La riforma, che entrerà in vigore durante il prossimo anno scolastico e andrà a regime allo scadere del 2022/23, ha lo scopo di rilanciare l’istruzione professionale, attualmente in crisi, come attestano il calo vertiginoso degli iscritti – dal 20,6 % degli iscritti alla scuola secondaria di II grado nel 2013 si è passati all’attuale 14%, – gli elevati tassi di abbandono – 8,7% per gli istituti professionali, a fronte del 4,8% dei tecnici e del 2.1% dei licei (dati Miur 2016-2017) – e i dati INVALSI in Italiano e Matematica, che mostrano una situazione davvero allarmante, con i professionali di tutta Italia ampiamente al di sotto delle medie nazionali della secondaria di secondo grado.
I provvedimenti più significativi, quelli che avranno un impatto anche sugli insegnamenti disciplinari e che potrebbero contribuire a riattivare un dibattito urgente e necessario sui cambiamenti in corso nei sistemi educativi dei paesi sviluppati e, quindi, sul ruolo della scuola e sulla sua efficacia, si possono riassumere in alcuni punti (mentre per avere un quadro d’insieme si può leggere qui):
- il primo biennio (siamo dunque ancora nella scuola dell’obbligo) è un blocco unico, per cui alla fine del primo anno l’alunno non potrà essere respinto e, se non avrà raggiunto le competenze, abilità e conoscenze previste dalle unità di apprendimento, riceverà indicazioni specifiche e supporto per il loro recupero;
- ogni alunno avrà un progetto formativo individuale (PFI) che ciascun consiglio di classe dovrà redigere entro il 31 gennaio del primo anno di frequenza a partira da un bilancio personale e che sarà aggiornato nel corso del quinquennio;
- i percorsi didattici saranno progettati per unità di apprendimento interdisciplinari;
- i quadri orari e i risultati di apprendimento del primo biennio e del triennio sono definiti per ciascun asse culturale, nel quale confluiscono una o più discipline (per esempio, nell’asse linguistico si trovano Italiano e Inglese, senza che venga definito esattamente il peso dell’una o dell’altra, in modo che la scuola possa decidere autonomamente quante ore attribuire, e quali unità di apprendimento, alla prima o alla seconda).
Prima di analizzare un punto per volta, si può notare come sia fortemente accentuato, rispetto al D.P.R. 15 marzo 2010 e alle relative Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento, l’impianto didattico personalizzato e orientato allo sviluppo delle competenze di ciascuno studente, da realizzare anche attraverso gli insegnamenti disciplinari, che però sono messi in secondo piano rispetto all’asse culturale di pertinenza e, soprattutto, alla competenza di riferimento.
«Il modello didattico – si legge al comma 3 dell’articolo 1 – è improntato al principio della personalizzazione educativa volta a consentire ad ogni studentessa e ad ogni studente di rafforzare e innalzare le proprie competenze per l’apprendimento permanente a partire dalle competenze chiave di cittadinanza, nonché di orientare il progetto di vita e di lavoro della studentessa e dello studente, anche per migliori prospettive di occupabilità. Il modello didattico aggrega le discipline negli assi culturali di cui al decreto adottato in attuazione dell’articolo 1,comma 622, della legge 27 dicembre 2006, n. 296; il medesimo modello fa riferimento a metodologie di apprendimento di tipo induttivo ed è organizzato per unità di apprendimento».
In estrema sintesi, i nuovi professionali, frutto di un percorso di revisione che, come è ormai abitudine in questo millennio, è avvenuto al chiuso delle stanze dei decisori e dei loro tecnici di riferimento, ribadiscono e approfondiscono alcuni dei principali nodi concettuali delle riforme scolastiche che almeno dagli anni Novanta sono in fase di attuazione nei continente europeo e americano. Si tratta di argomenti che dovrebbero essere al centro del dibattito pubblico e per questo meritano di essere esplicitati.
1. Il senso della scuola dell’obbligo
Il primo biennio della secondaria di secondo grado, e quindi anche dei professionali, è parte integrante della scuola dell’obbligo, che si conclude a 16 anni con il rilascio di una certificazione delle competenze. La scuola dell’obbligo – ci dice con forza questo decreto – non può bocciare gli alunni, i quali hanno il diritto di ricevere i 10 anni previsti dalla legge e di essere messi in grado di affrontare la vita dopo la scuola, anziché, come avviene di solito nei sistemi educativi tradizionali, per affrontare il prosieguo degli studi.
Si tratta di uno degli argomenti più importanti della scuola contemporanea, come ha ben evidenziato il sociologo ginevrino Philippe Perrenoud nel suo straordinario Quand l’école prétend préparer à la vie… Developper des compétences ou einsegner d’autres savoirs? (ESF editeur, 2017), il quale ci ha messo sotto gli occhi un’evidenza che spesso sfugge al dibattito nostrano, ovvero che nonostante i tentativi di riequilibrare le finalità della scuola a vantaggio di coloro che ne escono per primi, all’incirca, in un paese sviluppato, a 15-16 anni, la scuola contemporanea rimane ancora, come quella della prima metà del Novecento, profondamente classista.
Le classi medie e quelle più elevate, infatti, continuano a pensare – e a reclamare a gran voce – una scuola che prepari i figli ad affrontare gli studi superiori almeno fino all’università e anche oltre, dotandoli di un bagaglio di conoscenze e di competenze finalizzate allo studio. Per queste classi sociali, così come per la gran parte dei docenti, le competenze necessarie ad affrontare la vita quotidiana non sono così fondamentali, almeno non nella fascia d’età della scuola dell’obbligo, perché a meno che non ci siano imprevisti, per i loro figli la scuola non finisce così presto come per i figli delle classi inferiori (si tenga conto che un terzo degli iscritti alla scuola secondaria di secondo grado non finisce gli studi, come evidenzia Vanessa Roghi nel suo articolo La sindrome di Giachetti).
Gli istituti professionali, con questa riforma, divengono il simbolo stesso del fallimento delle politiche del secondo Novecento. Perché è evidente che ogni scuola secondaria di secondo grado – Liceo classico compreso – dovrebbe funzionare così, accogliendo tutti gli alunni e consentendo loro di arrivare alla fine dell’obbligo con le competenze previste dalla norma e non, come invece avviene, con quei saperi che consentiranno ai sopravvissuti, ovvero a coloro che sono stati selezionati, di accedere alla classe terza e, quindi, di andare dritti al diploma e poi, probabilmente, all’università.
2. Competenze vs. conoscenze?
Ma è proprio vero che le competenze tolgono spazio alle conoscenze? E che adottare un approccio didattico centrato sulle competenze costringerebbe – usiamo il condizionale perché in pochissimi ci hanno provato davvero – a rivedere le conoscenze e quindi i contenuti usati per l’insegnamento? In realtà la contrapposizione netta tra competenze e conoscenze è soprattutto una strategia comunicativa adottata dai detrattori delle riforme, che cercano di evitare il cambiamento e di conservare più a lungo possibile le caratteristiche della scuola tradizionale. Sarebbe più saggio, come propone Perrenoud, interrogarsi sul rapporto tra competenze e conoscenze, anziché aggirare il problema applicando formalmente – nelle programmazioni dei docenti e nelle griglie di valutazione approvate dai collegi dei docenti – la dicitura “competenze” ma senza mettere in discussione i contenuti insegnati da decenni e rinunciando in partenza a capire a quali bisogni corrispondano i cambiamenti richiesti e quali benefici potrebbero portare ai veri destinatari dei servizi scolastici.
Bisognerebbe ripartire dalla domanda originaria, che è alla base delle riforme scolastiche più recenti, le quali, per quanto siano state portate avanti senza la partecipazione attiva della società, scritte in fretta e furia e spesso in contraddizione con altre norme che avrebbero dovuto essere abrogate (soprattutto per quel che riguarda la valutazione), si fondano sul presupposto che la scuola di base abbia la funzione di preparare gli alunni alla vita, ovvero di consentire a tutti i quindici-sedicenni di uscire da scuola già pronti ad affrontare le situazioni della vita quotidiana. Può darsi che non siamo d’accordo – specialmente se pensiamo a una scuola che finisce con il diploma o con la laurea – sull’obiettivo, e vogliamo continuare ad avere una società divisa in due, con persone che proseguono gli studi e che diventano – sempre più tardi – autonome e responsabili, e altre persone che interrompono gli studi senza essere pienamente alfabetizzate, incapaci di ritenere i tanti contenuti proposti e di gestire autonomamente una vita onesta in un paese democratico. Può darsi che siamo d’accordo sull’obiettivo, ma che abbiamo idee diverse su come realizzarlo. Qualcuno potrebbe voler dire la sua sulle competenze scelte; qualcun altro potrebbe dire che è meglio cambiare le conoscenze, inserendo nuove discipline (il diritto, la psicologia, la sociologia…). Ancora il dibattito non si è aperto, ma forse siamo sempre in tempo a correggere il tiro.
3. Metodi attivi, laboratori e alternanza scuola lavoro
Molti insegnanti, e anche molti genitori, ancora oggi vedono nei metodi attivi e, in generale, nell’insegnamento personalizzato, un nemico da combattere, responsabile – a dire di alcuni, ma su questo si può leggere con profitto La lettera sovversiva di Vanessa Roghi, già recensito su La ricerca – del declino della scuola italiana. In realtà, come si legge tra le righe di questo decreto sui professionali, ancora siamo lontani dall’aver provato l’efficacia di un insegnamento che prenda sul serio la centralità dell’alunno, della sua cultura, delle sue competenze, conoscenze e attitudini. Altrimenti non ci sarebbe bisogno, nel 2018, di mettere nero su bianco questo invito esplicito a compilare un piano personalizzato – che si risolverà probabilmente, come in gran parte dei corsi serali, che già sono obbligati a farlo, in uno sperpero di carta, – e a ricorrere a tutti quei metodi e strumenti che, già usati con grande profitto nell’ambito della formazione professionale, rimangono così distanti dalle logiche della scuola italiana.
Ancora una volta, i professionali diventeranno, per chi vorrà fare sul serio e applicare l’estrema libertà concessa da questo decreto, il luogo in cui si potrà sperimentare una didattica finalizzata al successo scolastico di tutti gli alunni, che dovranno sì passare attraverso le forche caudine dell’esame di Stato, ma che potranno usufruire di un servizio più sensato. Rimane il problema – e vedremo quali saranno le misure anche finanziarie che i futuri governi vorranno adottare per attuare quest’ennesimo e indispensabile cambiamento – di riuscire davvero a lavorare con questi strumenti e con questi obiettivi. Perché non tutti i docenti delle materie comuni – italiano, inglese, matematica… – lavorano esclusivamente nei professionali, né è detto che condividano questi approcci – compresa l’alternanza scuola lavoro – o che sappiano effettivamente applicarli con efficacia.
4. E la letteratura?
Infine, questa riforma offre più di uno spunto per ragionare sul ruolo delle diverse discipline nella costruzione di un curricolo orientato allo sviluppo delle competenze.
Intanto, è un dato di fatto che aumenta la distanza – almeno sulla carta – tra insegnamento dell’italiano e insegnamento della storia. Il primo, infatti, pertiene all’asse dei linguaggi, come l’insegnamento dell’inglese, mentre il secondo è associato all’asse storico-sociale, insieme a geografia, diritto e economia. Ciò significa che, anche da un punto di vista meramente sindacale, il numero di ore di italiano va negoziato (o spartito) con gli insegnanti di inglese, mentre le ore di storie sono da dividere (e quindi da organizzare) con i colleghi di geografia, di diritto e di economia. Può anche darsi, come si sta verificando in alcune scuole, che si scelga di non ricorrere al contributo di tutte le discipline di un determinato asse (purché a livello provinciale e regionale non ci siano sovrannumerari…). Soprattutto, significa che i docenti di italiano dovrebbero collaborare e programmare le loro unità di apprendimento con quelli di inglese – come già dovrebbe accadere nella scuola del primo ciclo, dove si dovrebbe formare uno studente che non solo conosce l’italiano e l’inglese ma che è consapevole del plurilinguismo – e che quelli di storia dovrebbero collaborare con quelli di geografia, eccetera.
Le unità di apprendimento dovranno ricoprire – senza sovrapposizioni – tutte le competenze, le abilità e le conoscenze previste dal Pecup, il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente.
L’insegnante di italiano sarà alle prese con le seguenti competenze, che cambiano rispetto a quelle attuali.
- Utilizzare il patrimonio lessicale ed espressivo della lingua italiana secondo le esigenze comunicative nei vari contesti: sociali, culturali, scientifici, economici, tecnologici e professionali.
- Stabilire collegamenti tra le tradizioni culturali locali, nazionali ed internazionali, sia in una prospettiva interculturale sia ai fini della mobilità di studio e di lavoro.
- Utilizzare i linguaggi settoriali delle lingue straniere previste dai percorsi di studio per interagire in diversi ambiti e contesti di studio e di lavoro.
- Riconoscere il valore e le potenzialità dei beni artistici e ambientali.
- Individuare ed utilizzare le moderne forme di comunicazione visiva e multimediale, anche con riferimento alle strategie espressive e agli strumenti tecnici della comunicazione in rete.
Se andiamo poi a leggere la lista delle abilità e delle conoscenze ci accorgiamo che è sparito ogni riferimento alla periodizzazione storica (mentre oggi sappiamo che in terza e quarta dobbiamo arrivare fino all’unità d’Italia), e, quindi, alla letteratura italiana. Anzi, è la stessa “letteratura” che, come parola, non compare mai in queste tabelle, e che si deve leggere tra le righe, a partire dalla domanda: “che cosa devo e posso fare, io docente di italiano, con la letteratura, affinché gli alunni acquisiscano e poi mobilitino quelle conoscenze e abilità previste dalla norma?”.
Significa, anche, conoscendo le dinamiche della scuola, che quando arriveremo all’applicazione della riforma alle classi terze potremo decidere, noi insegnanti, di continuare a fare come abbiamo sempre fatto, cominciando da Dante e Petrarca per finire a Ungaretti e Montale, oppure, finalmente, potremo sperimentare – non sappiamo con quali risorse – modalità di insegnamento completamente libere dai canoni di autori, dallo storicismo e, addirittura, dall’egemonia del letterario, che qui scompare per lasciare spazio agli altri media.
Vale la pena discuterne.