Questioni di genere o di potere?

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Non è facile essere le “tecniche”, le “esperte” in un mondo tecnologico declinato quasi sempre al maschile. Dal numero 21 de «La ricerca», “STEM. Roba da ragazze”.

«Quando viene il tecnico?»
«A chi posso chiedere per accendere il proiettore?»
«No! Non toccare quel computer!»
Costa fatica essere prese in considerazione: di solito ci si aspetta che sia un “tecnico”, un maschio, a occuparsi della parte tecnologica anche quando si tratta dell’allestimento di un’installazione o di un video live-set. Per noi essere artiste nel mondo delle arti STEM vuol dire “metterci le mani sopra”, non limitarci a immaginare l’opera ma crearla e assemblarla a partire dalle sue componenti hardware, digitali ed elettroniche. L’attitudine hacker, che presuppone il desiderio di smontare e trasformare il mondo che ci circonda, anche e soprattutto quello tecnologico, ha sempre contraddistinto le nostre pratiche artistiche. Nei laboratori che oggi proponiamo a bambini, bambine e teenager, si esprime sotto forma di pedagogia hacker.

Laboratori di arte STEM per adolescenti

Il luogo è il Punto Luce Delle Arti di Save The Children a Ostia (Roma), zona Idroscalo; l’attività consiste in dieci incontri di pedagogia hacker e video mapping1. Il laboratorio è parte dell’offerta del Progetto DOORS, capofila Cies Onlus, finanziato da “Con i Bambini“ grazie al Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile. I giovani partecipanti sono una decina di ragazzi (maschi) tra i 12 e i 17 anni; il periodo è quello pandemico, si lavora in presenza anche se i gruppi, per evitare focolai e quarantene estese a troppe persone, devono operare in isolamento senza mai mescolarsi con gli altri gruppi. È solo questa la ragione per cui i partecipanti al nostro laboratorio sono tutti ragazzi. Le ragazze sono state assegnate ad altri operatori e a noi, per una serie di ragioni logistiche e organizzative, tocca il gruppo esclusivamente maschile. Un po’ ci dispiace, siamo due donne e ci avrebbe fatto piacere lavorare con le adolescenti. Entrambe siamo autodidatte e sappiamo bene cosa vuol dire essere femmine nella scena delle arti STEM.

Dov’è il tecnico?

Siamo artiste la cui materia prima è la tecnologia. Ogni volta che partecipiamo a un evento o allestiamo una mostra dobbiamo spiegare che no, non c’è il tecnico; che sì, siamo noi a montare l’attrezzatura e installare il software; che non c’è bisogno di aspettare l’arrivo di un maschio, le domande le possono fare direttamente a noi, anche se riguardano l’informatica, l’elettricità, il magnetismo, il calcolo, il fotoritocco, la proiezione e qualsiasi altra curiosità; e sì, siamo noi le esperte.

In quanto donne siamo state abituate fin da giovanissime a non venire ascoltate anche in contesti assolutamente non sospetti, cioè tra persone che riteniamo esenti da pregiudizi di genere. Eppure le nostre indicazioni su dove sistemare proiettore e schermo, su come organizzare l’impianto elettrico, su quale software installare o su come sistemare le luci solitamente non vengono prese in considerazione. Quando ci presentiamo con un aiutante sarà a lui che rivolgeranno la parola, dando per scontato che sia l’esperto e noi le assistenti, o le artiste che non si sporcano le mani con le cose tecniche.

Il fatto che siamo noi, magari relativamente piccole e minute, a portare in giro computer, mixer, schermi e proiettori, ha sempre dell’incredibile agli occhi dei presenti, dei partecipanti; oggi che non siamo più ventenni, effettivamente ci fa molto piacere quando qualcuno solleva i pesi o si arrampica sulle scale al posto nostro. Ma più che una questione di genere è una questione d’età!

Nonostante la quantità di difficoltà “di genere” a cui siamo abituate, gli adolescenti del gruppo a cui siamo state assegnate ci accolgono senza fare una piega, o, per meglio dire, ci accolgono come avrebbero fatto con un formatore maschio, cioè trovando ogni modo possibile immaginabile per provocarci e metterci alla prova prima di aprirsi abbastanza da favorire un lavoro di gruppo.

Se sei davvero un hacker…

«Siamo Nikky e Macchina e siamo due hacker. Sapete cosa fa un hacker?». Al primo dei dieci incontri di pedagogia hacker e di video mapping ci siamo presentate così, con i nostri nickname, conquistando velocemente l’attenzione dei partecipanti che hanno cominciato a tempestarci di richieste: «Se sei un hacker allora aiutami a entrare nell’account di… / dimmi da dove scrive questa persona…» ecc.

Per loro il vero hacker è quello che buca i sistemi di sicurezza di banche, di grandi aziende o anche account personali, idea piuttosto diffusa che emerge in tutti i laboratori che facciamo anche con adulti, insegnanti o formatori. Per hacker invece noi intendiamo una persona curiosa di come funzionano gli esseri tecnici (digitali o analogici), una persona che si prende la briga di sollevare gli strati per vedere cosa c’è dietro, capace di modificare le macchine per trasformarle, di notare i dettagli e condividerli con gli altri; una persona che cerca nuove strade per nuovi percorsi, che fa esperienza insieme agli esseri tecnici.

Quello che i ragazzi durante i primi incontri volevano davvero da noi era semplicemente una dimostrazione di forza.

Da grandi poteri derivano 
grandi responsabilità

Abbiamo rischiato di perdere completamente la loro attenzione non prestandoci alle loro richieste. Forse perché, in definitiva, stando alle loro richieste esplicite, poco importava che fossimo maschi o femmine: piuttosto, erano interessati a capire se avevamo un potere o no, e come utilizzare eventualmente quel potere per i loro scopi. Tra divagazioni e chiacchiere abbiamo illustrato gli obiettivi del laboratorio: da una parte comprendere meglio le tecnologie che maneggiamo quotidianamente, dalle piattaforme per la didattica a distanza ai social network come Instagram, YouTube o Tiktok, fino alle app sui nostri furbofoni; dall’altra acquisire gli strumenti di base necessari per realizzare un progetto di video mapping.

Una volta compreso che non avremmo senza sforzo, automagicamente violato gli account social dei loro amici per divertirci insieme alle loro spalle, l’attenzione dei ragazzi in parte è scemata ma in parte si è anche concentrata sulla possibilità di scoprire nuovi strumenti con cui stupire i loro peer. Fin dal primo incontro abbiamo messo a disposizione del gruppo un etherpad, un blocco note digitale raggiungibile su Internet su cui scrivere e prendere appunti insieme. «Fico,» è stato il commento, «lo possiamo usare per fare i compiti a casa con i compagni». Era evidente come il loro occhio fosse sempre volto all’acquisizione di qualche ricchezza o competenza nuova, anche solo per applicarla nel divertimento, come poi è successo per l’etherpad che nelle loro mani è diventato un nuovo improbabile videogioco.
Durante i primi cinque incontri abbiamo “tolto gli strati” che compongono l’Internet per capire insieme come funziona veramente quando siamo su Facebook e su WhatsApp e la curiosità dei ragazzi era costantemente mirata ad acquisire un’abilità o un potere: «Sarebbe molto interessante andare nel Dark Web la prossima volta…», chiedeva uno di loro alla fine del terzo incontro: «Perché ci vorresti andare?». «Perché c’è un mio amico che dice che ci sa andare ma io non gli credo e voglio capire come funziona».

smart

De-gamificazione per tutti

Sempre nel corso dei primi incontri abbiamo riflettuto sul rapporto che ognuno di noi ha con i propri dispositivi digitali (telefonini, videogiochi, computer) e i ragazzi si sono dimostrati molto disponibili e anche molto acuti nel ragionare sulle dinamiche comportamentali che si sviluppano sui social network: «Io su Tiktok non posto mai però scorro sempre per guardare tutto e non so perché ma metto un cuore a tutti i post che vedo, lo faccio sempre, ma non so perché!»: in poche parole, ecco l’“addestramento cognitivo” a cui siamo tutti involontariamente sottoposti dai social network. Così lo abbiamo sperimentato insieme giocando con i videogiochi storici per imparare a riconoscerlo. Le sessioni di gioco con i videogiochi degli anni Ottanta e Novanta hanno riscosso più successo che mai e ogni esperienza fatta è divenuta materiale per la successiva creazione dell’installazione di video mapping.

Costruire castelli in aria

La tecnologia approcciata in chiave hacker è diventata per i partecipanti al laboratorio una possibilità di espressione artistica. Uno degli scopi del laboratorio di arte STEM di pedagogia hacker e video mapping era infatti quello di realizzare una piccola installazione video, un castello in aria, un luogo dove invece di provocare o distruggere fosse stato possibile creare e organizzare: volevamo mettere in piedi un angolino di mondo proprio come piaceva a noi utilizzando le risorse tecnologiche a nostra disposizione. Abbiamo installato insieme il software necessario sui computer a disposizione del centro, Nikky ha spiegato le basi concettuali del video mapping e il funzionamento del software in modo da mettere ognuno di loro in condizione di interagire con il programma a piacimento facendo anche tesoro degli strumenti per la collaborazione online che avevamo incontrato nelle giornate precedenti (cloud, scrittura collaborativa). A questo punto è stato difficile dribblare tra le continue provocazioni dei più giovani che volevano farcire il loro progetto video con immagini filonaziste e politicamente scorrette. I richiami e i divieti erano evidentemente più dannosi che inutili. Ma nel momento in cui abbiamo fatto capire che avrebbero dovuto sostenere le loro scelte davanti a un pubblico, la loro estetica ha subìto un cambiamento repentino, diventando molto più surreale e meno provocatoria.

L’installazione finale ha lasciato tutti a bocca aperta: i ragazzi non si aspettavano che il loro lavoro potesse contribuire a creare un progetto così cool, non ci credevano veramente fino a che non lo hanno visto installato nella sala teatro del Punto Luce.

È stato solo durante l’evento/mostra finale che finalmente abbiamo visto un po’ di donne. Parecchie adolescenti, afferenti ai gruppi degli altri operatori, sono venute a vedere la nostra installazione, molte di famiglia musulmana, silenziose sotto i loro veli, hanno osservato con attenzione il video mapping proiettato nella sala teatro. Ci siamo chieste cosa passasse in quel momento nelle loro teste: anche io e Nikky abbiamo cominciato così il nostro viaggio nelle arti STEM, immaginando castelli in aria.


NOTE

1. Il video mapping è una particolare forma di realtà aumentata e consiste nell’arricchire, con la mediazione e l’uso di un sistema di video proiezione e un computer, la percezione sensoriale umana con l’aggiunta di ulteriori informazioni rispetto a quelle percepite da chi osserva. Il procedimento base prevede di ricostruire virtualmente le superfici dell’oggetto su cui insisterà la video proiezione.

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Agnese Trocchi

è artista multimediale, scrittrice e formatrice. Curiosa da sempre delle nostre relazioni con le tecnologie analogiche e digitali, ha esposto in eventi e gallerie in tutto il mondo le sue opere di videoarte e di net.art. È Digital Communication Manager presso il Disruption Network Lab di Berlino. Dal 2017 collabora con il gruppo C.I.R.C.E. con cui organizza e conduce laboratori di Pedagogia Hacker. Nel 2019 ha pubblicato con Ledizioni il libro “Internet, Mon Amour”.

Valeria Guarcini

artista multidisciplinare, lavora con performance video e proiezioni, usando il suo corpo come un mezzo di trasformazione. Da 20 anni sviluppa il suo linguaggio unico, combinando la nozione di identità flessibile e il gioco di ruolo in performances e collaborazioni audiovisive. Affascinata da luci e immagini, indaga sul suo corpo e le sue interazioni con l’ambiente, modella lo spazio attraverso le interazioni prodotte dalle proiezioni. Vj e initiator del Live Perfomers Meeting, insieme a Gianluca Del Gobbo ha sviluppato il video software Flxer dalla versione 2.0 in poi.

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