Philodiffusione #13

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Nella tredicesima puntata della nostra rubrica di recen/riflessioni filosofiche, il corpo come opera d’arte e luogo di resistenza: alcune suggestioni bibliografiche.
Henri Matisse, Danza, olio su tela, 260 x 391 cm, 1910 – Gandalf’s Gallery, Public domain, via Wikimedia Commons

Per secoli, se non per millenni, la filosofia occidentale ha trascurato il tema del corpo, considerandolo un ostacolo alla conoscenza, un mero involucro dell’anima o addirittura un simbolo di caducità e impurità. Dal dualismo platonico al razionalismo cartesiano, l’identità e la verità sono state collocate esclusivamente nella mente, relegando la corporeità a rivestire un ruolo affatto marginale. Questa visione svalutativa è stata messa in discussione in modo radicale a partire da Friedrich Nietzsche che, in Così parlò Zarathustra, si scaglia contro i “dispregiatori del corpo” e invita a riconoscere il corpo stesso come fondamento dell’esistenza e del senso di ogni individuo.

Nel corso del Novecento, la riabilitazione del corpo si afferma come uno dei temi centrali della riflessione filosofica, ricomponendo con ciò la precedente frattura dualistica. Maurice Merleau-Ponty, nella sua opera Fenomenologia della percezione (1945, trad. it. Bompiani, Milano 1965), riconosce il corpo come medium fondamentale attraverso cui il soggetto percepisce, conosce e si relaziona al mondo. Merleau-Ponty rompe così con la tradizione cartesiana, sostenendo che la coscienza non è mai separata dal corpo, ma che l’esperienza del mondo si radica sempre in un “corpo vissuto” (le corps propre), il quale è il punto di connessione tra l’interiorità del soggetto e l’esteriorità del mondo.

Successivamente, anche altri filosofi approfondiscono e ampliano questa prospettiva: in Corpus (1992, trad. it. A. Moscati, Cronopio, Napoli 1995), Jean-Luc Nancy riflette su di esso come luogo dell’“essere-condiviso”. Per Nancy, il corpo non è un’entità autonoma e chiusa, bensì un campo di esposizione in cui l’essere si dà sempre in relazione agli altri. Esso diventa così il luogo privilegiato per pensare l’ontologia del “noi”, ovvero la co-esistenza.

Anche Giorgio Agamben affronta la questione, ma nel contesto della biopolitica, introducendo il concetto di nuda vita per indicare la vita umana ridotta alla sua pura dimensione biologica, esposta al potere sovrano che può decidere sulla sua inclusione o esclusione dalla sfera politica. Il corpo diviene con ciò un luogo cruciale di controllo e disciplina, soprattutto nei regimi politici contemporanei (Homo Sacer: Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi 1995).

Peter Sloterdijk, ancora più recentemente, esplora il corpo in chiave antropotecnica. In Du mußt dein Leben ändern (2009, traduzione in italiano di P. Peticari e S. Franchini in Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010), sono considerate diverse pratiche con cui l’essere umano disciplina, modella e trasforma il proprio corpo e la propria esistenza. Secondo il filosofo, queste antropotecniche non sono altro che esercizi volti a coltivare una forma di sé, rivelando la dimensione creativa e progettuale della corporeità.

Il corpo oggi: visibilità e oblio

Qual è il ruolo del corpo nella società contemporanea? Potremmo dire che esso occupa una posizione ambigua: da un lato è al centro dell’attenzione mediatica, dall’altro rischia di essere paradossalmente dimenticato. Il corpo viene infatti costantemente esibito, trasformato in un oggetto di rappresentazione, e sempre più spesso modificato attraverso interventi estetici, diventando un progetto in continuo sviluppo e perfezionamento, quasi fosse un’opera incompiuta da modellare senza sosta. Questa tensione verso il controllo e l’ottimizzazione va di pari passo con una crescente difficoltà ad accettarne il naturale deperimento, limite ineludibile della fragilità e della mortalità che definiscono la nostra condizione umana.

D’altro canto, però, gli sviluppi accelerati della tecnologia digitale rischiano di farci trascurare la nostra dimensione fisica, spostando la nostra esistenza in un piano virtuale apparentemente immateriale. Sempre più spesso interagiamo attraverso schermi, traslando la nostra presenza corporea in avatar e identità digitali.

C’è inoltre un ulteriore fenomeno da tenere in considerazione, cioè quello del corpo come interfaccia tra a dimensione dell’organico e quella del digitale. Dai dispositivi indossabili agli impianti cibernetici, le pratiche transumaniste trattano il corpo come una piattaforma migliorabile, sollevando nuove domande sull’autenticità dell’esperienza corporea.

La body art: corpo come tela, carne come messaggio

Anche il mondo dell’arte ha riflettuto su queste contraddizioni: la body art ne è testimonianza emblematica. Marina Abramović, nel celebre Rhythm 0 (1974), ha esplorato la vulnerabilità del corpo lasciandosi manipolare dal pubblico per sei ore, con oggetti che andavano da una piuma a una pistola carica. Il risultato è stata una performance estrema che ha messo in evidenza quanto fragile sia il corpo quando lo si abbandona alla volontà altrui​. Gina Pane, con Action Sentimentale (1973), ha reso il proprio corpo un luogo di sacrificio, praticandosi tagli sulla pelle per trasformare il dolore in un simbolo estetico e umano​. Chris Burden ha spinto ancora oltre il concetto e la provocazione con Shoot (1971), performance in cui si è fatto sparare volontariamente al braccio da un assistente. Diverso è l’approccio di Stelarc, che con un’opera quale il Third Ear Project (che è consistita, di fatto, nell’impianto di un orecchio artificiale nel braccio dell’artista), ha trasformato il suo corpo in un’interfaccia cibernetica, sfidando i confini dell’identità organica e riflettendo sull’obsolescenza della concezione classica di organismo in un’epoca di inevitabile ibridazione tecnologica​.

La cura oltre la conoscenza di sé

Tutte queste riflessioni (teoriche e pratiche) sul corpo ci invitano a ripensare non solo la nostra percezione di esso, ma anche il modo in cui lo abitiamo. Tra i filosofi del Novecento citati in precedenza non possiamo certo trascurare la menzione di Michel Foucault, che ha posto al centro della sua ricerca la pratica del prendersi cura di sé e l’importanza di un’estetica dell’esistenza. Foucault ha sviluppato queste idee soprattutto nelle sue ricerche degli anni Ottanta, un periodo in cui si è concentrato sulla cura di sé come pratica filosofica. Nelle sue lezioni al Collège de France, raccolte nell’Ermeneutica del soggetto (1981-82, trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2001), Foucault distingue l’epimeleia heautou (cura di sé) dal gnothi seautón (conosci te stesso). Diversamente dal canone occidentale ormai consolidato, che ha privilegiato il secondo imperativo rendendolo vessillo della filosofia in quanto tale, Foucault mette al centro della sua riflessione la cura di sé, intesa come un insieme di tecniche di autoformazione e disciplina interiore. Queste pratiche non mirano esclusivamente alla conoscenza teorica, ma alla trasformazione concreta del soggetto, dando forma a un approccio filosofico che unisce sapere e vita vissuta. In particolare, la pratica dell’askesis non rappresenta per Foucault una rinuncia al mondo, ma una sorta di allenamento, utile per affrontarne al meglio le sfide, come dimostrano anche le tradizioni ciniche, epicuree e stoiche. La riflessione sull’arte di vivere dischiude la strada alla possibilità di modellare la propria esistenza come un’opera d’arte, una tekhné tou biou che rompe con le forme imposte dal conformismo e dalle convenzioni sociali​​.

La somaestetica e il corpo della libertà

Vale la pena concludere la carrellata prendendo infine in considerazione anche l’opera di Richard Shusterman, filosofo statunitense contemporaneo che ha coniato il termine somaestetica per indicare una disciplina che unisce la riflessione estetica alla consapevolezza corporea. Shusterman definisce il soma come “il corpo senziente e intenzionale”, concetto che abbraccia allo stesso tempo le dimensioni rappresentazionale, esperienziale e performativa​​. La somaestetica non si limita all’analisi teorica, bensì comprende pratiche corporee che vanno dalla meditazione al movimento, con l’obiettivo di migliorare la percezione, la presentazione e il benessere quotidiano. Shusterman, debitore alle intuizioni foucaultiane sul corpo come sito di potere e resistenza, sottolinea che la cura di sé non riguarda solo l’aspetto esteriore, ma anche una trasformazione interiore capace di sfidare le norme sociali dominanti​​.

Oltre la specificità delle loro singole riflessioni, la lezione che traiamo da questi autori è chiara: non si tratta solo di “interpretare la vita”, ma di trasformarla in un’opera d’arte vivente. Questo invito si intreccia con le lotte politiche in cui il corpo diventa un simbolo e un luogo di resistenza, un mezzo con cui affermare la propria libertà e dignità. In un mondo sempre più disincarnato, la riscoperta del corpo come spazio di sensibilità, creatività e autonomia è un atto di affermazione potente, che ci ricorda quanto l’estetica, l’etica e la politica siano intrecciate e convergano tutte verso un unico, fondamentale concetto cardine: la libertà, intesa come capacità di reinventare sé stessi attraverso pratiche di resistenza e creatività che non possono prescindere dalla nostra inaggirabile dimensione corporea.

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Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

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