Quattro riflessioni sulla Proposta Gelmini

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In questi giorni il numero degli interventi sul cellulare in classe è davvero impressionante. Naturalmente, ciascuno ha la sua opinione, e così si sente dire tutto e il contrario di tutto, al punto che la confusione regna sovrana e offre appigli per legittimare soluzioni d’ogni tipo.

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In questo bailamme, viene citata la Proposta di legge Gelmini (che effettivamente tratta dell’uso del cellulare in classe) e la Proposta di legge Capitanio (che però i cellulari non li menziona e dunque nemmeno ne propone il divieto in classe) (si veda ad esempio qui).
Per non parlare a vanvera, vale la pena andarsele a leggere e poi riflettere sulle Proposte, anzi, sulla sola Proposta Gelmini, volendo limitarci al tema.

Prima però di esaminare il testo in discussione, sarà utile rilevare l’importanza del fatto stesso che ci sia una proposta di legge sul cellulare in classe, a prescindere dai contenuti che propone. Che qualcuno si sia preso la briga di formulare una proposta di legge simile e che i firmatari siano, tutto sommato, numerosi, è un segnale importante che già da solo merita riflessione.
Il fenomeno della presenza pervasiva delle tecnologie della comunicazione, del tutto nuovo e dovuto a uno sviluppo tecnologico ancora in piena evoluzione, è imponente e massiccio, non passa inosservato e merita nuove regole condivise. Inoltre – e inizio a entrare nel merito dei contenuti – a me docente colpisce positivamente la preoccupazione con la quale la Proposta di legge intende difendere sia la pratica docente, sia il bene degli adolescenti, guardando al loro agire e al loro atteggiamento. Si ritrova infatti nel testo introduttivo alla Proposta la preoccupazione per il «mancato rispetto nei confronti del docente e dell’istituzione tutta»; ma anche e soprattutto un riferimento inquieto ad atti di intimidazione, di bullismo e cyberbullismo perpetrati e perpetrabili col cellulare e capaci di portare a un’escalation che arriva fino alla violenza fisica.
Il testo menziona poi i fenomeni di dipendenza compulsiva da cellulare e dispositivi simili, un vero e proprio dramma sociale di proporzioni rilevanti. Non è dunque a cuor leggero e non è certo con scarso discernimento circa il quotidiano degli adolescenti che i proponenti la legge si sono espressi.
Ciò detto e apprezzato e sinceramente riconosciuto, vorrei ora spiegare quattro delle ragioni per cui credo che la proposta, che prevede l’abolizione del cellulare in classe, vada bocciata.

La prima ragione per bocciare la proposta è il riferimento a quanto ho già avuto modo di illustrare con esemplificazioni e cioè che il cellulare in classe può essere una preziosa risorsa didattica e non solo (qui e qui). Nella Proposta Gelmini si vuole introdurre invece l’art. 328-bis che tratta, cito, del «Divieto dell’utilizzazione di telefoni mobili e altri dispositivi di comunicazione elettronica».
Ora, vietare uno strumento di connessione in una società in cui l’interconnettività sta diventando un fenomeno ordinario e costitutivo mi pare miope, perché repressivo di qualcosa che dovrebbe invece essere oggetto di educazione. Non si educa però al retto utilizzo di qualcosa proibendolo, anche fosse solo una mossa iniziale.

In secondo luogo, il testo tratta allo stesso modo le scuole primarie, le scuole secondarie di primo e quelle di secondo grado. Mi pare che questo sia un errore.
Il divieto nella scuola primaria e secondaria di primo grado può essere ampiamente argomentato e, per quel che ne so, è largamente condiviso da chi svolge la funzione docente in quegli ambiti. Le cose cambiano però di parecchio quando si parla di adolescenti, specie se di studenti del triennio superiore. Quando il legislatore si pronuncia e non fa le debite differenze e distinguo, finisce per fare danni.

In terzo luogo, il fatto stesso di porre il discorso sul cellulare come continuazione dell’art. 328 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 rivela un intento più repressivo che formativo. Quel testo di legge, infatti, si apre, al Capo VI sulla disciplina degli alunni, con l’art. 328 che riguarda le sanzioni disciplinari. Tale impostazione è del resto confermata dal comma 4 della Proposta che demanda ai regolamenti delle istituzioni scolastiche di stabilire le sanzioni disciplinari per la violazione del divieto. Normare su questa materia con un approccio repressivo mi pare sbagliato. È più il frutto di una paura (quella, per esempio, del cyberbullismo o della dipendenza compulsiva) che di una posizione equilibrata e costruttiva.
Ciò che ci spaventa, ovviamente, va affrontato, e vanno messi in campo degli strumenti per evitare il più possibile che ciò che temiamo si avveri. Dubito però che una legge repressiva sia la soluzione.

In quarto luogo, poi, la legge mi sembra inapplicabile, e non solo perché in poche righe stabilisce un divieto e ammette deroga: la formula proposta è tanto ampia da rendere pressoché nullo il divieto. Nel comma 2 dell’art. 328-bis si dice infatti che «I regolamenti delle istituzioni scolastiche stabiliscono le condizioni, i casi e i luoghi in cui l’utilizzazione dei telefoni mobili e degli altri dispositivi di comunicazione elettronica è consentita per finalità didattiche e per esigenze indifferibili degli alunni».
Insomma, si formula un divieto, ma nel giro di qualche riga si propone un meccanismo che rende lecito lo smantellamento sistematico del divieto. Che senso ha? Che valenza educativa avrebbe insegnare (perché la scuola insegna nei contenuti che i docenti comunicano, ma anche nelle regole che impone) che la legge vieta il cellulare (per testo di legge), ma non lo vieta (per disposizione dell’Istituto in conformità alla legge)?
Oltretutto al comma 3 il proponente deve frenarsi e riconoscere che il divieto non vale per gli alunni disabili, aprendo a situazioni molto problematiche nella quotidianità scolastica.
Nel complesso, si vede qui che il testo normativo pretende di vietare, ma poi pragmaticamente riconosce di non poterlo fare davvero per via di legge dello Stato. Esso finisce così col demandare alle istituzioni scolastiche la disciplina della materia.

In conclusione, credo che l’esigenza di darsi delle regole in materia di uso del cellulare e di dispositivi di comunicazione elettronica in classe sia vera e che vada affrontata, ma credo anche che una pedagogia repressiva fattasi testo di legge sia mortificante e comunque costituisca un approccio sbagliato.
Non credo poi che il produrre regole sul divieto del cellulare sia compito del legislatore, ma che sia compito delle singole istituzioni scolastiche stabilire – nei tempi, nelle forme e nelle modalità – quali siano le buone pratiche di uso del digitale a scuola. Le sole istituzioni scolastiche sono in grado di tenere adeguatamente conto dell’età, del grado di maturazione e dei problemi concreti degli studenti che le frequentano.

Al legislatore restano altri compiti cruciali, come aiutare le istituzioni scolastiche a svolgere un’educazione alla cittadinanza digitale, offrendo risorse e, soprattutto, programmando lo stanziamento di fondi. In positivo, il legislatore deve cercare forme per promuovere una azione formativa che metta le nuove generazioni a loro agio con gli strumenti della comunicazione, perché imparino come usarli e come non esserne usate, imparino quando usarli e quando no, con quali limiti, nel rispetto altrui e proprio. Non è poco ed è urgente.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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