Fuor di metafora, siamo di fronte a una figura professionale che ha il compito di costruire tra il personale di un’organizzazione la massa critica favorevole all’implementazione e all’uso di una certa piattaforma tecnologica.
A occhio e croce siamo ancora una volta di fronte allo scimmiottamento – suggestivo, siamo sinceri – di un ruolo e di compiti mutuati dal mondo delle aziende, organizzazioni collettive che hanno una mission molto precisa e in cui si è vincolati a obiettivi strategici e immediati, sulla base e in funzione di processi decisionali condotti generalmente in base a una chiara strutturazione gerarchica.
Sarebbe sufficiente questa considerazione per tenersi tendenzialmente fuori dall’erigenda massa critica. A rendere ancor più necessario quest’approccio è però anche il fatto che l’esternazione del ministro sembra prospettare un’evangelizzazione di carattere non solo tecnico, ma anche metodologico, considerata l’enfasi (anch’essa per altro consuetudinaria) dedicata al bisogno di formazione e di innovazione didattica. Non solo e non tanto perché autorevoli studiosi mettono in dubbio che l’impiego delle tecnologie digitali possa davvero incrementare l’efficacia dell’azione formativa, ma anche perché nella storia della scuola italiana vi sono precedenti che – pur se caduti nell’oblio – hanno già dimostrato l’illusorietà di politiche di questo tipo.
A cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ad esempio, soprattutto nella scuola media, dove vi era un esubero di insegnanti nell’organico di Educazione Tecnica, ma anche in qualche sparsa scuola elementare, fu istituito l’Operatore Tecnologico.
L’OT fu annunciato in convegni, seminari e pubblicazioni come strategica figura di sistema, destinata a guidare stabilmente gli insegnanti della propria unità scolastica nel mondo delle strumentazioni digitali, che proprio in quel periodo cominciavano ad avere visibilità e a essere considerate straordinariamente promettenti dal punto di vista non solo formativo, ma anche gestionale e organizzativo.
La successiva politica di risparmio ridusse via via il numero di Operatori Tecnologici, fino ad azzerarlo. Il tutto nella sostanziale indifferenza generale, dal momento che si era rivelato non solo impossibile, ma anche controproducente, delegare a singoli soggetti – anche se spesso volonterosi e ben preparati – mansioni e incarichi che avrebbero invece richiesto di mobilitare consapevolezze, intenzioni e decisioni collegiali, perché destinate a incidere sulle scelte di priorità e risorse.
Un secondo e ancor più significativo fallimento ha registrato poi, all’apertura del Terzo Millennio e in occasione del piano di formazione sulle competenze informatiche e tecnologiche degli insegnanti (ForTic), il “percorso B”, chiamato così in gergo per distinguerlo da quelli di tipo A (alfabetizzazione) e di tipo C (specializzazione di tipo tecnico-operativo).
La procedura con cui i collegi dei docenti e i dirigenti designarono i singoli insegnanti alla frequenza del primo esempio di corso blended (parte in aula, parte a distanza, mediante una rete Intenet da poco fruibile con banda larga di trasmissione) di massa variarono da Regione a Regione e da scuola a scuola, ma l’idea di fondo era ben definita a livello nazionale: ciascuna unità scolastica doveva essere dotata di soggetti specializzati nell’uso didattico delle tecnologie digitali, destinati negli anni successivi a fornire stabilmente consulenza ai colleghi.
Il progetto – che utilizzava le risorse economiche raccolte con la vendita delle licenze UMTS – stanziava anche i fondi per la retribuzione dei consulenti per l’anno scolastico successivo a quello della formazione, condizione che non venne però poi rinnovata.
Questa decisione, insieme al contemporaneo cambiamento di prospettiva sugli organigrammi scolastici, che trasformava le Figure Obiettivo – pensate come profili professionali di sistema – in assegnatari di Funzioni Strumentali – concepiti invece come destinatari temporanei e di deleghe operative variabili in funzione delle priorità dei diversi Piani dell’Offerta Formativa –, determinò la rapida fine non solo delle azioni di consulenza in sé, ma anche e soprattutto della prospettiva di valorizzazione e arricchimento con respiro nazionale delle risorse umane presenti nelle unità scolastiche.
La progressiva erosione dei fondi e la scelta di considerare piuttosto la scuola come luogo in cui realizzare risparmi operando tagli, con però il vincolo di interagire – soprattutto attraverso la risonanza mediale – con l’opinione pubblica interessata alle sorti dell’istruzione italiana, hanno così indirizzato nell’ultimo periodo le istituzioni dell’istruzione nazionale e locale alla politica dei bandi, istanze concorrenziali che premiano tutti coloro (pochi) che vincono e aumentano le distanze e le difficoltà di tutti coloro (moltissimi) che perdono o nemmeno partecipano, perché i prerequisiti richiesti sono talmente elevati che il digital divide di cui sono già vittime glieli rende inarrivabili.
Coloro che ancora intendono esercitare il proprio diritto al dubbio sistematico e al pensiero critico non possono quindi non apprezzare il fatto che, con un inusitato paradosso, siano stati offerti all’immaginario scolastico quasi contemporaneamente da una parte l’ennesimo annuncio epocale sulle magnifiche sorti e progressive della scuola digitale, dall’altra la realtà dei fatti, analizzata da un’inchiesta di uno dei più grandi quotidiani italiani.