Educazione alla legalità. I minori del penale

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Il direttore del Dipartimento di Giustizia Minorile offre una panoramica sui minori nel penale: qual è lo scenario, chi sono gli attori, quali i mali della società e in cosa consiste il modello riparativo.

penale

D: Di che cosa si occupa il Dipartimento di Giustizia Minorile, e qual è la filosofia che sta alla base del lavoro che vi si svolge?
R: Il Dipartimento, uno dei quattro Dipartimenti del Ministero della Giustizia, assicura l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria minorile, garantendo la certezza della pena, la tutela dei diritti soggettivi, la promozione dei processi evolutivi adolescenziali in atto e perseguendo la finalità del reinserimento sociale e lavorativo dei minori entrati nel circuito penale. Si occupa della tutela dei diritti dei minori e dei giovani-adulti, dai 14 ai 21 anni, sottoposti a misure penali, mediante interventi di tipo preventivo, educativo e di reinserimento sociale. Altra finalità è quella di attivare programmi educativi, di studio e di formazione-lavoro, di tempo libero e di animazione, per assicurare una effettiva integrazione con la comunità esterna. L’istruzione, insieme alla formazione professionale e il lavoro, è uno degli strumenti principali del trattamento sia per il suo valore intrinseco, sia in quanto mezzo di espressione e realizzazione delle singole capacità e potenzialità.

D: Come si declina la punibilità di un quattordicenne? Lei ha affermato che «non si può buttare la chiave» se un giovane sbaglia.
R: Il termine punibilità richiama alla mente il cosiddetto modello retributivo vigente in Italia dal 1934 (anno del Regio Decreto 1404 Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni) al 1956 (anno della Legge 888 Modificazioni al Regio Decreto 1404/34) quando l’intento della società si risolveva in una mera punizione del reo caratterizzata dal controllo, dalla cura e dalla correzione e la responsabilità del minore veniva valutata ai fini di un’equa commisurazione della pena. Si è poi passati al cosiddetto modello rieducativo centrato sulla rieducazione del reo e sull’adeguamento del suo comportamento attraverso l’assistenza, l’osservazione della personalità e interventi mirati a sopperire alle carenze affettive o di socializzazione, “in uso” dal 1956 sino all’emanazione del DPR 448/88 che istituisce il processo penale per i minorenni. Oggi, invece, la Giustizia minorile opera nel campo del cosiddetto modello riparativo e l’intervento non si connota più dal solo punto di vista sanzionatorio-trattamentale, ma è diventato un approccio di riconciliazione con il contesto, un’azione riparativa e di responsabilità, dove una nuova concezione della sanzione penale, pur mantenendo intatti gli aspetti di rinvio alla responsabilità personale, rimanda a una responsabilità condivisa, puntando sulla presa di coscienza dell’autore di reato, sull’attivazione delle risorse del territorio e sulla revisione critica di ciò che si è soliti definire comportamento improprio fino al risanamento dell’equilibrio rottosi tra l’autore del reato e la vittima.
Altra cosa è l’imputabilità, intorno alla quale è costituito il sistema penale minorile italiano: per poter procedere penalmente nei confronti di un minore è necessario che questi sia imputabile, ossia capace di intendere e di volere. Gli artt. 97 e 98 del Codice penale prevedono rispettivamente che «non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni» e che «è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto quattordici anni, ma non ancora diciotto, se aveva la capacità di intendere e di volere». Tale capacità deve essere sempre accertata dal giudice, a differenza dei maggiorenni per i quali invece la capacità di intendere e volere è presunta.
Affermare che se un giovane sbaglia «non si può buttare la chiave» fa riferimento innanzitutto alla differenziazione totale degli interventi del sistema italiano di Giustizia minorile da quella adulta: la filosofia del legislatore fa sì che il ricorso all’istituzione carceraria sia residuale, cioè l’ultimo approdo, se tutti gli altri interventi posti in essere falliscono o se i reati commessi sono di estrema gravità. È il cosiddetto principio della minima offensività, per scongiurare, altresì, il sovraffollamento carcerario, al quale si affiancano una serie di misure e istituti giuridici previsti dal DPR 448/88 quali le prescrizioni (art. 20), la permanenza in casa (art. 21), il collocamento in comunità (art. 22), l’irrilevanza del fatto (art. 27), la messa alla prova (art. 28), le sanzioni sostitutive alla detenzione (art. 30), le misure di sicurezza (art. 36), gli interventi di mediazione penale.

D: Chi sono i ragazzi minori del penale?
R: I ragazzi minori del penale sono oltre 20000, dato che non tiene conto di una devianza minorile sommersa. A questo dato quantitativo occorre affiancare il dato qualitativo dell’utenza penale minorile, un crogiuolo che investe l’universalità del disagio: tossicodipendenti, border-line dediti al policonsumo di sostanze, manovalanza a uso della criminalità organizzata, stranieri privi di riferimenti familiari spesso non accompagnati, soggetti con problematiche psicopatologiche che richiedono interventi specialistici in stretta connessione con la competenza clinica, minori abusanti, baby gang; ultradiciottenni la cui maggior parte è costituita da soggetti in espiazione di pena per reati commessi da minorenni.
Oggi abbiamo nuovi soggetti, nuovi attori: da due anni a questa parte, il trend minorile in aumento è degli italiani che non appartengono a famiglie disgregate e non degli stranieri. Le nuove baby gang sono i figli delle cosiddette famiglie “normali”. L’evento reato non è l’esercizio di un’azione predatoria, ma nasconde l’esigenza di protagonismo di giovani soli, non ascoltati da nessuno, con un bisogno sfrenato di accompagnamento sul piano educativo e affettivo, perché sul piano cognitivo i ragazzi di oggi sono stati già stimolati, sono bravissimi, eccezionali in tutto, anche nel cyber-bullismo. L’importante è essere famosi, essere all’altezza della situazione, avere successo, riconoscimento, protagonismo.
Il problema veramente serio è quello di uno scenario depressivo e inquieto che attraversa la società contemporanea in maniera trasversale, e non riguarda solo gli universi giovanili ma anche gli adulti, affetti da un paternalismo in incremento, dalla voglia di scimmiottare e di essere amici dei propri figli, con la differenza che gli amici si scelgono, mentre i genitori si trovano. Una caduta di valori e di perdita di autorità di riferimento, di chi non riesce a trasmettere il sogno di una costruzione futura: e senza sogno non c’è educazione, senza educazione non ci sono più limiti.

D: Che cos’è l’articolo 28, cioè l’istituto della messa alla prova?
R: È un istituto giuridico di consolidata esperienza ri-educativa, con un trend esponenziale che va dai 788 casi del 1992 ai 3.368 del 2012, in nome del quale il giudice può disporre la sospensione del processo, per un periodo non superiore ai tre anni, quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne in esito alla realizzazione di un progetto di intervento elaborato dai Servizi Minorili della Giustizia. Il progetto deve prevedere le modalità di coinvolgimento del minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente sociale. Gli impegni assunti dal minore, la riparazione delle conseguenze del reato e la conciliazione con la persona offesa comportano l’estinzione del reato in caso di esito positivo del periodo di messa alla prova.

D: Qual è la corresponsabilità della scuola, delle politiche sociali, della famiglia?
R: La riforma del Titolo V della Costituzione e delle recenti normative, non ultima la L. 328/2000, hanno ridisegnato il sistema istituzionale, riconoscendo un nuovo ruolo agli Enti locali e territoriali, incentrato sull’operatività interistituzionale e rispondente a una cultura del dialogo e della collaborazione sinergica. I giovani che entrano nel circuito penale sono certamente degli orfani del territorio: non servono le facili scorciatoie di individuazione di colpevoli, ora la famiglia, ora la scuola, ora il Comune, ora la parrocchia. Serve una diversa sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale, che realizzi una qualità della vita capace di includere tutti nei propri processi di crescita e di benessere. Da qui la governance dei processi di cambiamento, la cooperazione tra servizi, la significatività delle relazioni interpersonali, l’efficacia della comunicazione sociale, il lavoro di squadra nazionale e internazionale, la sussidiarietà e la solidarietà praticate come stile di comportamento individuale e collettivo.

D: In un’intervista Lei ha dichiarato che «la pena deve sempre tendere alla rieducazione, a dare opportunità di riflettere, per capire se si vuole scommettere verso la cittadinanza attiva, o ricadere nell’esclusione sociale, nel silenzio e nella paura»: che cosa è la cittadinanza attiva, come la si coltiva, come la si fa scoprire?
R: Tutti i soggetti hanno una parte di responsabilità. Il compimento di un reato è il fallimento del sistema società ed è per questo che lo Stato si impegna nella rieducazione come sancito dall’art. 27 della Costituzione: «le pene hanno il compito di rieducare». Le istituzioni sono al servizio del cittadino, ma il cittadino deve acquisire questa consapevolezza e imparare a usufruire dei Servizi, delle consulenze, dell’assistenza che le istituzioni offrono. Essere parte attiva per la crescita della società è un diritto che contribuisce a rafforzare la nostra identità, che ci fa sentire inclusi.
Il sistema Giustizia Minorile in Italia, nell’ottica di tutela dei diritti soggettivi, dell’abbattimento delle condotte recidive e dell’effettivo reinserimento del minorenne autore di reato, esercita un’attenzione crescente di contestualizzazione degli interventi sul territorio di riferimento degli utenti, nel delicato percorso di maturazione in cui gli stessi possono esperire una cittadinanza attiva e un’identità socialmente responsabile.

D: Lei parla spesso di nuove povertà culturali e educative. In che cosa consistono, a che cosa conducono?
Da diversi anni, la Giustizia minorile italiana opera sul riconoscimento e la valorizzazione del capitale umano dei giovani, la cui perdita o trascuratezza incide sulla ricchezza di una nazione. Tante sono le difficoltà di lavorare oggi col grande malessere dell’anima e la fragilità emozionale degli universi giovanili, spesso accompagnati da adulti non più portatori di coerenti pratiche educative. Il modello d’intervento della giustizia minorile italiana è centrato non solo sulla responsabilità esclusiva dell’individuo, ma anche sul contesto, sul mondo adulto e sulla società tutta. Difficoltà e inquietudine rappresentano le nuove povertà culturali e educative dei nostri giovani: le politiche di approccio al fenomeno devono essere altre, rispetto a quei casi che rappresentano il malessere, senza ricorrere alle consuete etichette di prevenzione primaria o a politiche centrate sulla cura e sulla classificazione dei problemi. È molto facile essere quelli “con le sbarre e con le mura”, perché è facile rinchiudere i ragazzi, magari buttando anche la chiave, pensando così di aver risolto il problema: teniamo presente che se i ragazzi sono finiti lì dentro è perché qualcosa non ha funzionato prima. I ragazzi nascondono linguaggi di decodificazione, di ricerca disperata di ascolto e di vedersi riconosciuti per quello che sono, e non per come gli altri vorrebbero che tu fossero.

D: Il lavoro del vostro dipartimento vede la sanzione come secondaria rispetto alla costruzione di identità, e il carcere come assolutamente residuale. Quali progetti stanno dando buoni risultati?
R: Contenimento e sviluppo sono le parole chiave della mission istituzionale della Giustizia minorile. Voglio dire che la sanzione è il primo gradino da cui parte l’opera di ricostruzione di un giovane deviante, altrimenti dovremmo parlare di giovani disagiati e di competenze che esulano dalla Giustizia minorile. I progetti cardine su cui si centrano sempre più gli interventi riguardano l’istruzione scolastica, la formazione professionale, il lavoro e l’apprendistato, attraverso un raccordo sinergico con le istituzioni preposte, al fine di prevedere una diversificazione dell’offerta formativa e un collegamento strutturato per garantire il diritto-dovere all’istruzione e la continuità didattica tra area penale esterna ed interna, tra settore minorile e settore adulti, oltre che nell’attuazione delle diverse misure penali. Strategica è la collaborazione con i CPIA, Centri Provinciali Istruzione degli Adulti (ex Eda), destinati anche agli stranieri, nonché a coloro che abbiano compiuto il 16° anno di età, in possesso del titolo di studio conclusivo del 1° ciclo di istruzione e non possano frequentare il corso diurno. L’assetto didattico e organizzativo presenta percorsi di istruzione personalizzati e progettati per unità di apprendimento, riferimento anche per il riconoscimento dei crediti. Importanti, altresì, le opportunità formative e di reintegrazione nel tessuto sociale e produttivo attraverso tirocini di orientamento e professionalizzanti, che prevedono insegnamenti teorici e pratici, work-experience e borse lavoro, per l’acquisizione di competenze riconosciute e spendibili nel mercato del lavoro.
Altra centratura che da anni si sta sperimentando è il trasferimento agli operatori dei Servizi della Giustizia Minorile e dei Servizi territoriali di strumenti e metodologie utili a rendere più efficace il lavoro con le famiglie, anche nell’ottica di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’instaurarsi di una effettiva collaborazione tra famiglie e Servizi durante il periodo della presa in carico del minore da parte del Sistema della Giustizia Minorile. Le famiglie vivono l’ingresso del minore nel Sistema della Giustizia Minorile come forte evento traumatico, con reazioni che vanno dal disorientamento al sentimento di vera e propria espropriazione del proprio ruolo genitoriale (temporaneamente trasferito al Sistema della Giustizia) fino al manifestarsi di forme evidenti di disagio. Tali reazioni generano non di rado atteggiamenti di scarsa disponibilità alla collaborazione con i Servizi della Giustizia.

D: La scuola è «palestra di relazioni con l’altro»: come lavorate con le scuole?
R: La scuola è parte integrante del percorso rieducativo dei minori di area penale che non possono e non devono sottrarsi né all’obbligo scolastico fino ai 16 anni, né all’obbligo formativo fino ai 18 anni. L’attenzione primaria dei Servizi minorili è quella di sostenere e/o recuperare il diritto allo studio dei minori, in ordine ai percorsi scolastici, ai corsi di alfabetizzazione e di lingue da attuare presso i Centri Territoriali Permanenti, con misure non restrittive della libertà personale per l’utenza penale minorile. A ciò si affianca l’offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale, per favorire la fruibilità delle attività formative, con la ri-progettazione dei percorsi in una logica di flessibilità e modularità degli apprendimenti, in relazione ai tempi di permanenza, ai titoli di studio e al recupero delle competenze di base richieste. Sono oggetto di considerazione anche i diversi livelli di preparazione degli adolescenti, la possibile disaffezione verso situazioni formative strutturate e continuative o causata da insuccessi scolastici ripetuti o da storie personali di trasgressione e rifiuto di regole. Per l’area penale esterna si rendono necessari percorsi didattico/formativo modulari, brevi e formalmente certificabili, in continuità con quelli effettuati nell’intra-murario, al fine di non disperdere risorse investite e bagaglio conoscitivo maturati, con incremento della motivazione e del grado di autostima dell’apprendente.

D: Che cos’è un accompagnamento educativo? Come entrano nel percorso due parole che consideriamo essenziali: speranza e costruzione?
R: Gli adolescenti sono le fasce più a rischio nei momenti delle grandi mutazioni storiche o di trasformazione economica. C’è chi sostiene che questi giovani hanno bisogni diversi rispetto al passato. Non è vero. Oggi come nel passato i ragazzi hanno bisogno di amore, di ascolto, di accoglienza e di accompagnamento; ciò che cambia sono le modalità con cui questi bisogni si manifestano. La solitudine è l’aspetto che spicca maggiormente nelle interviste ai giovani: non si tratta di una scelta, credo invece si tratti di una condizione determinata dalla società moderna che, paradossalmente, pur essendo mediatica ed iper-comunicativa, è al contempo de-socializzante. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: incremento di suicidi, bulimia e anoressia, alcool e droga, non ultimi il drammatico fenomeno dei minori abusanti e dei tanti giovani affetti da problematiche psico-patologiche. Il vero problema sta nell’incomunicabilità, nell’assenza di aspettative tra i giovani e nell’assenza di spazi per dare forma compiuta ai sentimenti. I giovani di oggi, così come quelli di una volta, cercano un protagonismo attivo, libero, responsabile. Bisogna creare, possibilmente insieme ai giovani, contesti e occasioni in cui i giovani possano mettersi alla prova, confrontarsi e crescere.

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