Premi, medaglie e altre distinzioni

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Il fatto di meritare, ovvero di essere degno di premio o anche di un castigo, comporta che una persona venga giudicata o valutata in relazione a ciò che ha fatto o alle qualità possedute. Si è sempre meritevoli di qualcosa e per qualcuno, che è chiamato a individuare dei criteri di valutazione, non importa se arbitrari, purché sia possibile stabilire se la persona sia degna o meno di lode, secondo il merito. 

Come spiega puntualmente Piccarda Donati a Dante, nel terzo canto del Paradiso: «Perfetta vita e alto merto inciela / donna più sù», una vita perfetta e un grande merito fanno salire la donna – in questo caso si tratta di Chiara d’Assisi – più alto nel cielo, a significare, in un sistema gerarchicamente ordinato, in una posizione superiore, laddove è stabilito da Dio, giudice supremo.

Tornando sulla terra, non è difficile accorgersi anche qui e oggi dell’importanza attribuita alla possibilità di distribuire premi, in modo da contribuire al mantenimento di un’idea gerarchica di società. Anche per questo, ad esempio, esiste l’Ordine al merito della Repubblica Italiana, istituito nel 1951 per «dare una particolare attestazione a coloro che abbiano speciali benemerenze verso la Nazione» (Legge 178/1951), e per conferire onorificenze come (in ordine di importanza): cavaliere di gran croce, grande ufficiale, commendatore, ufficiale, cavaliere. La distinzione di gran cordone dell’ordine viene inoltre conferita ai cavalieri di gran croce per premiare altissime benemerenze di uomini eminenti, italiani e stranieri (DPR 31 ottobre 1952).
Sul sito del Quirinale – il Presidente della Repubblica è il capo dell’Ordine al merito – si può trovare una banca dati con le onorificenze assegnate in cui risulta presente quasi un milione e mezzo di nominativi, inclusi i riconoscimenti attribuiti ai militari, le varie medaglie al valore e al merito eccetera. Nel 2022, per esempio, sono stati decorati quindici cavalieri di gran croce, mentre l’ultima medaglia ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte è stata attribuita nel 2009 alla Bandiera del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.

Una volta assodato il radicamento del bisogno di conferire premi in base al merito nel nostro Stato repubblicano e democratico, diventa più semplice comprendere come mai un governo abbia di recente avvertito l’esigenza di aggiungere la parola “merito” alla denominazione del suo ministero dell’istruzione (Legge 173/2022, art. 6). Il concetto stesso di merito, infatti, richiama – e costruisce, inventandola – una fondamentale disparità di ruoli tra loro complementari: da una parte i meritevoli e i non meritevoli, dall’altra i giudici, ai quali spetta il potere di comminare premi e punizioni. I premi e le medaglie, in estrema sintesi, hanno la funzione di ricordare ai cittadini l’esistenza di un ordine sociale gerarchico e di un potere simbolico che si manifesta anche attraverso la concessione benevola di premi e riconoscimenti pubblici. Anche chi non è premiato, grazie a questo semplice e antichissimo dispositivo culturale, viene inoltre a conoscenza dei valori che presiedono a questa pratica sociale e che grazie ad essa vengono divulgati e tramandati.

Inutile dire che si tratta di dispositivi rigidamente controllati da persone mediamente anziane, di sesso maschile, che hanno ricevuto un lungo addestramento e che si riconoscono in un quadro di valori piuttosto omogeneo, che sarebbe interessante studiare proprio attraverso l’analisi dei profili delle centinaia di migliaia di persone che hanno ricevuto delle onorificenze.

Ma senza addentrarsi in questioni sociologiche, può essere utile al ragionamento riflettere sul fatto che affinché esista il merito è necessario che i premi da distribuire siano in misura inferiore al numero delle persone più o meno meritevoli. L’onorificenza che riconosce il merito, per essere tale, deve essere esclusiva, ovvero deve assegnare un bene che non è per sua natura disponibile per tutta la popolazione. Il merito, in questo senso, è anche un criterio per distribuire risorse scarse, che non sono sufficienti a soddisfare i bisogni di tutti.

La Costituzione lo dice chiaramente nell’articolo 34, non a caso richiamato esplicitamente nel documento parlamentare che giustifica l’istituzione del MIM (Ministero dell’Istruzione e del Merito):

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

L’istruzione inferiore, quindi, è gratuita, e per essa non c’è bisogno di ricorrere al merito perché le risorse assegnate dallo Stato devono essere destinate a tutte e a tutti. Lo Stato non sembra invece intenzionato a mettere a disposizione di tutti l’istruzione superiore, che è quindi impartita solo a una parte della popolazione: coloro che hanno i mezzi per pagarsela e, tra coloro che non dispongono di risorse, i capaci e i meritevoli, i quali hanno diritto ad accedere a borse di studio, assegni e altre provvidenze la cui attribuzione è stabilita tramite concorso, ovvero da parte di un qualche potere pubblico che deve definire criteri e modalità di valutazione.

Mettere l’accento sul merito accanto all’istruzione, dunque, significa non solo dichiarare la propria incapacità di elargire a tutti lo stesso servizio, ma anche ergersi a giudici e arrogarsi il potere – una volta deciso di non assegnare le risorse necessarie all’erogazione di un servizio pubblico universale – di scegliere i criteri per conferire le risorse rimanenti, sotto forma di premi e riconoscimenti pubblici.

Come già avevano capito i ragazzi della Scuola di Barbiana nel 1967, e ce lo avevano generosamente spiegato nella loro Lettera a una professoressa, una cosa è premiare coloro che desiderano diventare medici o ingegneri e che ci arriveranno attraverso un lungo e costoso percorso di studi, un’altra è garantire a ciascun cittadino il diritto a essere sovrano attraverso l’acquisizione della lingua, «Perché è solo la lingua che fa eguali». Poi, una volta acquisita l’effettiva sovranità, che ciascuno cerchi di arrivare dove può e dove vuole, purché non chieda di avere sempre più potere, a scapito di chi finora ne ha avuto di meno:

Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata: «I capaci e meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere.
Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. Vadano all’università, arraffino diplomi, facciano quattrini, assicurino gli specialisti che occorrono.
Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora.1


Note

1. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Lef, Firenze 1967

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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