercano di sopraffarsi, di impadronirsi del testo» (p. 19).
Esemplarmente, lo studioso indica come figura paradigmatica, e potentemente attuale, di questa discorde convergenza, o convergente discordia, l’inconfondibile camminata di Charlie Chaplin, la cui fuga, le cui cadute (richieste dal procedere delle peripezie, e che dunque ricadono nell’ordine della rappresentazione narrativa) non sono che danza, puro incanto ottico, rapimento visivo.
Nell’introduzione i curatori evidenziano come lo “sguardo” (uno dei concetti cardine della modernità, filosofica, letteraria, artistica; ricordiamo almeno, per chi volesse approfondire, il volume di Mark Cousins Storia dello sguardo, apparso per i tipi del Saggiatore nel 2019) venga declinato, nelle quarantacinque analisi filmiche che scandiscono il volume, attraverso cinque macro-modalità.
La prima corrisponde all’idea di cinema come strumento di conoscenza e garanzia di accesso al reale (tra i titoli citati L’Atalante, I quattrocento colpi, Mamma Roma); la seconda si riferisce alla soggettività come sguardo incarnato in prospettiva multisensoriale (da Luci della città a La sottile linea rossa); la terza apre alla dimensione della visionarietà, della fantasmagoria risonante di echi ultra-umani (Cabiria, La corrazzata Potëmkin, 2001: Odissea nello spazio, Ran).
La quarta e la quinta rispondono rispettivamente alla dimensione macchinica, nel senso dello sguardo-protesi estensivo (da L’uomo con la macchina da presa a Matrix) e a quella della sessualizzazione, ora disciplinante ora emancipatoria, delle immagini (Accadde una notte, Il disprezzo, Velluto blu).
Tale partizione regge alla prova dei fatti, ben rispondendo alla proposta teorica che ispira il volume, ma leggendo il libro ciò che balza agli occhi è soprattutto la compattezza pienamente novecentesca del corpus.
Tolta la necessaria premessa sui primordi (un bel saggio di uno dei maggiori studiosi francesi, Pierre Sorlin, illustra le vedute Lumière), tutte le opere prese in esame rientrano in un arco cronologico che va dal 1900 di Grandma’s Reading Glass al 1999 di Matrix, ovvero da un epocale esperimento sulle retoriche della soggettiva, foriero di conseguenze decisive per la grammatica filmica a venire, a uno dei primi vagiti delle tecnologie digitali applicate all’oggetto audiovisivo.
Soprattutto, i titoli prescelti rivelano – sulla scorta, si immagina, dei gusti e degli interessi dello stesso Bernardi – una strenua fedeltà a un mondo che potremmo definire, lato sensu, colto e cinéphile, ancor prima che strettamente accademico: quello, per intendersi, dei cinema d’essai, dei cineforum e delle riviste, specie sull’asse Bazin-Cahiers du Cinéma.
Si spiega così, credo, la netta prevalenza di pellicole europee (ventisette, a comprendere anche quelle realizzate dai tre russi Ejzenstein, Vertov, Tarkovskij), e americane (quattordici), dunque occidentali, laddove si contano solo tre film appartenenti a un altro continente, l’Asia (uno iraniano, di Kiarostami, e due giapponesi, firmati da Kurosawa e Ozu).
Indicativo anche il fatto che si tratti quasi esclusivamente di film d’autore; se consideriamo 2001, C’era una volta il West, Chinatown come pellicole che trascendono il genere, non resta che un solo esempio di cinema schiettamente “popolare”, La maschera del demonio di Mario Bava. Gli italiani inclusi sono Pastrone, Visconti, Leone, Pasolini, Fellini, il già citato Bava, Rossellini e Antonioni (questi ultimi con due opere ciascuno). Due le donne, entrambe francofone: Chantal Akerman e Agnès Varda.
Si tratta di scelte significative per comprendere il senso complessivo dell’operazione e il suo generale orientamento geo-storico-critico, al di là del facile gioco delle esclusioni, appassionante ma sterile perché potenzialmente infinito.
Quanto alle singole analisi, che incrociano un’ampia varietà di strumentazioni (dalla semiotica agli studi culturali, dalla psicanalisi alla teoria femminista, dalla storia alla sociologia, dalla narratologia alla filologia, dal cognitivismo all’estetica), si fanno apprezzare per la ricchezza di spunti e per la capacità, sia pure in uno spazio ridotto, di affrontare nodi teorici anche complessi prendendo le mosse da singoli elementi di poetica, immagini iconiche o peculiari elementi tematici.
Paradigmatiche in tal senso, per non citare che qualche esempio, le pagine di Luca Mazzei su Cabiria, tra reminiscenze storiche e ricercata spettacolarità dei meccanismi narrativi; il rapporto col corpo dell’attore e il paesaggio in Aguirre furore di Dio (Carmelo Marabello); Playtime come opera-mondo metacinematografica (Augusto Sainati); l’incrocio tra densità emozionale, melodrammatica e asciutta restituzione dell’immanenza d’un dato segmento di mondo in Viaggio a Tokyo (José Moure); il discorso sulla fotografia in Blow-up (Thierry Jousse); 8 e ½ interpretato in prospettiva femminile (Jacqueline Reich); la lettura sia di Accadde una notte (Vito Zagarrio) sia di Eyes Wide Shut (Roberto De Gaetano) come esempi di “commedie del rimatrimonio”, sulla scorta della lezione di Stanley Cavell. O, ancora, I quattrocento colpi come condensazione-anticipazione dei temi e delle forme che caratterizzeranno l’intera cinematografia di Truffaut (Giorgio Tinazzi).
Nel complesso, il volume fa emergere un’idea di cinema come esperienza di alterazione e trasmutazione del campo di percezione e azione dell’individuo e, di riflesso, della collettività. Ciò che la triangolazione schermo-occhio-mente (a tacere degli altri sensi, pure implicati) restituisce non è un’accurata (e anodina) foto-copia del reale, come pure tanta parte dei prodotti audiovisivi odierni vorrebbe indurre a credere, ma un processo polisemico attraverso cui attivare una messa in discussione dell’esistente (anche in chiave fenomenologica) e, dunque, un suo ripensamento.
La formula “cinema dello sguardo” sottende, insomma, che quest’ultimo agisca in chiave trasformativa. Ciò che il miglior Novecento, in sala o altrove, ha sempre tentato, fallendo a più riprese, e poi tentando ancora, sulla scorta di quell’inesausta volontà proiettiva che qualcuno si ostina a chiamare utopia.
Ma al di là di questo, Il cinema dello sguardo si rivela un libro pieno di scoperte per gli studiosi, didatticamente efficace per gli studenti e di piacevole lettura per gli appassionati desiderosi di scoprire, o riscoprire, vecchi classici.