Quando i poeti fanno gli esami

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Dedicato ai poeti che stanno affrontando il concorso a cattedre, il TFA, il concorso per l’abilitazione nazionale all’insegnamento universitario.

Ieri sera ripensavo a un episodio della vita di Camillo Sbarbaro (1888-1967), uno dei grandi poeti in lingua italiana del secolo scorso, che, dopo aver lavorato come impiegato all’Ilva, ha sbarcato il lunario per gran parte della vita traducendo dal francese, dando lezioni private di greco e, perfino, raccogliendo licheni per i botanici di mezzo mondo. Camillo, precocissimo poeta, dopo la maturità classica si iscrisse all’esame di ammissione all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, quella che nel 1924 sarebbe divenuta la Facoltà di Lettere, il luogo in cui ebbero a ritrovarsi Salvemini, Jahier, Serra, De Robertis, Slataper, Michaelstaedter e tutti quei giovanissimi intellettuali che, per un breve lasso di tempo, resero Firenze una capitale culturale. A quell’esame, tuttavia, Camillo Sbarbaro non partecipò mai, poiché una volta arrivato a Firenze egli preferì – così narra il poeta stesso – seguire un’altra ispirazione: “Arrivando, cenai con un uovo in obbedienza alla raccomandazione di risparmiare. Senonché la notte porta consiglio: la prospettiva di girare per il resto della vita il disco davanti alla scolaresca svogliata di qualche ginnasio di provincia, mi atterrì; aggiungi che, ferrato in greco e in latino, mi presentavo al concorso completamente digiuno di Dante; tanto m’aveva reso uggioso il divino poema un illustre dantista che, ti basti questo, all’unica figlia aveva messo nome Beatrice. Fatto sta che il mattino dopo, invece di avviarmi verso piazza San Marco per sostenere la prima prova, passava una fanfara militare e mi accodai. Scarto, di cui ancora ringrazio il Cielo”.
Ben altro atteggiamento ebbe invece il poeta Dino Campana (1885-1932), che, scopriamo ora da un bel libro curato da Paolo Maccari (Il poeta sotto esame, Passigli 2012) nell’aprile del 1911 affrontò le prove d’esame per diventare insegnante di lingua francese. E così scopriamo, a cento anni di distanza, che uno dei maggiori poeti della letteratura italiana, noto oltre che per le sue opere per la sua vita disordinata e, quindi, per la lunga esperienza manicomiale (Campana trascorse a Castel Pulci 14 anni della sua vita), all’età di 26 anni desiderava cambiare vita, abbandonare il progetto – mai perseguito con costanza – di diventare farmacista attraverso lo studio alla facoltà di Chimica per divenire, invece, insegnante di lingue.
Dino fu bocciato all’esame. Dopo aver preso appena la sufficienza a uno dei pochi temi di italiano che io abbia letto con vera gioia e soddisfazione, il poeta crolla al tema in francese e poi, soprattutto, al dettato, vittima di una competenza linguistica basata fondamentalmente sull’oralità e sulla lettura dei poeti piuttosto che sulla scrittura e sullo studio della grammatica.
Il tema di italiano ha un titolo straordinario, scritto, pare, dal presidente della commissione, il filologo Pio Rajna: A zonzo per Firenze! Il poeta-camminatore dei Canti Orfici non avrebbe potuto chiedere di meglio. E infatti inizia il tema con piglio sicuro: “Firenze si delinea nettamente tra i miei ricordi. Ancora giovinetto, il suo cielo profondo, spirituale, lontano dalla terra come in nessun altro paese, risvegliò in me una nostalgia acuta verso le sorgenti più alte e più pure della vita; e mi parvero un paradiso i suoi colli, da cui guardai risplendere nella pianura felice la sua bellezza misteriosa, il miracolo del suo duomo di marmo”.
E che dire del tema di francese, intitolato Le repentir, in italiano Il pentimento! Privo di spavalderia, Dino Campana si mostra da subito con coraggio, senza maschere e senza strategie, affermando: “Il pentimento è spesso fatale per le anime sensibili, che hanno bisogno di credere alla bontà della vita e che provano un amaro piacere ad abbattersi da sole. Le indoli forti non si soffermano: per esse, non fa che illuminare il cammino che hanno intrapreso. Noi conosciamo ogni giorno il pentimento. È fatale. Il nostro compito deve essere che non sia sterile. Coraggio, sempre. D’altra parte, il mondo è grande. Io, per esempio, se boccerò all’esame di francese, non mi sfinirò in un interminabile pentimento. Me n’andrò in America, dove gli ampi spazi, la vita libera, mi faranno presto ringiovanire” (traduzione di Paolo Maccari).
E allora andiamo anche noi, scaramanticamente, prendendoci una pausa dagli studi, in America con Dino Campana: “Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero: che la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente irresistibile” (Canti Orfici).

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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