Quanto le tasse condizionano la storia?

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Tassazione di ieri, tassazione di oggi: qualche riflessione sul sistema fiscale di Roma e su alcune conseguenze politiche e implicazioni etiche del “pagare le tasse”.

Tassazione di ieri, tassazione di oggi: qualche riflessione sul sistema fiscale di Roma e su alcune conseguenze politiche e implicazioni etiche del “pagare le tasse”.

catasto

 

Non si parla che di tasse, in questa campagna elettorale… Certamente nessuno gioisce nel pagare l’IMU o la TARSU (che cambierà nome…), come pure le pesanti imposte dirette sul reddito. Ed è purtroppo vero che la “stretta fiscale” di questi tempi ha messo in difficoltà molti imprenditori, già fiaccati dalla crisi. Però – a mio avviso – questo dibattito monotematico rischia di fare emergere troppo poco la restante visione del mondo dei partiti in lizza per il prossimo Parlamento. Dove sono le proposte per il lavoro dei giovani? Dove sono gli elenchi con le priorità degli investimenti pubblici (ad esempio: quanto su cultura e istruzione…)? Per non parlare della politica estera: perché l’annosa questione israelo-palestinese, la situazione esplosiva nel Corno d’Africa, l’improvvisa crisi tra Francia e Mali, come pure gli “stalli” di Irak e Afganistan non hanno dignità di interlocuzione nei talk show televisivi? Temo che ci sia un accordo tra politici e intervistatori: “E che ne capisce davvero, di ‘sta roba?”. “Parliamo di tasse, sì, che interessano a tutti: e proviamo a dire che – se sono alte – questo è colpa degli altri! Noi le toglieremo, abbasseremo, limeremo, calibreremo…”.

Tutto questo mi ha fatto riflettere e porre una domanda: ma anche nel mondo romano – che studio da una vita – le tasse avevano una tale importanza “politica”? La risposta che mi sono dato, senza neppure troppa titubanza, è stata “sì”: anche a Roma molte scelte politiche furono profondamente connesse a scelte o strategie di carattere fiscale.

Non posso parlare in generale del sistema fiscale di Roma: un conto fu la Repubblica, un conto l’Impero. E poi da Romolo a Costantino e oltre ci passano più di mille anni: vorrete concedere anche ai poveri Romani, in questo lungo periodo, qualche “riforma fiscale”? Insomma butto lì solo qualche considerazione, che senza dubbio qualcuno troverà (a buona ragione…) approssimativa e superficiale.

Non vi è però dubbio che – e parlo soprattutto della tarda Repubblica e dell’Impero – qualche linea generale nel fisco di Roma ci fu. Ad esempio l’idea che gli abitanti dell’Italia (che con Cesare diverranno tutti cittadini romani) non dovevano pagare dal 167 a.C. alcuna imposta diretta, il tributum, e ciò per due ragioni. La prima perché i bottini delle guerre in Oriente avevano rimpinguato moltissimo le casse dello Stato; la seconda perché i cives – come “tassa” – già combattevano nel nome di Roma nell’esercito legionario, anche se quest’ultimo – da Gaio Mario in poi – divenne per lo più una struttura volontaria e professionistica. Ai cittadini residenti in Italia spettavano solo i vectigalia, cioè le imposte indirette, che andarono comunque col tempo aumentando: tra questi – e non sono tutti – i portoria (i dazi), la vicesima libertatis (una tassa sull’emancipazione degli schiavi), la vicesima hereditatum (la “tassa di successione”), nonché alcune forme diverse di tassazione delle compravendite (una specie di IVA, insomma).

I provinciali, d’altro canto, non se la passavano troppo bene, poiché veniva loro imposto il tributum, sia quello sulle proprietà terriere (il tributum soli: i Romani avevano buone mappe catastali, come quella trovata ad Orange, in Francia), sia quello sulle persone fisiche (tributum capitis): questo veniva riscosso per lo più da società di publicani, cui lo Stato – come capita anche oggi – appaltava l’antipatico servizio: i proventi finivano nell’aerarium (deposito custodito dal Senato) e, in epoca imperiale, in parte anche nel fiscus (controllato invece dall’imperatore).  E il tributum poteva essere in denaro o in natura: quanto grano – infatti – la Sicilia (per questo mai inclusa nell’Italia romana) e l’Egitto inviarono a Roma per sfamare i cittadini dell’Urbs! Tra l’altro alcuni vectigalia dovevano pagarli pure i provinciali, e ci furono momenti nei quali il potere centrale di Roma aveva la piena consapevolezza del peso delle sue imposizioni fiscali nei confronti dei popoli sottomessi. I Romani sapevano comunque di non poter esagerare – pena il rischio di sanguinose rivolte – e quando all’imperatore Tiberio fu chiesto dai governatori di aumentare le tasse alle province, egli rispose: boni pastoris esse tondere pecus, non deglubere (“è proprio del buon pastore tosare le pecore, non scorticarle”, Svetonio, Vita di Tiberio, 32).

 

CaracallaMa la spesa pubblica di Roma non era certo esigua… Intendiamoci, non esisteva – se non in forme limitatissime – alcuna forma di “scuola statale” (almeno di quel deficit non si possono incolpare i professori…), e i veri “statali” che costavano tanto erano i burocrati degli uffici pubblici (nelle province, soprattutto) e le numericamente esorbitanti forze armate (legionari, ausiliari, ma anche soldati urbani, vigili, pretoriani…), con le quali all’Urbe toccava in sorte (così volevano gli dèi…) dominare il mondo.  E l’Impero – all’inizio del III secolo d.C. – traballava così sotto i colpi dei barbari invasori, ma specialmente sotto i colpi del deficit delle casse dello Stato. Che fare? Nel 212 d.C. fu Caracalla, passato alla storia come un imperatore sanguinario e megalomane, a tirare fuori il coniglio dal cilindro. Emanò un editto (la Constitutio Antoniniana) con il quale tutti gli abitanti dell’Impero diventavano cittadini romani, provinciali inclusi. E, di conseguenza, dovevano tutti – proprio tutti – pagare i vectigalia, e soprattutto le tasse di successione! Tutti muoiono, pensò il princeps, tutti lasciano eredi qualcuno di qualcosa: meglio dunque allargare la vicesima hereditatum ai forse 25 milioni di ex provinciali che mantenerla solo per i 7 milioni di italici. Altro che atto magnanimo e generoso! Certo, fu un gesto politico solenne e rilevante, con il quale il potere centrale sancì l’ecumenicità dell’Impero, l’eguaglianza dei suoi cives davanti alla legge, il diritto di cittadinanza delle sue varie etnie…: ma soprattutto che inchiodò tutti a un nuovo tipo di tassazione, ritenuto più vantaggioso per lo Stato e forse di più facile esazione. Insomma: restarono anche altre forme di fiscalità (non entro nel dettaglio…), ma certamente fu la tassa di successione a consentire all’Impero di resistere ancora qualche tempo: dei provvedimenti fiscali del tardo impero (ad es. dei tempi di Diocleziano) non parlo, perché ormai si sta davvero andando verso un altro mondo, che non è più quello classico ma assomiglia a quello medievale.

 

Tiberio_palermoNon so se da questa breve riflessione sia possibile qualche confronto con i tempi nostri. Probabilmente no, anche perché – grazie a Dio – l’Italia di oggi non ha popoli sottomessi da “tosare” (cito Tiberio) per evitare le tasse ai suoi cittadini; forse, se proprio dovessi suggerire qualche forzosa analogia, direi che nei momenti di crisi è più facile per lo Stato esigere una tassazione sui beni (come le eredità: vicesima hereditatum, o la casa: IMU ) che non sul reddito, ma temo che – giustamente – un economista potrebbe sorridere davanti a questi ingenui accostamenti…

Vorrei però finire con un aneddoto, drammatico e istruttivo nello stesso tempo. Siamo nel 180 d.C., a Cartagine, e il governatore romano Saturnino sta interrogando un gruppo di provinciali cristiani, che – al termine del processo – finiranno “martirizzati”. C’è un’evidente incomprensione tra il funzionario romano – in fondo un brav’uomo, che vorrebbe salvare la vita ai cristiani – e i fedeli in Cristo, che non possono e non vogliono rinnegare la loro fede pubblicamente. Uno di loro, però, proclama la moralità della propria vita dicendo: furtum non feci; sed si quid emero, teloneum reddo, quia cognosco dominum meum, regem regum, et imperatorem omnium gentium (“io non ho rubato nulla, pago una tassa ogni volta che acquisto qualcosa, poiché io conosco il mio Signore, re dei re e imperatore di tutte le nazioni”, Atti dei Martiri di Scili, 6). Sperato – questo è il nome del martire – usa qui il termine teloneum (calco dal greco telónion), che indica propriamente l’ufficio dell’esattore fiscale e per metonimia la tassa da pagare: e dice che paga questa sorta di IVA sia perché egli è un buon cittadino, sia perché sa che così vuole il suo Signore. E pagare le tasse è da lui avvicinato al “non rubare”, precetto ebraico-cristiano per eccellenza… Sperato sa che sta per morire; sa che al governatore interessa altro, cioè l’abiura della sua fede; sa che queste sono – con tutta probabilità – le sue ultime parole. Eppure, insieme alla professione di fede, ci lascia una professione di civismo e moralità: anche lui sarà stato – come gli altri provinciali – “tosato” dalle tasse, e ora lo stanno addirittura per “scorticare” (purtroppo non solo in metafora): eppure sente che quei soldi allo Stato erano dovuti, anche se ora lo Stato lo sta sopprimendo. Certo, qualcuno dirà, quello era un martire, noi siamo comuni mortali… È vero, ma  quel gesto mi ricorda tanto quello del Socrate platonico che non scappa dal carcere per non infrangere quelle Leggi che governano la vita di noi tutti; Leggi che l’hanno condannato ingiustamente, certo, ma che vanno sempre rispettate.

In conclusione: pur se annoiati dal dibattito televisivo sul fisco, e pur se ancora “tosati” dalla seconda rata IMU di dicembre, e – magari – dall’anticipo IRPEF, spieghiamo ai nostri studenti che le tasse sono sempre state un momento importante, addirittura necessario (anche se non gradevole) del vivere in comune; e che queste vanno pagate, perché se non ci “beccherà” il Redditometro, ci penserà un giorno – come ci dice Sperato  –  “il… Signore, re dei re e imperatore di tutte le nazioni”.  E se abbiamo in mente qualche eco dantesca, i funzionari di Equitalia – in confronto ai mostri infernali tipo Caronte o Cerbero – ci appariranno come angioletti!

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