Nella commedia plautina, i due protagonisti, tipicamente fratelli, vengono tradotti ancora in fasce agli opposti della scala sociale; messi in condizione di odiarsi (quando non di scannarsi) si ritrovano infine, vuoi con l’aiuto di qualche servo o il tempistico intervento del deus ex machina, di fronte alla semplice verità: “semo fratelli”. Il potere del comico, che collega senza soluzione di continuità Plauto a Johnny stecchino, è mischiare le carte, confondere le identità. Ma l’agnizione non è predominio della sola commedia. Trasversale ai generi, la scintilla della memoria può essere il punto d’abbrivio per il recupero di tutto un passato (la celebre madeleine proustiana), o il punto focale – l’agnizione, appunto – di alcune fra le più folgoranti accensioni liriche del Novecento: vedi le Occasioni di Eugenio Montale. Scoperte le carte, il mistero rimane quello: conoscere è un piacere quando è anche, o soprattutto, ri-conoscere.
L’altra sera, si parva licet, ho avuto un’agnizione tipicamente postmoderna. Stavo guardandomi Il sorpasso dopo più di vent’anni, e trovavo perciò particolarmente ingiustificata la sensazione di avere presente dei particolari, specie nei caratteri dei due personaggi, che la memoria di un non decenne non avrebbe potuto trattenere. I primi erano un po’ grezzi: il Cortona che citofonava al Mariani, la ricerca delle sigarette, la sgommate con la mitica Aurelia B24 in una Roma praticamente deserta. Poi, man mano che le scene si srotolavano come la strada, l’improntitudine e la crescente cafoneria di Bruno, la blanda renitenza di Roberto e soprattutto il suo monologo interiore, reso con una voce fuori campo tutta implicata nel tempo del racconto e perciò esclusa dall’onniscienza della vicenda. Avevo la sensazione di conoscere quella storia senza ricordarmene neppure un’immagine. Ero in grado di prevederne quasi tutte le mosse dei due personaggi: per la solita stereotipia tipica della commedia, si dirà, ma non solo, c’era qualcosa di più. Quando ho visto il Cortona fare le corna all’ennesima macchina di estivanti in gita sull’Aurelia (la strada, questa volta) ho capito. Non era il gesto ma il particolare. I guantini di daino da corridore. Quegli stessi guantini da corridore su cui, per un istante, lo sguardo di Ammaniti si posa per descrivere l’abbigliamento di Aldo Trebbiani, uno dei due protagonisti (il cafone, appunto) di Seratina, il racconto di Gioventù cannibale che lo ha lanciato come uno degli autori più letti ed amati degli anni Novanta.
Ricostruire il resto è stato facile. Aldo citofona e Emanuele in una fredda notte d’inverno proponendogli una «seratina», un «cannino al volo» e poi a letto perché il giorno dopo Emanuele deve andare a un matrimonio a Siena e di lì a breve, proprio come il Roberto del Sorpasso, avrà l’appello per un esame di economia. Emanuele è esitante ma alla fine accetta di farsi accompagnare a comprare le sigarette. Dal momento in cui sale sulla BMW di Aldo, il gioco è fatto. Il racconto si dipana a metà tra un classico road movie e un non meno classico Tutto in una notte dove ne succedono di tutti i colori. Aldo tira fuori una boccia di coca dal cappotto e si fa sempre più sfrenato mentre Emanuele, l’unico di cui conosciamo, come nel Sorpasso, il monologo interiore, prende suo malgrado consapevolezza che l’amico di sempre è «la sintesi di tanti parti orrende, una persona sommamente orrenda». A Risi subentra Stephen King, con una punta di goliardia alla Bret Easton Ellis; il sole, la spiaggia, i costumi dei mitici Sixties lasciano spazio, letteralmente, alla notte degli Nineties, trasformando il rito di iniziazione alla vita di Roberto in una tragicomica (ma almeno questa volta più tragica che comica) scoperta dell’orrido.
Che la ricetta di Ammaniti fosse il gustoso pasticcio di horror e commedia all’italiana si sapeva, ma che il suo amore verso i maestri riconosciuti di quella, Risi e Monicelli innanzitutto, potesse sortire un simile omaggio francamente non me lo aspettavo. Con la storia di Emanuele, tutta risolta in una quarantina di pagine, Ammaniti compie, nella stereotipia ch’è tipica del genere, una vera variazione sul tema. Certo, Aldo è poco più di una macchietta, ma in fondo il suo personaggio, senza le sfumature del corrispettivo risiano (e se si eccettua il finale del Sorpasso che a me pare ancor oggi un po’ troppo spiccio), ne riprende perfettamente la stolidezza, la sostanziale assenza di consapevolezza che porta al tragico epilogo. Ai critici detrattori di Ammaniti, i quali spesso a ragione ne denunciano la banalità linguistica ed emotiva, consiglierei di confrontare il suo ultimo lavoro umoristico, che certo non gli fa onore, con questo breve ma brillante racconto. Non si salva solo l’autore «malinconico e fatato» di Io non ho paura. Certo, pretendere da Ammaniti che nel giro di una frase ci riconsegni alla nostra natura, come, che so, certi vertiginosi e affilati periodi della Munro, sarebbe un po’ come pretendere dal cinema di Risi la potenza della visione di un Kubrick. Con le sue pur non poche cadute di stile Risi non è Kubrick, ma non è neppure Pieraccioni. Se poi Ammaniti avrà meno meriti di lui di entrare nel novero dei grandi della commedia, ammesso poi che gli interessi, dipenderà da quello che scriverà in futuro. L’autore di questa Seratina, in quel novero di fatto c’è già.