Perché i cinesi non sanno giocare a calcio?

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Gli atleti cinesi sono eccellenti negli sport individuali, in particolare quelli che richiedono la perfezione di un gesto, ma sono molto deboli in tutti gli sport di squadra. Le cause stanno nelle particolarità del sistema educativo e in tratti culturali più profondi e non facilmente modificabili.
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Allenamento ai tiri di testa in una scuola calcio cinese.

Nel 2015 la Cina ha lanciato un piano di riforma nazionale del calcio con l’obiettivo di qualificarsi ai mondiali e di vincerli entro il 2050. La più popolosa nazione del mondo, infatti, è una super potenza negli sport ed ha ottenuto numerosi successi alle Olimpiadi, ma non per quanto riguarda il calcio: la nazionale maschile ha partecipato a una sola edizione della Coppa del Mondo, nel 2002, perdendo tutte e tre le partite del girone. Risulta evidente che la Cina è una nazione eccellente negli sport individuali, mentre ha delle grandi carenze in quelli di squadra; una contraddizione per una nazione che, definendosi comunista, dovrebbe fare delle collettività il cardine della società.

Nelle Olimpiadi estive, la Cina ha vinto, in tutta la sua storia agonistica, 69 medaglie nei tuffi, 54 nel sollevamento pesi, 73 nella ginnastica, 53 nel tennistavolo, 56 nel tiro, 41 nel badminton, 43 nel nuoto, 27 nell’atletica e 22 nel judo. Queste medaglie, arrivate tutte da sport individuali, rappresentano l’80% del totale. Le uniche vittorie in sport collettivi conquistate dalla Cina riguardano il volleyball (3 ori, 1 argento e due bronzi), il canottaggio (1 oro, 4 argenti e 4 bronzi), il nuoto sincronizzato (3 argenti e 2 bronzi). Altri risultati minori: un argento e un bronzo nel basket e nel beach volley; un argento nell’hockey su prato e nel soft ball, infine un bronzo nella pallamano. E soprattutto va poi considerato il fatto che la stragrande maggioranza delle medaglie negli sport di gruppo sono state conquistate da squadre femminili.

Tornando al calcio, la nazionale maschile non ha mai vinto una Coppa d’Asia, mentre le ragazze, chiamate anche Steel Roses, sono salite per ben otto volte sul trono d’Asia e hanno disputato, pur perdendo, le finali della Olimpiade di Atlanta e della Coppa del Mondo, sempre negli Stati Uniti, nel 1999.

Per capire come mai la Cina sia tanto forte negli sport individuali e altrettanto debole in quelli di gruppo (eccezion fatta per le squadre femminili) dobbiamo analizzare la cultura del popolo cinese e il suo sistema scolastico.

L’educazione fisica nelle scuole cinesi

I cinesi progettano di costruire entro il 2025 ben 50.000 “scuole calcio”. Ma cos’è per i cinesi una scuola calcio? I giovani italiani si allenano nel pomeriggio in strutture esterne al loro istituto scolastico, gestite da club calcistici cui sono iscritti. In Cina l’intera attività si svolge invece all’interno delle scuole nella stragrande maggioranza dei casi, per cui quello cinese è un sistema più simile al modello americano. in Cina, dunque, con “scuola calcio’ si intende un istituto che rispetta certi parametri infrastrutturali ed è dotato di tecnici qualificati a insegnare questo sport.

La grande differenza fra le scuole italiane e quelle cinesi riguarda gli orari. Sin dalle elementari i bambini cinesi iniziano le attività giornaliere alle 7:30, nella pre scuola, durante la quale spesso svolgono semplici esercizi fisici, praticano il risveglio muscolare o più semplicemente fanno una corsa nel cortile. Le lezioni sui banchi partono alle 08:30 e durano fino alle 12:30; dopo due ore di pausa pranzo, seguono altre due ore di lezione. Ma le attività non finiscono alle 16:30, perché a quest’ora inizia la post scuola, durante la quale i bambini svolgono i compiti e praticano attività extracurriculari di vario genere oppure sport di squadra.

Nelle scuole primarie si svolgono ogni settimana tre lezioni di educazione fisica della durata di 50 minuti. Il tempo non manca, quindi; il problema sta nelle dimensioni delle classi, che negli istituti pubblici possono arrivare a 50-60 alunni. In tale contesto, l’insegnante di educazione fisica può dare indicazioni generali, ma sicuramente non può seguire nel dettaglio i singoli studenti. Inoltre, gli stessi insegnanti spesso non possiedono le conoscenze necessarie per poter insegnare calcio, dato che questo sport non ha mai fatto parte della cultura popolare cinese. Proprio per questo, uno dei punti cardine della riforma in atto sta nella formazione degli gli insegnati di educazione fisica affinché si impadroniscano degli strumenti della didattica calcistica.

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Una lezione di calcio in una scuola cinese, Wikimedia commons.

Dal gesto linguistico a quello atletico

La maggiore differenza fra i sistemi culturali occidentali e orientali risiede nella lingua, scritta e parlata. Noi utilizziamo un alfabeto e costruiamo le parole con le lettere, mentre in Cina e nei Paesi dell’Est asiatico si fa uso di radicali, che combinati fra loro in vario modo danno vita a migliaia di caratteri. La lingua cinese, inoltre, fa perno sui toni, per cui un carattere assume un significato completamente diverso a seconda del tono con cui è pronunciato. Ad esempio, il suono ‘Mai’ può alternativamente significare “acquistare” oppure il concetto contrario: “vendere”. Nel primo caso l’accento sulla ‘a’ va prima a scendere e poi a risalire, mentre nel secondo l’accento scende solamente e il suono è maggiormente netto.

La lingua però non è solo un modo per scrivere o esprimere concetti; è strettamente connessa ai comportamenti sociali e al complesso della cultura in cui è in uso. Come sintetizzava il filosofo francese Emil Cioran «Non abitiamo in una nazione, abitiamo in una lingua, per cui solo la lingua che parliamo è la nostra madrepatria».

È quindi a partire dalla lingua che si sviluppano le caratteristiche culturali e cognitive di un individuo. Come sottolinea il sociologo Nicolas Carr nel saggio Internet ci rende stupidi, l’apprendimento di una lingua alfabetica oppure di una lingua ideogrammatica, basata cioè sui caratteri come quella cinese, sviluppa differenti capacità cognitive e di apprendimento. Nel nostro alfabeto abbiamo solo 21 simboli, nella lingua cinese i caratteri sono migliaia e quindi per forza devono essere appresi per via mnemonica, ripetendo cioè tantissime volte le stesse configurazioni segniche in modo che ognuna risulti ben delineata, differente dalle altre ed eseguita in modo perfetto. Questo apprendimento di tipo induttivo ha un impatto consistente anche in campo sportivo. Un conto, infatti, è ripetere un gesto molteplici volte in modo da renderlo perfetto; un tuffo ad esempio, non per caso uno sport in cui i cinesi sono fortissimi. Altro discorso invece è contestualizzare un gesto tecnico all’interno di una partita, come richiede il gioco del calcio.

L’intelligenza emotiva

Un altro concetto importante per avvicinarci al nostro problema è quello di intelligenza emotiva: la capacità di distinguere e controllare i sentimenti e le emozioni, proprie e altrui, utilizzando queste informazioni per guidare i propri comportamenti. Gli psicologi che studiano questa forma di intelligenza individuano tre parametri basilari, misurabili attraverso un test specifico, il Wong’s Emotional Intelligence Scale (WEIS): l’attitudine a valutare ed esprimere le emozioni; la capacità di regolarle e tenerle sotto controllo; l’abilità nell’usarle nell’interazione sociale. 

Ebbene, una documentata ricerca scientifica, Emotional Intelligence and Leadership Styles in China, dimostra come i cinesi possiedano parametri più bassi di intelligenza emotiva rispetto ai coetanei occidentali. E questa differenza ha un’importante correlazione con la capacità di praticare giochi di squadra come il calcio, in cui altri studi recenti hanno dimostrato l’importanza della intelligenza emotiva. 

È questa una forma cognitiva più delle altre influenzata dalla società in cui si vive, dalla storia, dalla cultura e dalle tradizioni. Sebbene le emozioni di base siano universali, il modo per esprimerle varia moltissimo in culture differenti. La gioia viene percepita con lo stesso sistema psicofisiologico da ogni essere vivente, ma sin da piccolo ognuno apprende dall’ambiente educativo come gestirne le manifestazioni.

Ecco perché i cinesi, pur eccellenti in molte discipline, sono deboli in quelle che richiedono competenze intra e interpersonali, come il calcio e in genere tutti gli sport di squadra. Crescono in vivai dove l’intelligenza emotiva si perde nel quadro di un’educazione restrittiva sostenuta da frequenti punizioni corporali. E il valore che ispira gli educatori è la competizione individualistica nel raggiungere la perfezione nel compiere uno specifico gesto atletico. Alla fine giocano, senza comporre una vera squadra; corrono per fare goal, rincorrono un obiettivo, ma non riescono a interagire.

La necessità di un lungo mutamento culturale

È ancora troppo presto per pretendere risultati positivi dalla nazionale cinese, anche quella giovanile. Anche se allenata da Marcello Lippi, la squadra cinese non è riuscita a qualificarsi ai mondiali in Russia, mentre la nazionale giovanile non è andata oltre la fase dei gironi iniziali nella Coppa d’Asia, pur giocando in casa. Negli ultimi anni tanti giocatori stranieri sono emigrati nella Chinese Super League (la Serie A cinese) e alcuni giovani talenti cinesi si profilano all’orizzonte, anche se fin’ora nessuno è riuscito a diventare un idolo nazionale. Inoltre, a differenza della Corea del Sud e del Giappone, la Cina non vanta giocatori di qualità nei campionati europei. Lo scorso anno, Xu Jiayin, il presidente del Guangzhou Evergrande, ha dovuto ammettere che nell’operazione di scoutingin tutta la Cina non è stato individuato alcun ragazzo potenzialmente in grado di giocare come Messi. Nascerà mai in Cina un tale talento? E se nascesse, riuscirebbe a esprimere questo talento in un ambiente formativo e culturale non propriamente adatto al calcio? Per come stanno ora le cose, ci vorrà almeno un decennio per vedere i primi miglioramenti.

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Nicholas Gineprini

Autore del libro “Il sogno cinese. Storia ed economia del calcio in Cina”, Urbone Publishing, Praga 2016, e gestisce il sito blogcalciocina.altervista.org. Collabora con alcuni siti e riviste fra cui «l’Ultimo Uomo». Ha lavorato come consulente per associazioni di cooperazione bilaterali Italia-Cina.

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