Potere centrale, poteri locali: Roma antica (e noi)

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Che cosa racconta il recente volume “L’amministrazione romana. Stato e città in età repubblicana e imperiale” di Simonetta Segenni e Cesare Letta e come può fornire ai nostri attuali legislatori una lezione di metodo, di “scienza politica”.

La nuova legislatura si è aperta con uno di quei dibattiti che sembrano entusiasmare i politici (o almeno alcuni di loro) e che invece la maggior parte dei cittadini accoglie con un certo distacco: quello sulle cosiddette riforme istituzionali. Si tratta di un ambito spinoso, che ha visto in un passato più o meno recente interventi piuttosto “pasticciati” (come la riforma del Titolo V della Costituzione o l’abolizione – o piuttosto la non abolizione? – delle province…); e nondimeno di un terreno minato, che ha contribuito nel dicembre del 2016 alla fine del governo Renzi, scottato dall’infausto esito referendario sulla “riforma Boschi” che prevedeva il superamento del bicameralismo perfetto.

Le premesse di caos e litigi tra partiti non mancano neanche stavolta, perché l’attuale maggioranza parlamentare sembra proporre soluzioni tra loro poco compatibili, e cioè da un lato l’accentuazione del centralismo (con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica come avviene in Francia), dall’altro un maggior livello di autonomia locale e federalismo.

Un recente, ottimo volume

Eppure, nel passato, un esempio di coesistenza tra uno Stato centrale forte (fortissimo, oserei dire) e una diffusa autonomia locale, supportata da strutture amministrative “leggere” c’è stato, ed è incarnato dall’antica Roma, e dalla modalità di governo dei suoi domini, sia in età repubblicana sia in epoca imperiale.

Ce lo ricorda un recentissimo, ottimo, libro pubblicato da due studiosi di grande valore ed esperienza; si tratta di Simonetta Segenni e Cesare Letta e del loro L’amministrazione romana. Stato e città in età repubblicana e imperiale, Carocci, Roma 2023, che si integra perfettamente con un volume che gli stessi autori hanno edito nel 2015 all’amministrazione delle province, per i tipi del medesimo editore.

I cinque capitoli affrontano in una sorta di climax dapprima l’assetto delle magistrature in età repubblicana e imperiale (1), l’amministrazione di Roma Urbs (2) e gli uffici centrali dello Stato (3), per passare quindi alla governance delle città sotto la repubblica (4) e ai tempi dell’impero (5).

L’impostazione manualistica impone una disamina attenta di tutti i minuti ingranaggi della macchina del potere romano, ma nondimeno contiene alcune riflessioni sul senso, talora sulla “filosofia” di questa complessa struttura, alla luce della più recente bibliografia.

Roma, uno Stato forte ed esemplare

Anzitutto, dicevo, Roma era uno Stato forte, che in epoca repubblicana aveva costruito un sistema di magistrature «elettive… annuali… collegiali… specializzate… gerarchizzate… e gratuite» (p. 15), che governavano relazionandosi con il senato e le assemblee popolari (comitia) e con il supporto di solide strutture amministrative e burocratiche. Si trattò di un sistema che neppure il geniale passaggio al principato augusteo smantellò del tutto: Augusto, infatti, si propose fittiziamente proprio come restauratore della repubblica logorata dalle guerre civili.

Tra l’altro Augusto ebbe l’intelligenza di capire che la Roma caput mundi era pur sempre una città-stato che si era allargata, e che l’Urbe doveva avere – per così dire – una funzione magistrale, quasi di esempio per le restanti terre da essa governate. Dunque oltre a riformare gli uffici centrali dello Stato (per lo più quelli fiscali), il princeps si preoccupò non solo di abbellire e monumentalizzare Roma, ma anche di rendere più efficienti i “servizi pubblici” urbani, molti dei quali già ben funzionavano in età repubblicana. Garantire l’approvvigionamento delle risorse alimentari, curare le strade e l’alveo del Tevere, mantenere l’ordine pubblico e preoccuparsi dello spegnimento degli incendi non erano dettagli; era il modo in cui il milione di cittadini che abitava la capitale percepiva – più o meno – di far parte di un corpo civico retto da un potere non troppo distante. Insomma, questo i seri studiosi del libro in esame non lo possono scrivere esplicitamente, ma a me pare che Augusto abbia “fatto digerire” ai cittadini l’essere divenuti sudditi non solo con la pax universalis che aveva instaurato, ma anche con un’idea di Stato efficiente, che si occupasse di loro (anche) con quella dose di paternalismo che portò l’imperatore ad assumere il titolo di Pater Patriae.

Flessibilità e adattabilità dell’amministrazione locale

Ma veniamo al nodo cruciale da cui siamo partiti, cioè quello del rapporto tra il centro e la “periferia” del potere, che in questo caso è rappresentata soprattutto dalle città dell’Italia romana, poiché furono gli abitanti della Penisola che – dall’89 a.C. al 212 d.C. – ebbero il privilegio della cittadinanza romana. Soprattutto, ma non solo, perché anche prima dell’editto di Caracalla ci furono saltuarie estensioni della civitas a comunità ubicate in aree provinciali, elevate così al rango di colonie.
Qui vale la pena di leggere quanto i nostri autori scrivono, e cioè:

L’amministrazione delle città è forse l’ambito in cui più chiaramente e con maggiore coerenza e continuità si coglie un aspetto fondamentale del dominio romano: la tendenza ad accordare ampi spazi di autonomia alle popolazioni assoggettate, riservandosi interventi diretti solo in pochi settori ritenuti essenziali. Questo consenti a Roma di gestire territori sempre più vasti ed eterogenei con strutture che appaiono straordinariamente leggere se confrontate con quelle di tutti gli imperi, antichi e moderni. A volte questa leggerezza è sembrata un elemento di debolezza, come una sorta di inadeguatezza strutturale del sistema, ma in realtà essa è piuttosto uno dei punti di forza del dominio romano, forse la causa principale della sua eccezionale durata, perché imponeva una flessibilità e adattabilità alle diverse situazioni e al loro continuo evolversi, che per lungo tempo neutralizzarono le spinte centrifughe ed evitarono i rischi mortali di strutture amministrative pletoriche e sclerotizzate. Fin dall’età repubblicana la scelta di fondo per una citta-Stato come Roma, trovatasi alla testa di un dominio sempre più vasto, fu di decentrarne il più possibile l’amministrazione, puntando soprattutto sulle strutture di altre città-Stato che, pure nel quadro di un’indiscussa supremazia di Roma, garantissero le funzioni e i servizi fondamentali e costituissero i referenti per magistrati e governatori provinciali romani (p. 113).

Assistiamo così a una progressiva e inarrestabile omologazione delle strutture governative e amministrative locali al “modello” romano di cui si diceva e a una parallela trasformazione di quelle «popolazioni assoggettate» in cives, che diventarono pertanto il nerbo dello Stato romano. E ciò avvenne anche mediante l’emanazione di statuti cittadini (ne abbiamo conservato qualcuno) che, pur rispettando alcune peculiarità e specificità sociali e territoriali, dovevano essere conformi alle superiori leggi di Roma.

Municipi e colonie (le principali “autonomie” civiche) furono così governati da magistrati – eletti dal populus in assemblea – che simulavano le coppie consolari romane (duoviri, quattuorviri), in collaborazione con una sorta di senato (ordo decurionum) composto dai maggiorenti locali; il tutto in un contesto – ripeto – di aemulatio Romae che prevedeva figure minori e coinvolgeva pure la sfera religiosa, anche perché in età imperiale nelle città troviamo flamines addetti al culto imperiale, nonché Augustales che organizzavano cerimonie di lealismo verso la casa regnante. Le amministrazioni locali, inoltre, potevano imporre tasse ai cittadini per garantire servizi che fossero – si parva licet – comparabili a quelli dell’Urbe; le città ubicate in Italia non pagavano però, per antico privilegio, le tasse dovute invece allo Stato dalle comunità provinciali. Ma le questioni fiscali sono complicatissime, e pertanto mi fermo qui.

Una lezione per il presente?

Io non so davvero se il modello di Roma antica possa suggerire qualche soluzione ai riformatori contemporanei che vogliono tenere insieme centralismo e autonomia: bazzico la storia romana da ormai troppi anni per pensare a confuse sovrapposizioni tra passato e presente. Tanto più che parliamo di un passato che conosceva la schiavitù, discriminava le donne, amava le guerre di conquista, aveva un’idea assai parziale di libertà e non conosceva quella “nostra” democrazia che – detto con le parole di Winston Churchill alla Camera dei Comuni nel 1947 – nonostante qualcuno definisca «una pessima forma di governo» resta comunque la migliore «tra tutte quelle altre che si sono sperimentate finora». So però che la consultazione di alcune pagine del volume (ad es. le pp. 109 e 154) ci mostra che il “diavolo” (o l’angelo custode?) stava (anche) nei dettagli, osservando come centro e periferia non si somigliassero solo per le cariche e le istituzioni maggiori, ma anche per tutta una serie di funzionari minori (littori, apparitori, scribi ecc.) quasi specularmente identici; e che la Roma imperiale, così come le amministrazioni provinciali (pp. 110-111), aveva costruito una fitta ragnatela di burocrazia statale (che vedeva impiegati anche schiavi e liberti) che permetteva una buona gestione di archivi pubblici, atti catastali, documenti fiscali ecc.

Insomma, l’impressione è che il segreto della durata delle istituzioni romane lo si trovi sì in quella «flessibilità e adattabilità» cui prima si accennava, ma parimenti nella convinzione che nulla dovesse essere lasciato al caso: io in tutto questo vedo l’esito di un atteggiamento, per così dire, “scientifico” da parte delle autorità politiche, consapevoli che il consenso popolare si guadagnasse non solo con le vittorie militari e l’espansionismo territoriale (cose che grazie al cielo sono estranee all’Italia di oggi) ma anche garantendo una buona (e uniforme) amministrazione cittadina e – come già dicevo – fornendo dei “servizi” abbastanza efficienti.

Pertanto, tornando all’oggi, auspicherei che il dibattito sulle riforme istituzionali non perda di vista almeno una parte della lezione di Roma antica, anche se è ovviamente anacronistico – l’ho appena detto ma è bene ribadirlo – ipotizzare qualunque imitazione moderna delle forme dall’amministrazione romana.

In primo luogo vorrei che si prevedesse un disegno riformatore uniforme, elastico ma non “schizofrenico”, che non ripetesse – come ho già accennato – situazioni come l’assurda semi-abolizione delle province, ridotte a enti che hanno ancora alcune competenze ma sono pressoché privi di personale e di risorse finanziarie. E nondimeno (e qui, passando ad argomento che poco c’entra con le istituzioni romane, parlo da docente e non da storico…) che evitasse forme di “spacchettamento” del sistema scolastico nazionale, nel nome di non chiare forme di autonomia regionale che – temo – da autonomia potrebbero diventare arbitrio.

In secondo luogo, auspicherei che si tenesse conto che il cittadino – della Roma moderna, ma anche di Asti, Monza o Avellino (nomi buttati lì a caso) – vorrebbe che al dibattito nobile e alto sulle modifiche costituzionali si accompagnasse la ricerca di soluzioni concrete a problemi solo in apparenza minori: la riduzione delle liste d’attesa negli ospedali, la sistemazione della rete stradale, una giustizia più efficiente, o – più modestamente – la possibilità di rinnovare il passaporto (di pertinenza statale) o la carta di identità elettronica (di pertinenza comunale) in tempi che non siano quelli attuali, cioè biblici. Sono solo alcune delle situazioni nelle quali abbiamo l’impressione di soggiacere a un’amministrazione tutt’altro che “leggera”, a prescindere – credo – che a capo del Governo ci sia un presidente alla francese, un premier all’inglese o un cancelliere alla tedesca.

Concludendo: anche se ho appena scritto – ma è bene che lo ripeta per non essere accusato di anacronismo o di assurde nostalgie – che non è né possibile né auspicabile che lo Stato romano antico possa fungere da modello a noi moderni, credo che il volume qui menzionato possa comunque fornire ai nostri attuali legislatori una lezione di metodo, di “scienza politica”. Da consultare con la partecipe distanza di un Machiavelli che leggeva i classici spogliandosi «della veste cotidiana, piena di fango e di loto» e mettendo invece «panni reali e curiali», per entrare «rivestito condecentemente… nelle corti delli antiqui homini».

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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