Nel menù a finestre del TG di Sky mi imbatto, però, nella diretta dell’intervento di Matteo Renzi all’Assemblea Nazionale del Pd. Tra i temi del suo “indice” (per la verità poi non interamente rispettato: aveva dichiarato che avrebbe parlato anche di università e ricerca, ma non è accaduto, spero per limiti di tempo) sento che c’è anche la scuola e, lasciato cadere il libro, mi metto in poltrona comodo per ascoltarlo.
Rimango sorpreso – detto sinceramente – dal punto di vista dal quale si parte. Renzi spiega come l’avvio dei cantieri relativi all’edilizia scolastica non possa esaurire l’intervento sulla scuola, ma costituisca il livello minimo, i presupposti da cui iniziare a occuparsi di scuola. Come suo costume esemplifica e semplifica efficacemente: “In pratica stiamo dicendo soltanto che non vogliamo che i soffitti cadano sulle teste dei nostri figli… grazie!: e dunque, sostiene il segretario del PD e Presidente del Consiglio, una volta sbloccati i cantieri (sicuramente una buona notizia anche per l’occupazione nel settore edile) e una volta assegnato, con semplice buon senso, al piano per l’edilizia scolastica il valore di condizione minima di esistenza di qualcosa che si chiama scuola, occorre, adesso proporre agli italiani e alle italiane il racconto di quale scuola vogliamo per il futuro. L’analisi successiva proposta da Renzi però alimenta perlomeno qualche dubbio circa le intenzioni rispetto alla scuola medesima: intorno ad alcuni temi proposti vorrei, allora, proporre qualche riflessione e qualche domanda.
Dopo aver presentato le iniziative di edilizia scolastica infatti Renzi parla di “rottura” del patto educativo. “In Italia – sostiene il Premier – si è ormai rotto il patto educativo tra famiglie e insegnanti [precisazione: forse avrebbe dovuto dire il patto educativo tra la scuola pubblica, cioè lo Stato e i cittadini], perché gli insegnanti arrivano ad insegnare dopo una trafila burocratica lunghissima che mina anche gli spiriti più indomiti e desiderosi di innovare, perché quando si entra si sa che se di fronte a noi ci sono tagli questi saranno effettuati sulla scuola, perché oggi quando un insegnante chiama un genitore per dirgli che suo figlio ha combinato qualcosa il genitore si arrabbia con l’insegnante…”. Quali problemi della scuola si leggono tra le righe di questa affermazione (ho preso appunti velocemente di fronte al televisore, posso aver tradito dunque qualche parola del Premier, ma non i concetti espressi)? Siamo in presenza di una visione della scuola, ancora, al centro della quale sta l’insegnante (buono o cattivo, secondo la visione politica di turno) e non gli alunni.
Partiamo dall’analisi dei problemi evidenziati da Renzi per allargare lo sguardo:
– Correttamente, Renzi sostiene che vi sia un problema nella formazione e nel reclutamento iniziale (dalle SISS, ai TFA, ai PAS e ora di nuovo ai TFA… le occasioni sono state molte, e almeno parzialmente sprecate) degli insegnanti. Sicuramente la continua variazione di regole, procedure, modalità di accesso, il basso livello retributivo e la sostanziale impossibilità di sviluppo della propria carriera non incoraggiano i migliori insegnanti potenziali ad avvicinarsi a questa professione, sicuramente non li incoraggia la narrazione sociale attorno al ruolo dell’insegnante (bene fa, in tal senso, Renzi a ricordare più volte il grandissimo alfabetizzatore che è stato il maestro Manzi), sicuramente non li incoraggia un percorso di formazione iniziale in cui dovranno, più che altro, rivivere esperienze già vissute nella propria formazione universitaria sia come modalità formativa che come contenuto medesimo della formazione, ma con diverso scopo (il che, si capisce, rappresenta un assurdo concettuale). Anziché costruire una professionalità specifica per gli insegnanti (il cui specifico è rappresentato dal saper contribuire all’educazione attraverso gli apprendimenti, e dunque è un professionista dell’apprendimento di gruppi) abbiamo dedicato molto tempo e molte risorse a farli diventare più esperti della propria disciplina. E l’abbiamo fatto – altro paradosso – trasmettendo loro contenuti iper-specialistici sideralmente distanti dagli obiettivi di apprendimento dei loro futuri alunni, e, per di più, attraverso una lezione frontale.
La motivazione va cercata proprio nei modelli di formazione iniziale (universitaria e post-universitaria) e di selezione (il possesso di nozioni a volte piuttosto astruse ha spesso disciplinato l’accesso e dunque definito chi avesse i pre-requisiti e chi no per svolgere questa professione). Ha senso concludere con esami, a volte centrati ancora prevalentemente su contenuti disciplinari, percorsi di abilitazione in cui vengono comunque tutti promossi? Si ritiene ancora sostenibile l’idea che tutti possano fare gli insegnanti? Davvero non sono richieste capacità relazionali, di gestione dei gruppi e comunicative? Davvero la conoscenza di un campo disciplinare (o, peggio, di un insieme di nozioni e conoscenze interne a un campo disciplinare) è sufficiente? Davvero sono ancora sostenibili modalità di formazione iniziale che consentono a una larga percentuale di insegnanti una successiva inadeguatezza al ruolo che a sua volta produce reazioni negative per gli alunni? Idee, sperimentazioni, meta-analisi, ricerche in tal senso sono disponibili, oggi sappiamo molte cose su cosa funziona e cosa non funziona per favorire l’apprendimento. Possiamo tesaurizzare ricerche ed esperienze importanti e positive e metterle a sistema? È pensabile che la classe insegnante del futuro sia composta di professionisti dell’apprendimento anziché dell’insegnamento? Professionisti che mettano al centro della propria azione didattica il far apprendere anziché l’insegnare? Che siano capaci di costruire situazioni e contesti di apprendimento? Che considerino i risultati di apprendimento dei propri allievi non una variabile indipendente ma come qualcosa che fotografa anche, fatte salve le condizioni di partenza e di esercizio, il proprio livello di professionalità? È possibile intervenire in modo esplicito (e velocissimo) sull’obbligo di formazione in servizio degli insegnanti (l’assurdo che chi deve far apprendere gli altri e insegnargli il valore dell’apprendimento tutta la vita smetta di formarsi e di apprendere è una contraddizione in termini da cancellare immediatamente)? Possiamo costruire un sistema di racconti, epiche, narrazioni (prendendo spunto da tante situazioni reali, mica inventando) che renda, di qui a cinque anni, la professione dell’insegnante una professione ambita (ovviamente a condizione che diventino chiari, stabili ed efficaci i percorsi di inserimento e formazione iniziale e che sia possibile incrementare le retribuzioni sulla base delle capacità e competenze dell’insegnante, dei risultati di apprendimento dei suoi allievi e sulla sua disponibilità a investire più tempo a scuola, senza poi portarsi il “lavoro a casa”)?
– Il tema dei tagli nella scuola è invece piuttosto paradossale. Le analisi disponibili anche online dimostrano come gli investimenti nell’istruzione e formazione nel nostro paese rappresentino una quota, sia in termini assoluti che relativi, bassa e mal spesa. Nel processo di cambiamento del quale il Governo Renzi si sta facendo latore è possibile immaginare anche un’inversione di tendenza concreta? Per esempio, inserendo delle premialità per gli insegnanti che riescono a far acquisire competenze in situazioni di difficoltà iniziale, o capaci di processi di complessivo innalzamento degli apprendimenti di gruppi-classe. Magari destinando da subito risorse alla formazione iniziale e in servizio degli insegnanti, stando molto, molto attenti all’innovazione nella stessa (nelle modalità, nei contenuti, nelle competenze obiettivo per gli insegnanti e negli stessi interpreti, per non rischiare il paradosso creatosi con l’innovazione nei concorsi universitari attuato con le idoneità nazionali: ritenere un sistema, quello dei concorsi universitari, governato in maniera parziale e clientelare dai “baroni” e poi affidare, sostanzialmente, criteri e valutazioni dei nuovi concorsi, agli stessi… La patologia di un sistema difficilmente può essere curata dagli agenti patogeni). Per esempio, destinando risorse al recupero delle competenze di base e di cittadinanza per tutti i dropout e i neet italiani (che sono una potenziale bomba sociale a orologeria). Per esempio integrando politiche dell’istruzione e della formazione co quelle dell’occupazione in duplice senso: ampliare l’offerta formativa nazionale (e dunque incrementare le competenze e le possibilità di lavoro di tutti) anche attraverso forti agevolazioni fiscali a tutte quelle realtà no profit che, operando nella o a sostegno dell’istruzione e della formazione, assumano personale, trasformino posizioni precarie in assunzioni a tempo determinato, anche in considerazione del beneficio sociale della loro azione con costi ridotti (in assenza di utile) per la collettività; ampliando la quantità assoluta di ricercatori tramite rilevanti crediti d’imposta a chi finanzia la ricerca, l’innovazione e la sperimentazione anche nel settore educativo e formativo (al quale è importantissimo dare impulso per divenire, di nuovo, riferimento mondiale). Verificare la qualità dell’erogazione del sistema di formazione e di istruzione, senza incartarlo in processi gestionali e rendicontuali iper-burocratizzati e tesi a complessificare le procedure, (giungendo al paradosso che i costi amministrativi, finanziari e di gestione burocratica diventano superiori a quelli di erogazione e gestione della didattica e i tempi si dilatano a dismisura), ma al contrario attraverso sistemi a burocrazia zero e maggiore controllo della qualità.
– Il tema della rottura della fiducia delle famiglie negli insegnanti è indubbio: ciò non deriva anche dalla rottura di fiducia degli allievi stessi nel ruolo della scuola circa la loro vita? Il problema non può ridursi alla gestione dell’infrazione alla regola tra insegnante e famiglia: il problema è rendere la scuola un luogo in cui si va volentieri per imparare. Il primo patto da ricostruire, dunque, la prima fiducia, nella concretezza estrema della situazione educativa, è quello tra insegnanti e allievi. Un patto e una fiducia si ricostruiscono con una disponibilità reciproca, ma nella quale la responsabilità più grande sta in capo all’adulto. Un patto che deve fondarsi su un’alleanza e non in un sistema di premi e punizioni – alleanza che può darsi e dirsi solo se l’obiettivo è lo stesso: conquistare apprendimenti e strumenti di apprendimento, visione critica, autonomia, responsabilità. Scopo della scuola è dotare i ragazzi, attraverso esperienze di apprendimento, delle competenze e degli strumenti per inserirsi nella vita, per padroneggiarla e progettarla nel modo più efficace possibile e nel rispetto degli altri.
Si impara solo se si crede che si può farlo e se si ritiene che ci sia qualcosa da imparare che abbia un’attinenza e una pertinenza con la nostra vita. La valutazione e concezione negativa della scuola di cui è portatrice una porzione significativa di bambini, preadolescenti e adolescenti potrà allora essere, almeno in parte, fondata (sul disagio nella relazione educativa, segnalo un contributo sulla rivista LLL). In ogni caso, quando in un paese una porzione significativa della popolazione scolastica non ritiene significativa la propria esperienza formativa, questo vuol dire che quell’esperienza non funziona più e che obiettivi, strumenti e metodi vanno ripensati. Non si tratta, insomma, di stabilire chi ha torto e chi ha ragione: le giovani generazioni debbono, ed è questa forse la mancanza più forte nelle narrazioni che si stanno diffondendo intorno alle necessità di modificazione della scuola, potersi esprimere in questo dibattito e forse ciò che hanno da dire non è privo di interesse. La prospettiva voice student’s emergente con forza nella ricerca educativa italiana più avanzata, altra voce che non viene affatto ascoltata, specie la generazione di “giovani” (35-50) ricercatori, formatori, esperti che avrebbero molto da dire e da dare circa il futuro della scuola italiana: questo esclude la possibilità di intervenire su fenomeni come la dispersione scolastica, ad esempio (il dato è peraltro verificabile anche con un semplice confronto tra costi e numerosità degli interventi attuati e risultati ottenuti), senza ascoltare le “buone ragioni” di chi si “disperde”, per scelta propria o meno. Analogamente accade per ogni altro tema, problema, cambiamento della scuola.
Il governo ascolti gli studenti e i ricercatori dell’area educativa, anche sul reclutamento e sulla formazione degli insegnanti. Il governo ascolti i giovani su cosa pensano sia necessario apprendere e perché lo ritengono importante. Il “governo del cambiamento” non può essere insensibile alle richieste di cambiamento che i giovani gli porgono.
– Rispetto al dibattuto tema della relazione con il mondo del lavoro (non menzionato stavolta, ma ricordato in altre occasioni dal Premier), invece, stia attento il governo a non cadere in un errore di valutazione già fatto in passato: non si possono schiacciare i percorsi formativi sulle richieste del mondo produttivo. Per un ampia serie di motivi di carattere etico, economico, pedagogico.
Il problema, tuttavia, può essere liquidato anche, senza addentrarsi in complesse disamine di dati, con una semplice analisi della distonia temporale. La scuola deve fornire competenze per la gestione del futuro; le aziende, anche quelle più avvedute, possono esprimere i bisogni di competenze attuali che non saranno più tali, quando un ipotetico curricolo riformato giungerà al termine. La sintesi delle competenze di base, le competenze di cittadinanza, con al centro l’imparare a imparare – per quanto possa apparire semplicistica – rappresenta ancora il miglior riferimento per l’istruzione obbligatoria. In questo senso un orizzonte differente, probabilmente di maggior interesse (senza nulla togliere alle esperienze di alternanza scuola/lavoro in imprese che pur necessitando di salti di qualità e procedure differenti, e che sono un’esperienza che merita sviluppo e riprogettazione), può essere rappresentato dal terzo settore e dal volontariato: luoghi estremamente dinamici dai quali la scuola può sicuramente prendere più di un’ispirazione, ma anche luoghi di dialogo continuo e fucina di esperienze per gli studenti (possibilmente esperienze curricolari e legate a progetti reali), che così acquisirebbero competenze certificabili e trasversali (logica di progetto, flessibilità, innovazione, in certi contesti frugalità, sono alcune delle caratteristiche che rendono particolarmente interessanti quest’area significativa del paese).
– Chiaramente questi problemi interrogano anche l’architettura del sistema di istruzione, nel quale ancora rimane il vulnus dell’obbligo di istruzione che cade in mezzo a un ciclo. Anziché proporre il liceo breve o l’assurdo taglio di un anno della scuola dell’infanzia, perché il governo non si confronta anche con altri modelli? Mi permetto di suggerire di prendere in considerazione un modello in cui vi sia:
3-6 –scuola infanzia
6-11 – scuola primaria
11-16 – scuola secondaria di primo grado e conclusione dell’obbligo di istruzione
+ 2 anni di college di preparazione alle diverse aree universitarie o formazione tecnica per l’avviamento alla professione.
Un percorso che consentirebbe comunque il recupero di un anno, ma cicli più organici e il diritto all’istruzione uguale per tutti, con separazione dei percorsi solo dopo la conclusione dell’obbligo di istruzione. Per il canale alternativo successivo, sarebbe estremamente utile la ridefinizione delle qualifiche professionali ricomprese nei vari accordi Stato-Regioni per potenziare la formazione professionale post-obbligo, fabbrica di esperimenti didattici interessanti (pur operando in condizioni spesso proibitive).
– Nessun cenno al curricolo nelle narrazioni governative sulla scuola. Vogliamo ancora sostenere che vi sia un insieme di contenuti che facilitano la crescita e la costruzione di una forma mentis (una tra le espressioni più “vuote” usate e abusate in corridoi scolastici e accademici), oppure vogliamo orientarci in direzione della definizione degli apprendimenti essenziali? Solo definendo ciò che i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi debbono imparare è possibile poi individuare i percorsi migliori per farlo, le didattiche, e i sistemi di valutazione adeguati.
– In ultimo, una riflessione sul racconto sociale imperante circa la scuola. Non parte anche da una rappresentazione sociale, una vera e propria narrativa, circa l’inutilità dei percorsi di istruzione e formazione? Non parte da un’informazione che parla di scuola soltanto per celebrarne i disastri e mai per raccontare le esperienze originali, intuitive, che funzionano? Quando inizieremo a favorire le narrazioni circa l’importanza dell’apprendimento per tutto il corso della vita? Cittadinanza, senso della giustizia, logica del merito e delle competenze, necessità del cambiamento e dell’innovazione, economia sostenibile, semplificazione, rispetto dell’altro, cura della professionalità e delle cose fatte bene, attenzione all’ambiente e all’energia – tutti temi cari a questo governo – sono figli di un paese che crede e investe, ad ogni livello, nell’apprendimento e per l’apprendimento.
Mi piacerebbe allora sollecitare, da queste pagine, la disponibilità di protagonisti, esperti, ricercatori a rispondere a delle brevi interviste (che verranno poi pubblicate in questa sede) circa il futuro della scuola, augurandomi che l’ascolto, come spesso viene ripetuto, vi sia anche su questo, decisivo, snodo per il futuro del nostro paese.