Quale merito?

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Il merito è uno dei concetti oggi più invocati nella discussione pubblica. Ma cosa intendere per merito? Su cosa si basa la sua attribuzione? Quali possono esserne gli spazi di applicazione? Dopo avere analizzato le principali questioni in gioco, proviamo a sviluppare una nozione di merito che si contrappone alle visioni oggi dominanti. Dal numero 24 de La ricerca, “Nel merito”. 

Il merito è uno dei concetti più invocati oggi nella discussione pubblica. Ne è testimonianza, fra l’altro, il recente cambiamento di nome del Ministero dell’Istruzione in Ministero dell’Istruzione e del merito. Parafrasando Sen1, tuttavia, «l’idea di merito può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di esse». A seconda di come si configura, le implicazioni possono essere molto diverse.

In primo luogo, come specificare il merito? Young2, l’inventore del termine “meritocrazia”, definisce il merito come l’insieme di abilità cognitive, consistenti nel quoziente di intelligenza, e di sforzo esercitato per fare fruttare tali abilità. Le abilità, tuttavia, potrebbero estendersi alle abilità sociali, artistiche, fisiche… Abilità e sforzo potrebbero poi diversamente combinarsi. Tutte le combinazioni vanno bene, inclusa la totale sostituibilità fra i due elementi? Vale a dire, il merito è compatibile con la sola presenza di abilità o di sforzo? Ad esempio, uno stonato che non ha alcuna abilità a cantare, nonostante si impegni moltissimo, può essere considerato ugualmente meritevole rispetto a chi, senza alcun sforzo, gorgheggia meravigliosamente potendo disporre di una voce eccelsa? Allo stesso tempo, lo sforzo potrebbe essere il merito stesso ricercato anziché essere solo lo strumento grazie al quale sviluppare altre abilità. Ad esempio, si potrebbe ritenere più meritevole chi ha un po’ meno competenza tecnica, ma più abilità di sforzo nella cooperazione. E, ancora, il merito potrebbe concernere anche le virtù morali?

Il merito, inoltre, è un attributo della persona oppure della prestazione erogata? Detto in altri termini, il giudizio di meritevolezza concerne i singoli oppure quanto i singoli fanno? Naturalmente, la prestazione è opera di qualcuno, ma portare l’attenzione su di essa attenua il legame fra merito e persona. Il merito è in quello che si fa, non in quello che si è.

Vanno poi considerati come meritevoli i risultati raggiunti a prescindere dalla condizione di partenza, oppure deve essere tenuto in considerazione da dove si parte, ovvero, ad esempio, la famiglia in cui si nasce? In altre parole, adottiamo una nozione formale oppure una sostanziale di merito? Riprendendo un noto esempio di Williams3, ipotizziamo una società di guerrieri. Il merito formale richiede che, nella selezione dei guerrieri, si consideri solo la bravura, a prescindere dalla provenienza sociale. Non si può, grazie a una raccomandazione, fare andare avanti i figli dei ricchi, anche se meno bravi. I figli dei ricchi potrebbero, tuttavia, risultare avvantaggiati, perché hanno avuto miglior cibo, migliore addestramento fisico, migliori lezioni di strategia militare, sono cresciuti in un ambiente familiare e in un contesto sociale che ha permesso loro di credere in sé e di avere aspettative positive per il futuro. La dimensione sostanziale aggiunge che tutti abbiano le stesse possibilità di sviluppare le abilità guerriere, a prescindere dalla famiglia di origine.

Infine, qual è lo spazio del merito? Si applica a tutti i diversi ambiti del nostro vivere o solo ad alcuni di essi?

Risponderei così. Rispetto alla nozione di merito, porterei, innanzitutto, l’attenzione sulla distinzione fra titolo valido e merito. Si consideri una gara di tennis: chi ha il punteggio più elevato ha un titolo valido alla vittoria, ma potrebbe avere meno merito di chi ha giocato fino all’ultimo e ha dovuto ritirarsi per infortunio. Sebbene nel linguaggio ordinario spesso il merito venga invocato in entrambi i casi, il titolo valido è semplicemente un’aspettativa legittima, mentre il merito indica qualcosa in più, relativo alla qualità di quanto si offre.

Ciò specificato, è dirimente evitare una visione monistica del merito come avente a che fare unicamente con le abilità cognitive, e adottare, invece, una visione pluralistica attenta al complesso della abilità sopra indicate (non solo le abilità cognitive), dello sforzo e anche delle virtù, intese come fare qualcosa in più di quanto prescritto dai principi di giustizia. Sforzo e abilità appaiono solo parzialmente sostituibili. È difficile avere merito per qualcosa che si ha naturalmente. Al contempo, se la qualità è un elemento centrale del merito, è difficile essere considerati meritevoli se si è del tutto privi di abilità.

Certo, individuare le abilità, lo sforzo e le motivazioni virtuose pone un problema informativo: non sempre si hanno tutte le informazioni necessarie. Ad esempio, Hayek4 rifiuta il principio del merito proprio perché è impossibile conoscere se le motivazioni individuali siano effettivamente virtuose oppure si sia virtuosi per ragioni di mero opportunismo.

Un antidoto, seppure parziale, si può ritrovare rispondendo alla domanda se il merito riguardi la persona o la prestazione. Scegliere le prestazioni permette di concentrarsi sul solo risultato finale cui abilità e sforzo danno luogo. Inoltre, porta a escludere dal merito il mero possesso di caratteristiche naturali, quali la bellezza5. Rispetto alle virtù, conterebbe solo cosa si fa, non la motivazione. Il che non significa azzerare le complessità informative appena rilevate, che sono un punto importante da tenere a mente. Le stesse prestazioni sono multidimensionali, e stilare giudizi di merito non è facile. Significa, però, ridurle.

Scegliere le prestazioni permette, altresì, di evitare/limitare il cosiddetto “lato oscuro del merito”, ossia l’arroganza e il senso di superiorità di chi fa coincidere il merito con il ritenersi meglio degli altri, nonostante la componente di casualità sia preponderante. Le abilità dipendono dalla lotteria naturale e in parte da quella sociale (le condizioni di sviluppo del feto sono influenzate dalle condizioni della madre) e lo stesso vale per lo sforzo. Almeno gli effetti della lotteria sociale possono essere mitigati, ma, anche nel migliore dei mondi possibili, potrebbero non essere azzerabili, pena la messa in discussione della famiglia stessa. Vi è poi un altro fattore centrale, seppure spesso trascurato: il ruolo degli altri. Una persona potrebbe avere abilità elevatissime nell’intrecciare cestini, e sforzarsi moltissimo nel farlo, ma se nella collettività nessuno apprezza le sue abilità e i suoi sforzi, a quella persona non saranno riconosciuti meriti. Si pensi ai tanti artisti misconosciuti o addirittura invisi al pubblico in vita, e poi apprezzati da morti. Il merito, in breve, ha una componente inevitabilmente sociale e istituzionale, dipendendo dalla natura delle istituzioni in cui è ricercato, e che di fatto lo normano.

Rispetto alla scelta fra nozione formale e nozione sostanziale, la risposta appare, invece, semplice, almeno a dirsi. Chiunque, a prescindere dalla famiglia in cui si nasce, dovrebbe avere le stesse opportunità di sviluppare i meriti. L’uguaglianza di opportunità è al cuore di qualsiasi declinazione di giustizia sociale6. Poi, come sopra accennato, rimangono le tensioni fra riconoscimento della famiglia e uguaglianza di opportunità, ma l’obiettivo ideale è quello di eliminare il più possibile il peso delle influenze della famiglia. Il dilemma, più trascurato, e controverso, è come comportarsi qualora tale uguaglianza non sia realizzata, come è oggi realtà diffusa. Dobbiamo tenere conto delle circostanze e adeguare di conseguenza le valutazioni di merito? Le quote, ad esempio, mirano esattamente a questo.

Rispetto, infine, allo spazio da attribuire al merito, una prima risposta concerne la selezione delle posizioni sociali scarse. Anche se il merito ha origini in gran parte casuali, non fare vincere chi è in grado di offrire le prestazioni migliori viola l’uguaglianza di rispetto nonché l’efficienza. Il merito, inoltre, potrebbe essere invocato come criterio di riconoscimento sociale di comportamenti virtuosi (nel senso sopra indicato, di comportamenti che vanno oltre a quanto richiesto dai principi di giustizia). Le medaglie al merito sono un esempio. Ancora, il merito dovrebbe essere presente nell’ambito dell’istruzione, inclusa l’istruzione obbligatoria, il compito della scuola essendo esattamente lo sviluppo delle abilità dei singoli nonché l’educazione alla cittadinanza, dunque, la promozione di competenze e valori morali al cuore del merito. La scuola dell’obbligo deve soddisfare il diritto all’istruzione, e non fare classifiche fra meritevoli e non meritevoli, ma il merito non richiede necessariamente la gara competitiva con gli altri: può riguardare l’impegno di ciascuno a fare il meglio con le abilità che si hanno, e questo è del tutto compatibile con il riconoscimento del diritto universale all’istruzione.

Assolutamente critica mi pare, invece, l’estensione in ambiti che hanno a che fare con i diritti, ad esempio, i diritti all’accesso alla sanità o a un reddito minimo, dove il principio clou è quello della giustizia nella soddisfazione dei bisogni, oppure l’uso del merito quale criterio di giustificazione delle disuguaglianze di mercato. A quest’ultimo riguardo, come scrive Santambrogio7, «il merito non è transitivo: è possibile che (1) B sia una conseguenza (persino necessaria) di A, (2) A sia meritato, e tuttavia (3) B non sia meritato. Ad esempio, le squadre di soccorso in alta montagna corrono gravi rischi in caso di maltempo. Qualcuno che ha meritato di entrare in una squadra non merita perciò stesso di avere le dita congelate. Analogamente, qualcuno che ha meritato il posto di CEO di una multinazionale può non meritare lo stipendio milionario associato».

Contro il merito quale criterio di giustificazione delle disuguaglianze economiche gravano il peso di tutti i fattori casuali presenti nel merito sopra ricordati, nonché l’incommensurabilità stessa del merito: possiamo dire che, a parità di sforzo, un medico merita più di un infermiere? Il medico potrebbe avere un titolo valido ad avere di più (ad esempio, ha maggiori responsabilità), ma non un merito, solo lo sforzo dipendendo da lui. Certo, nel merito, esiste anche lo sforzo. Ma le valutazioni di mercato riescono a distinguere solo labilmente il ruolo dello sforzo a parità di “classe” di prestazione (ad esempio, nella comparazione fra cuochi di diversa qualità) e commisurano tutte le prestazioni, anche se di natura diversa, sulla base di un’unica metrica cardinalistica, quella della moneta8.

L’insieme di queste riflessioni porta a una visione del merito assai diversa da quelle oggi più diffuse nella discussione pubblica. È diversa dalla visione che fa leva su una nozione sostanzialmente monistica e auto-evidente di merito, inteso come proprietà delle persone (i meritevoli); esalta il valore della gara competitiva e legittima le disuguaglianze economiche sulla base del merito. Al contempo, riconoscendo il ruolo del merito, si contrappone anche a chi vede nel merito, sempre e comunque, un valore antitetico alla giustizia.

La visione proposta riconosce, infatti, il carattere composito e complesso del merito (sotto il profilo sia valoriale sia della misurazione), vede nelle prestazioni, anziché nelle persone, il luogo dove il merito si evidenzia e mette in discussione la connessione fra riconoscimento del merito e riconoscimento delle disuguaglianze economiche. È, inoltre, assai più sensibile alle tante violazioni oggi esistenti dell’uguaglianza di opportunità, le quali compromettono la selezione stessa dei meritevoli, mettendo i più fortunati nella lotteria sociale ben più avanti rispetto ai meno fortunati.


Note

  1. A. Sen, “Merit and Justice”, in K. Arrow, S. Bowles e S. Durlauf (a cura di), Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 5-16.
  2. M. Young, The Rise of Meritocracy 1970-2033, Penguin 1973 (edizione italiana L’avvento della meritocrazia, trad. it. C. Mannucci, Edizioni di Comunità, Roma 2014).
  3. B. Williams, “The Idea of Equality”, in P. Laslett, G. Runciman (a cura di), Philosophy, Politics and Society, Blackwell, Oxford 1962, p. 110-131.
  4. F. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, Routledge and Kegan, London 1973 (edizione italiana Legge, legislazione, libertà, trad. it. P. G. Monateri, Il Saggiatore, Milano 2010).
  5. D. Miller, Two Cheers for Meritocracy, in «Journal of Political Philosophy» 4, 4, 1996, pp. 277-301.
  6. E. Granaglia, Uguaglianza di opportunità. Sì, ma quale?, Laterza, Roma-Bari 2022.
  7. M. Santambrogio, Che cosa è il merito?, 14 marzo 2023, consultabile all’indirizzo https://eticaeconomia.it/che-cosa-e-il-merito/.
  8. A. Boitani, M. Franzini, Dall’illusione meritocratica alla limitata immeritocrazia, 4 luglio 2022, consultabile all’indirizzo https://eticaeconomia.it/dallillusione-meritocratica-alla-limitata-immeritocrazia/.

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Elena Granaglia

insegna Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Giurisprudenza, RomaTre. Da sempre si occupa del rapporto giustizia distributiva e disegno delle politiche sociali. È appena uscito il suo ultimo libro “Uguaglianza di opportunità. Sì, ma quale?” Laterza, Bari-Roma 2022. È fra i fondatori del Forum Disuguaglianze Diversità del cui coordinamento è oggi parte ed è componente della redazione del Menabò di Etica e Economia.

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