Un aspetto interessante dei gerghi specialistici è la loro tendenza a essere smaccatamente autoreferenziali. Quando gli esperti si trovano a spiegarvi un certo fenomeno, le parole che usano non sono solo le più indicate a descrivervelo analiticamente, ma anche quelle che di solito vi comunicano, spesso senza volerlo, con chi state parlando.
Il caso dei medici è esemplare: «lei soffre di stati piretici dovuti a forme di astenia marcata»; il paziente, se non capisce al volo che la sua febbre è dovuta alla stanchezza, quantomeno ha capito che la cifra che ha speso per la visita specialistica ha una sua giustificazione linguistica. I linguisti, a proposito, parlano di segretezza e autoreferenzialità del gergo; giustificandole in parte col fatto che non sempre la chiarezza giova all’umore di chi non lo conosce.
Ma neppure il gergo dei linguisti fa eccezione. Le grandi grammatiche, specie quelle descrittive, si avvalgono di un lessico che non di rado sfiora il limite dell’astrazione metafisica, salvo esemplificarlo con frasette che non superano le dieci parole. Anche se ci troviamo di fronte a concetti che evidentemente preesistono alla teoria linguistica, come «coordinazione» o «subordinazione», raramente siamo portati ad andare al di là della definizione che ce ne viene fornita, e questo perché in fondo siamo convinti pure noi che il dovere di un gergo specialistico sia proprio quello di spogliare un termine di tutte le sue possibili connotazioni per arrivare al puro e semplice denotatum.
A chi verrebbe mai in mente, leggendo di una «elegante coordinazione», uno dei tanti «Momenti Federer» descritti da D. F. Wallace in cui il tennista svizzero replica a un lungo linea impossibile del suo avversario colpendo la pallina sotto le gambe, dopo aver percorso con scioltezza tutto il campo spalle alla rete? o, restando al nostro amato sport nazionale, il meraviglioso tiro al volo con cui Zinedine Zidane ha regalato la vittoria al Real Madrid nella finale di Champions League del 2002? Eppure si tratta proprio di quello. Non solo certo, ma anche di una elegante coordinazione.
Dislocazioni
Com’è noto, il termine «dislocazione» viene dal verbo «dislocare», che a sua volta è un composto parasintetico del prefisso dis-, che indica separazione, perdita, negazione, e del latino locare «collocare, porre, disporre», detto anzitutto di truppe, sicché la dislocazione, almeno in origine, sarebbe una specie di manovra militare, di strategia finalizzata a offendere o a difendersi meglio dal nemico. In realtà, secondo il DELI e il DEI, il termine assume questo significato relativamente tardi, verso la fine del xix secolo, probabilmente come calco del francese disloquer, mentre il latino medievale dislocare (che riprende il lat. classico delocare) ha piuttosto il significato medico di «dislogare, slogare», o, come dice s.v. il Du Cange (Glossarium mediae et infimae latinitatis): «quod dici solet se ossibus sede sua delapsis».
Queste due connotazioni originarie, e cioè 1) un allontanamento non indiscriminato ma preciso, misurabile, premeditato rispetto al più generico «trasferire, portare altrove», e 2) una sospensione e/o alterazione rispetto al regolare funzionamento di qualcosa concepito come un organismo o parte di esso, si colgono anche in certe ‘dislocazioni’ del parlato. Quando sento la mia fidanzata gridare dalla sua stanza «Metti il gelato in freezer!», posso supporre che stia pensando alla sostanza semisolida che si sta sciogliendo sul tavolo sul quale io l’ho lasciata circa mezz’ora prima; ma se le sento gridare «Il gelato mettilo in freezer!» devo obbligatoriamente dedurre che è a me che sta parlando, e questo perché a un osservatore esterno, in assenza di intonazioni particolari e della presenza nel medesimo contesto pragmatico (mettete il caso di un figlio che sta sempre barricato a leggere la Gazzetta nella sua stanza), «il gelato» in questione sembrerà l’oggetto di una conversazione precedente, una questione tra me e la mia fidanzata insomma; o tutt’al più, ammesso che fino a quel momento non ci siamo rivolti parola, un oggetto che lei assume essere ben presente alla mia mente.
Per un osservatore esterno, certe brillanti deduzioni sono possibili solo in virtù della marcatezza sintattica della frase, cioè del fatto la dislocazione a sinistra del complemento oggetto («il gelato») presuppone sia un preciso contesto linguistico – cioè una o più frasi enunciate precedentemente, senza le quali non è possibile intendere appieno il senso della frase – sia un fine: concentrare la mia attenzione non sul gelato in sé, ma sul fatto che devo metterlo in freezer se non voglio che diventi un frappé. Questo «fine» ci riporta alla connotazione strategica di ogni dislocazione di cui parlavamo più sopra; ma è possibile coglierlo solo perché la dislocazione si presenta come un’alterazione di quello che percepiamo come l’ordine normale delle parole nella frase, che ha sì lo stesso contenuto proposizionale («Metti il gelato in freezer!»), ma un diverso contenuto informativo.
Rispetto al parlato, lo scritto ha qualcosa di meno e qualcosa di più. Sia che voi tendiate a dar fiducia al discorso, sia che crediate, come Barthes e Focault, che la scrittura si avvicini più di quest’ultimo all’essenza della vera espressione, dovrete ammettere che la lingua scritta non possiede lo straordinario armamentario di intonazioni di cui dispone quella parlata; o meglio: ciò di cui dispone è una gamma di espedienti tipografici (punteggiatura, maiuscoli, corsivi ecc.) che restituisce a chi legge l’intonazione di chi scrive, ma deve fare i conti con il fatto che è la stessa gamma di espedienti che ne organizzano anche l’argomentare logico, cioè la sintassi; il che talvolta può creare delle ambiguità nella misura in cui una stessa frase, sintatticamente non marcata, può assumere due o più significati a seconda dell’intonazione che le diamo: sarà solo il contesto linguistico (che nel caso dello scritto produce evidentemente anche quello extralinguistico) a indicarci la soluzione più corretta.
D’altra parte, la lingua scritta ha anche qualcosa di più: l’uso retorico che uno scrittore di talento sa fare di questa ambiguità. E ancor più dello scrittore di prosa, lo scrittore di poesia, perché in nessuna altra arte come nella poesia l’intonazione ha sempre, e simultaneamente, un valore semantico e un valore a-semantico, o detto altrimenti: un valore linguistico e uno musicale.
Un poeta di talento è in grado di sfruttare tale ambiguità facendo semplicemente leva sulla nostra conoscenza (spesso inconsapevole) del sistema tonale: cioè sulle nostre aspettative; non diversamente, poniamo, da come un musicista pop fa leva sulla classica alternanza fra ritornello e strofa. Una storia della poesia del secolo scorso che seguisse il fil rouge di questo rapporto tra musica e parole, terrebbe dentro i più grandi esponenti della nostra letteratura; essendo niente di meno che la storia del loro rapporto con la realtà.
A un capo di questo filo potremmo per esempio collocare il cosiddetto «ermetismo» storico, con la sua ricerca di una poesia «pura» che giunge a scardinare i nessi logici della sintassi tradizionale. All’altro capo (e forse per questo per anni la critica ha teso sovrapporre erroneamente gli estremi) un poeta che più di altri ha preferito distinguere nettamente musica e parole offrendoci un disegno tanto più nitido quanto più fitto, saturo era l’ordito del loro tessuto: Eugenio Montale.
Mi piacerebbe a questo punto proporre una specie di quiz agli amanti di questo “artista della delusione”, come forse potrebbe definirlo Jonathan Lethem. Qual è la poesia di Montale che 1) è costruita intorno a una dislocazione a sinistra; 2) usa la dislocazione per capovolgere la prospettiva di chi legge; 3) fa di questo capovolgimento una sorta di questione non solo di solo metodo ma proprio di sopravvivenza; e 4) è dedicata sua musa preferita, Clizia?
Nel 1961, in occasione della cerimonia per la laurea honoris causa conferitagli dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano, Montale scelse di leggere proprio questa poesia; a dimostrazione del fatto che si trattava non solo di una delle sue preferite (anzi, come tenne a precisare, la sua preferita in assoluto), ma che la considerava un testo-chiave, rappresentativo dell’intera sua opera.
È una poesia di grande virtuosismo, un unico periodo di trenta versi costruito appunto intorno a una dislocazione, la quale per il suo meccanismo a sorpresa consente di rivelare la vera struttura sintattica e quindi logica del discorso solo nel finale; ed essendo questa struttura nient’altro che una domanda, con tanto di punto interrogativo, quello che ci sembrava il lungo, protratto moto calante di un’affermazione in realtà si rivela esattamente il contrario, la tipica intonazione ascendente di una domanda [e badate che un’intonazione simile è possibile proprio in virtù delle pause naturali implicate dalla dislocazione: in nessuno caso il vostro cervello o il vostro fiato vi consentirebbero di tenere un’interrogativa diretta per trenta versi, a meno di non essere Enzo Maiorca] cioè una risalita; e questa risalita meticolosamente preparata nel giro dei ventinove versi precedenti è a sua volta ciò che la forma esprime, tematizza della poesia: la storia di un pesce che risale i fiumi per andare ad accoppiarsi e poi morire, un inno alla «vita sacrificata che resiste», una sorta di «trascendenza a rovescio», una metafora della memoria e infine della poesia stessa. Buona lettura a tutti.
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuarî, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d’Appennino alla Romagna;
l’anguilla, torcia, frusta,
freccia d’amore in terra
che solo i botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l’anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l’arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito;
l’iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?
L’anguilla