Prospettive #1 – Pancake e Cobain

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«I’m going to come back to West Virginia when this is over. There’s something ancient and deeply-rooted in my soul. I like to think that I have left my ghost up one of those hollows, and I’ll never really be able to leave for good until I find it. And I don’t want to look for it, because I might find it and have to leave» (Breece D’J Pancake, in una lettera alla madre).
Kurt Cobain fotografato da Steve Gullick.

È l’8 febbraio 1994. Su due fogli di carta intestata dell’Hotel Villa Magna a Madrid, Kurt Cobain scrive la sua penultima pagina di diario. È una riflessione sul tempo, sull’importanza che il tempo riveste per coloro che diventano dipendenti da sostanze chimiche, da droghe potenti come l’eroina e la cocaina. Cobain porta a esempio il cinema. «Nei film i registi provano a ritrarre scene di vita vissuta. I momenti più interessanti all’interno dell’arco temporale dei personaggi sono poi selezionati entro una certa durata. Il tempo è molto più lungo rispetto a quello che un film può mostrare e che uno spettatore sopporterà. Insomma, noi non ci rendiamo conto del ruolo gigantesco che ha il tempo nel condurci attraverso gli avvenimenti». L’esempio che segue, di un ragazzo che inizia a bucarsi il 1° gennaio e tra stacchi e riprese arriva a Natale senza mai sentirsi un tossicodipendente, dura appena una pagina, ma in un anno di consumo occasionale di eroina, scrive Cobain, quella persona ha passato più giorni fatta che non. Che lo si voglia ammettere o no, conclude il frontman dei Nirvana, l’uso della droga è una fuga. Una fuga dal tempo. Quel tempo che nessuno spettatore sopporterebbe di vedere rappresentato nella sua interezza, perché la visione sarebbe insostenibile. E di lì a due mesi, infatti, non sarà più sostenuta.

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Quando tempo fa un amico mi passò la prima edizione italiana di Trilobiti (Isbn edizioni, trad. Ivan Tassi, poi ripubblicato da Minimum Fax nella traduzione di Cristiana Mennella), l’unica e postuma raccolta di racconti di Breece D’J Pancake, la prima cosa su cui mi cadde l’occhio fu il nome di Cobain, citato immagino per la sua nota affiliazione al Club 27, cui Pancake sarebbe appartenuto di diritto se solo la sua voglia di «divorziare dalla vita», come egli stesso ebbe a definirla in una cartolina spedita a un amico, non si fosse concretizzata due mesi prima del suo ventisettesimo compleanno. Il motivo pareva pretestuoso, ma in fondo non lo era. A lettura ultimata, qualcosa del carattere dei personaggi di Pancake riporta al cantante di Aberdeen e qualcosa del cantante di Aberdeen si insinuava nei personaggi di Pancake. Forse il senso di un’America profonda, pre- o postindustriale. Forse una generica aura di ribellione, che ha spinto qualcuno a parlare, per Pancake, di influssi punk, dimenticando però che la cultura o sottocultura punk doveva esplodere in America non meno di dieci anni più tardi, e cioè proprio con quel grunge di cui Cobain fu non solo l’esponente di spicco, ma anche il più lucido liquidatore. Forse, infine, la comune consapevolezza che il libero arbitrio, cioè la base della libertà di autodeterminazione e dunque del sogno americano, per chi nasce in certi luoghi come Aberdeen o il West Virginia è parola priva di sostanza e di verità, nemmeno un sogno ma piuttosto un’illusione, il cui valore tanto per lo scrittore esordiente quanto per la rockstar appare svuotato in partenza.

Nei dodici racconti che compongono Trilobiti, il dato più macroscopico è questo senso di occasione persa, di ribellione mancata, spesso oggettivata nel paesaggio, come la locomotiva del racconto omonimo che «è soltanto troppo rapida per saltarci su. Chiaro e semplice». O come la giovane prostituta che un paio d’ore prima di tagliarsi le vene tradisce le sue intenzioni in uno sguardo: «E perché saresti venuto da me?» dice lei. «Mi guardavi in modo buffo, come se vedessi che mi stava per succedere qualcosa di terribile» (Una stanza per sempre). Il Colly di Trilobiti, l’Hollis de Il primo giorno d’inverno, l’Ottie de Che ne sarà del legno secco? hanno in comune, almeno per un istante, il rifiuto di credere in un’occasione che li faccia svoltare, il rifiuto di resistere alla povertà e alla miseria che faranno sempre parte del loro orizzonte di vita. Non si tratta di semplice rassegnazione.

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Come Pancake scrive alla madre, c’è qualcosa di antico e di profondamente radicato nella sua anima, qualcosa che lo mette in comunione con queste colline, con il fantasma della tante generazioni che, morte o vive, vi sono seppellite. È un sentimento postumo, che lo distingue nettamente da Hemingway e che rimanda piuttosto a Faulkner, ma un Faulkner votato a un forma di nichilismo inquieto, febbricitante. Pancake porta su di sé il fardello della sua generazione e di quelle che l’hanno preceduta; ma ha paura a sbarazzarsene perché, dice alla madre, cercare le ragioni di questo sentimento potrebbe significare partire per davvero. C’è in questa semplice dichiarazione, non so quanto preterintenzionale, l’ammissione del doppio filo, di attrazione e terrore, che lo tiene legato all’abisso. I racconti migliori di Pancake si nutrono di una sorta di transfert che spesso dà ragione della sua grande abilità nel mantenere alta la tensione pur in assenza di trame raffinate o altri espedienti di genere. Come il Buddy di Cava, che ubriaco e umiliato e alla fine abbandonato dalla sua compagna che torna a battere, torna a sua volta nella sua roulotte e imbraccia il fucile, e quando siamo ormai pronti a immaginarci l’epilogo questo è sì violento e brutale ma tutt’altro che tragico: una notturna scena di caccia in cui, come ogni giorno, morire diventa gesto preciso, atavico, naturalistico. Verrebbe da pensare, leggendo racconti che ammiccano indirettamente al noir come Cacciatori di volpi o il breve e bellissimo Ora e ancora, a certi personaggi di Carver, che sotto un’esistenza mite di miseria, frustrazione, alcolismo, solitudine nascondono, seppur appena dissimulata, una violenza cupa e ferale. Ma nei racconti di Pancake il gusto per la violenza inespressa sembra anch’esso fare parte del quadro, è anch’essa occasione mancata; come se non ci fosse atto di volontà capace di far dimenticare a uno stupratore o a un assassino il mondo da cui proviene, e a cui dopo aver commesso il peggior dei crimini dovrà comunque tornare.

È forse questo il maggior fascino dei racconti di Trilobiti. La loro capacità di restituirci un mondo, lontano dal nostro, che non ha nulla di esotico ma in cui tutto per quanto misero appaia ha un ruolo ben preciso. Dentro questo mondo gli uomini, gli animali, persino le cose sono drammaticamente vive e presenti; si dibattono fin dalle orgini senza quella consapevolezza che gli permetterebbe di guardarsi da fuori per cogliere tutta la loro miseria e il loro attaccamento alla vita. Chi ha il dono di questo sguardo ha il dono di vedere al di là delle generazioni, del tempo, fin su, nelle ere geologiche, nel tempo fatto pietra che ha intrappolato la vita dei trilobiti. Solo chi ha il dono di vedere in questa simultaneità può selezionare i dettagli giusti e sapere che per rendere un mondo vivido come questo un paletto di robinia o una pelle secca di vipera non valgono meno delle parole di un uomo. A vent’anni, Pancake ha questo dono; è in grado di guardare quel tempo e offrircene uno scorcio senza separarlo dal sentimento che dà la visione tutta, s’immagini quanto vertiginosa. Basterebbe, non esagero, la prima pagina di Trilobiti per capire quale talento ha sprecato questo ragazzo. La sua fuga, così come quella cobainiana, non può che essere una fuga dal tempo umano, lo stesso in cui, senza dubbio, continuerà il loro mito.

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Matteo Boero

Fondatore dei Maieutical Labs.

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