A partire dalla metà degli anni Settanta negli Stati Uniti numerosi giuristi, attivisti politici e studiosi di diritto, prendendo atto dello stallo del movimento dei diritti civili cui avevano partecipato nel decennio precedente, e stufi del conservatorismo dell’Accademia, formarono un network nazionale di discussione critica e di lotta verso il pensiero dominante e il riformismo liberal nord americani. Le loro riflessioni, presto definite Studi Critici del Diritto (CLS: Critical Legal Studies), conquistarono una dopo l’altra gran parte delle facoltà di diritto del Paese. Esse ruotavano attorno una tesi radicale: anziché che essere fondamentalmente giuste e il prodotto del progresso storico, le leggi americane sono invece uno strumento nelle mani di ricchi e potenti per favorire se stessi.
Nel 1987 molti esponenti di colore, rimproverando al movimento di concentrarsi sulla critica all’ideologia giuridica dominante senza però prendere in considerazione il ruolo egemonico del razzismo, organizzarono un laboratorio di discussione indipendente sulle relazioni tra razza, politica e istituzioni.
Nacque così la Critical Race Theory (CRT), la teoria critica verso la razza, la cui elaborazione teorica ruota attorno a tre idee chiave: a) l’idea della “bianchezza” come proprietà; b) la messa in questione delle politiche color-blind; c) l’individuazione delle azioni positive come strumento imprescindibile per la promozione di una concreta eguaglianza tra individui economicamente, politicamente e socialmente diseguali.
La razzializzazione
Applicando un approccio costruttivista, gli studiosi critici della razza sposano l’idea che la divisione dell’umanità in razze non abbia nulla di naturale. Le persone, sostengono, non nascono appartenenti a una razza, ma lo diventano attraverso processi di razzializzazione.
Le razze sono infatti costruzioni storiche, sociali, ideologiche ma soprattutto giuridiche: è il diritto, sostengono, che ha creato le differenze nell’aspetto fisico, tracciando fra esse confini fissi, immutabili, oggettivi e neutri, perché considerati biologicamente determinati. È ancora il diritto che ha attribuito a queste caratteristiche fisiche significati razzializzanti.
Per capire la portata di questa tesi basterebbe considerare il censimento nazionale americano e la sua evoluzione nel tempo. Oggi le caselle relative alla razza da sbarrare per certificare la propria appartenenza sono le seguenti: White; Black or African American; American Indian and Alaska Native; Native Hawaiian and Other Pacific Islander; Some Other Race per tutti gli altri colori.
Ma non è sempre stato così. Nel 1790 le categorie previste erano solo tre: Free White Females and Males, All Other Free Persons e Slaves. Nel 1820, come conseguenza dell’aumento del numero di neri liberi, venne inserita una distinzione fra Slaves e Free Colored Persons. Nel 1850, dunque prima dell’abolizione della schiavitù, si passò a Black e Mulatto, eliminando dunque l’indicazione della condizione di schiavitù e preferendo sondare quanto “sangue nero” aveva una persona di colore. Nel 1890 il Congresso, influenzato dalle diffuse teorie razziste pseudo-scientifiche su base biologica che si stavano allora diffondendo, impose che i soggetti dovessero essere identificati come Black (tre quarti o più di sangue nero), Mulatto (da tre ottavi a cinque ottavi), Quadroon (un quarto) e Octoroon (un ottavo).
Dieci anni dopo si ritornò a un unico Black (Negro or of Negro Descent, termine che è rimasto fino ai giorni nostri non solo nel censimento ma anche nel linguaggio pubblico). Infine, nel 1970, assistiamo al ritorno di Black e nel 2000 all’ingresso di African American.
Un elemento balza subito all’attenzione: mentre la categoria che designa gli schiavi africani e i loro discendenti (nonché oggi gli immigrati dall’Africa subsahariana) è la più storicamente variabile, quella di “bianco” è rimasta stabile per più di due secoli, ad eccezione di un’unica modifica nel 1850. Da allora appare unicamente come White e sussume tutti gli immigrati di origine europea, inclusi quelli che nella cultura e nella società americane una volta si dubitava fossero davvero bianchi, come gli italiani, ma anche, oggi, i residenti di origine mediorientale o nordafricana.
La bianchezza
Chiunque sposi la prospettiva critica verso la razza sa bene che, seppur costruito, quello di razza è un concetto vivo nella società e in grado di influire pesantemente nella biografia e nella traiettoria di vita dei soggetti. Tornando alla tassonomia razziale che il censimento nazionale elabora, ad esempio, occorre ricordare che le definizioni ufficiali e burocratiche che esso istituisce sono servite per elaborare policies volte a discriminare o avvantaggiare le minoranze, a seconda del periodo storico.
Oggi il censimento è la base per stabilire le politiche di affermative action (azioni positive), ovvero le quote di rappresentanza delle minoranze nelle scuole e sui posti di lavoro. La sua genesi ha però intenti meno nobili: in una società composta da residenti nativi, coloni e immigrati, schiavi africani deportati e poi liberati, decidere chi poteva essere incluso tra i bianchi era cruciale, visti i privilegi giuridici, economici e sociali che la bianchezza portava con sé. La whiteness era la proprietà necessaria per divenire cittadini della repubblica americana.
Dal XVII secolo fino agli anni Sessanta del Novecento ai bianchi, in particolare a quelli di origine europea, e più specificatamente ai ricchi protestanti anglosassoni, sono stati accordati privilegi esclusivi in materia d’istruzione, immigrazione, diritto di voto, cittadinanza, acquisizione dei terreni e procedimenti penali.
Il fenomeno della trasparenza
Come mostra bene l’esempio del censimento nazionale, e come ricordano gli studiosi critici della razza, è evidente che il principio per cui il diritto costruisce la razza non vale solo per la razza nera. Anche quella bianca è frutto di un processo di costruzione guidato da norme giuridiche che hanno trasformato la bianchezza in un fatto oggettivo. È anzi possibile spingersi oltre e sostenere che, stabilendo i confini fra identità razziale bianca e non bianca, la bianchezza abbia costruito se stessa.
Sono stati i bianchi, ad esempio, a stabilire che negli Stati Uniti la prole nata da un uomo bianco e una donna black fosse black, anche se bianca nell’aspetto e nei tratti somatici. Si tratta di quella che l’antropologo Marvin Harris ha chiamato «regola dell’ipo-discendenza»: bastava una sola goccia di sangue nero per essere considerati black.Secondo la Critical Race Theory i privilegi della whiteness non sono uno spiacevole ricordo del passato. Rispetto alla fase storica del segregazionismo, l’emarginazione dai benefici sociali che comporta il non essere bianchi si è fatta semplicemente meno sfacciata.
La studiosa di diritto ed esponente della CRT Barbara Flagg ha elaborato questo concetto attraverso la potente immagine della trasparenza: nella vita quotidiana i bianchi non pensano a loro stessi in termini razziali. Associando il concetto di razza esclusivamente alle persone di colore, tendono a guardare la razza dall’esterno, come se per loro fosse del tutto trasparente. Sono consapevoli della loro bianchezza solo quando si rapportano a un contesto in cui sono presenti non-bianchi.
Lo dimostra anche una serie di esperimenti condotti con alcuni studenti dalla psicologa Beverly Tatum. Alla richiesta di completare la frase “Io sono…” in un minuto, gli studenti di colore immediatamente menzionano la loro appartenenza razziale o etnica, le donne il loro essere donna, gli studenti ebrei l’appartenenza religiosa, gli studenti gay l’identità sessuale. I ragazzi bianchi, invece, non menzionano la bianchezza, così come gli uomini non includono nella descrizione il loro genere e gli eterosessuali il loro orientamento sessuale.
Dalla Color Blindness alla Race Consciousness
Il fenomeno della trasparenza, secondo gli studiosi critici della razza, mette in discussione il concetto stesso di decisione neutrale. Se i bianchi non sono consapevoli del loro essere bianchi, è infatti possibile che le scelte da loro considerate neutrali rispetto alla razza (il cosiddetto trasparently white decisionmaking), in realtà, non lo siano. Vi è una buona probabilità che i criteri da loro utilizzati per prendere decisioni cruciali per la vita di tutti, presentati come neutrali o ciechi rispetto alla razza, tendano anche solo involontariamente a essere associati alla bianchezza. È possibile, per esempio, che si limitino a sancire come razzisti solo gli atti dichiarati ed espliciti, senza mettere in discussione i fattori profondi e strutturali che determinano le diseguaglianze fra gruppi.
La bianchezza, dunque, non è solo un sistema di privilegi, ma include anche la capacità di nasconderli. Creando una cornice concettuale in cui l’azione umana è presentata come assoluta e libera da condizionamenti esterni, i bianchi si convincono di non essere razzisti, diventando così complici passivi della riproduzione delle strutture di subordinazione. Secondo i teorici critici della razza non basta non essere razzisti: occorre svelare i meccanismi che creano e mantengono il privilegio all’interno e attraverso i sistemi di potere, dismettendo così l’abito della trasparenza.
Le azioni positive
La soluzione alla disuguaglianza razziale non è dunque la color-blindness (in italiano traducibile con daltonismo razziale, o cecità verso la razza), la concezione secondo cui la produzione normativa e giurisprudenziale deve disconoscere qualunque rilevanza al fatto del colore.
Come già detto, la meritocrazia cieca verso il colore, centrata esclusivamente sul successo del singolo individuo, non intacca i modelli strutturali del privilegio e dell’oppressione. Pur suscitando l’impressione di un’eguaglianza giuridica formale, si serve di nozioni giuridiche ideologiche intrise di privilegio bianco.
Ciò che occorre, sostiene la CRT, è piuttosto una nuova color-consciousness, ossia una nuova razzializzazione, sia nella teoria che nella pratica politica. Nel campo del diritto serve una legislazione antidiscriminatoria razzialmente consapevole e basata su interventi che compensino gli svantaggi derivanti dai pregiudizi e dalla discriminazione.
È il caso delle affermative actions, ossia delle politiche studiate per promuovere la partecipazione di persone con specifiche identità razziali, etniche, di genere, sessuali e sociali in contesti in cui sono sottorappresentate attraverso programmi di reclutamento mirato, trattamenti preferenziali e quote nei corsi di istruzione, posti di insegnamento, assunzioni di lavoro e assegnazione di appalti pubblici.
Il concetto di affermative actions, così come quello di pari opportunità, nasce negli Stati Uniti nella seconda metà del Novecento, in un Paese scottato dalla tragica eredità storica e giuridica della schiavitù e della segregazione razziale. Si tratta però di un’eccezione. Il modello di tutela antidiscriminatoria americano tradizionalmente punisce principalmente le discriminazioni dirette e intenzionali, focalizzandosi sulla giustizia individuale e privilegiando la dimensione formale e neutralista dell’eguaglianza.
Non è un caso che le azioni positive, dopo una prima fase di accettazione subito dopo l’entrata in vigore del Civil Rights Act del 1964, già dagli anni Ottanta abbiano trovato quasi sempre l’opposizione delle corti, dove sono state interpretate spesso come discriminazioni al rovescio e dichiarate, pertanto, illegittime. Ancora oggi il dibattito sulla loro applicazione è appassionato, specialmente in questi mesi in cui l’amministrazione Trump ha cancellato alcune direttive che promuovevano la diversità all’interno di scuole e di università.
La razza nell’epoca post-razziale
Le questioni e le sfide poste dagli studiosi critici della razza sono più attuali che mai. L’ingresso di Obama alla Casa Bianca ha segnato l’inizio di quella che questi stessi studiosi hanno definito post-racial era, ossia un’epoca dominata da un’ideologia cieca verso la razza: il fatto che un afroamericano sia stato eletto presidente per molti dimostrerebbe che l’America ha superato il suo passato razzista e che la razza non rappresenta più un principio centrale dell’azione sociale.
Gli studiosi critici della razza ribattono che il cambiamento della dimensione simbolica dell’oppressione razziale non implica necessariamente un cambiamento della dimensione materiale. Così come la fine formale della segregazione non ha smantellato il potere razziale, la vittoria del presidente Obama non chiude il discorso sulla razza. Al contrario, è necessario smontarne i meccanismi ideologici.
Il pensiero post-racialist del programma politico di Obama durante la campagna elettorale e dopo l’elezione si presenta come “universale”, cioè l’opposto di races specific. Il post-razzialismo politico di Obama è infatti una declinazione della Color Blindness: entrambe respingono le politiche basate sulla coscienza di razza a favore di soluzioni universali e ignorano il modo in cui la razza opera per la preservazione illegittima dei vantaggi del gruppo dominante. La giustizia sociale, ha spesso dichiarato Obama, non può essere perseguita attraverso politiche che favoriscono le minoranze e spaccano la popolazione americana in un “noi” e “loro”, ma attraverso politiche universali che garantiscano a tutti gli americani, e quindi anche alle minoranze, istruzione, lavoro e assistenza sanitaria.
Per la Color Blindness, la razza, che coincide con il colore della pelle, non può essere utilizzata neanche per scopi integrazionisti, poiché implica il trattamento di individui uguali in maniera diversa sulla base di una caratteristica arbitraria, priva di rilevanza sociale, sulla quale gli individui non hanno nessun controllo.
Non la pensano così gli studiosi critici della razza, per i quali, invece, la razza è costrutto sociale, politico, e culturale: non solo si può ma si deve parlare di razza senza per questo essere razzisti.