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Per una scuola concreta

Tempo di lettura stimato: 13 minuti
Alla base di una comunità scolastica sana, fatta di relazioni autentiche, in cui si sperimenta il cambiamento, ci devono essere riconoscimento e comprensione reciproci. Dall’ultimo numero de La ricerca, “Leggere, scrivere e far di conto”.
immagine di murales
Un murales cittadino.

Secondo una recente indagine di Eurostat sulle persone di età compresa tra i 25 e i 65 anni che nell’area europea hanno completato un percorso di istruzione (università o alta formazione professionale), l’Italia si distacca nettamente dai restanti Paesi europei per il basso numero di laureati; le regioni meridionali, la Sardegna e alcune regioni del Nord (Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto, Friuli Venezia Giulia e provincia di Bolzano) hanno una situazione paragonabile solo a quella della maggior parte delle regioni della Romania e della Turchia. La regione con il più alto tasso di laureati (28.4), il Lazio, ha una situazione comunque peggiore delle peggiori regioni della Francia (Picardie, Champagne-Ardenne e Lorraine) e della Spagna (Castilla-La Mancha, Murcia)1.

Siamo un Paese che studia poco. Frequentiamo la scuola per un tratto, poi lasciamo perdere. La laurea non ci interessa. Eppure la nostra Costituzione afferma solennemente, all’articolo 34, che «La scuola è aperta a tutti». Che dire di un posto aperto a tutti e tuttavia poco frequentato? Si può ipotizzare che sia un posto poco piacevole o, nonostante tutto, poco accogliente.

Due binari

La storia dell’istruzione e dell’educazione in Italia e in Europa procede su due binari. Per dir meglio, uno è un binario e l’altro, parallelo, è un viottolo, una stradina di campagna che procede tortuosa, a tratti scomparendo nell’erba. Il binario è quello della formazione dell’élite, che dalla Ratio studiorum dei Gesuiti ha assunto la forma che conosciamo: i banchi, le interrogazioni, i compiti, i voti, la competizione. Con il tempo l’istituzione perderà parte della sua violenza più vistosa – le punizioni corporali, affidate a personale diverso dagli insegnanti – ma anche alcuni aspetti più creativi, come le dispute e il teatro, e si assesterà sul suo aspetto attuale: un luogo caratterizzato da modalità relazionali inautentiche, da una disciplina pervasiva, da un accanimento docimologico e da un clima fortemente competitivo. Il Liceo Classico – invero più gesuitico che classico – raccoglie con convinzione e orgoglio questa eredità. Il viottolo è quello dell’educazione popolare, affidata per lo più alla buona volontà o allo slancio ideale di singoli educatori – da Manjòn a Tolstoj e don Lorenzo Milani – la cui esperienza in qualche caso si è istituzionalizzata.

Le differenze tra educazione dell’élite e educazione popolare sono profonde e non sono limitate solo ai contenuti e ai fini. La più vistosa e significativa è quella riguardante la relazione educativa. Nella scuola dell’élite la relazione ha tutti i caratteri di un rapporto gerarchico e burocratico, quale esiste tra un superiore e un subordinato in contesti istituzionali come la caserma o la fabbrica. Gli eventuali conflitti sono risolti attraverso la scrittura: l’insegnante annoterà sul registro il comportamento deviante rispetto alle richieste del regolamento. Non così in un contesto di educazione popolare.

Lo sguardo

Il sistema-Italia – o, addirittura, l’azienda-Italia – non è competitivo, o non è abbastanza competitivo. Occorre una scuola che tenga conto delle esigenze del mondo del lavoro, se non vogliamo restare indietro. Oppure: la nostra democrazia appare in pericolo. Bisogna che la scuola formi persone dotate delle qualità necessarie per una cittadinanza democratica, se vogliamo che la democrazia nel nostro Paese abbia un futuro.

Sono due punti di vista frequenti. Il primo è proprio degli economisti, che sempre più spesso si arrogano l’ultima parola sulla scuola (non senza ostentare qualche disprezzo verso la pedagogia) e sovente anche dei sociologi; il secondo è di coloro che rivendicano una visione critica della scuola, dell’educazione e della società. Ma sono due punti di vista che hanno una cosa in comune: c’è un valore supremo – la competitività, il benessere, la democrazia – alla luce del quale occorre stabilire come sarà la scuola e cosa farà del tempo delle persone che le sono affidate.

Proviamo a orientare diversamente lo sguardo. Siamo al penultimo banco. C’è qui una persona di quattordici anni. Sono le nove del mattino. È ancora assonnata e ha fame; per prendere il bus in tempo ha saltato la colazione. È anche nervosa e depressa, perché dopo un litigio la persona che ama non si è più fatta sentire. È inoltre preoccupata per le condizioni di salute di sua madre, che ha scoperto di avere una malattia grave. È seduta e dovrà restare seduta per tutta la mattinata, fatta eccezione per la ricreazione e per una o due uscite in bagno. Come tutti, ha dei bisogni. Difficile sapere se davvero è possibile ordinarli gerarchicamente, come ha fatto Abraham Maslow. Certo alcuni bisogni sono universali. Mangiare, bere, sentirsi amati. Sentirsi riconosciuti. Fare esperienze significative, che ci facciano crescere.

Quanti di questi bisogni vengono soddisfatti, durante quelle ore passate in un’aula? Se assumiamo questo sguardo, questa diventa la domanda fondamentale. Non come possiamo usare il tempo di quella persona per favorire la competitività dell’economia nazionale o per salvare la democrazia, ma come possiamo fare in modo che quelle ore siano significative per lei. Se non lo sono, la scuola non ha senso. È per questo che occorre assumere quello sguardo, e non un altro. Perché se quello che si fa in aula non ha senso per la persona seduta dietro a un banco, allora sicuramente non servirà nemmeno allo sviluppo economico o a salvare la nostra democrazia.

La fuga

Consideriamo ora uno studente proveniente da una famiglia caratterizzata da quello che il linguaggio scolastico chiama svantaggio socio-culturale. Alla stanchezza, al nervosismo, alla preoccupazione bisognerà aggiungere un certo senso di estraneità, perfino di alienazione. Che comincia dal linguaggio. Può essere che a scuola si parli una lingua che non è la sua. Non solo: gli si impone di parlare quella lingua, e non la sua. Non succede solo con lo studente straniero. Alla mia prima supplenza – Italiano in una scuola media di Foggia – mi sono trovato di fronte non pochi studenti che parlavano solo il dialetto foggiano, nella sua versione più stretta (perché il dialetto cambia in base ai quartieri). E v’è poi tutta una costellazione di valori, che per la scuola valori non sono. L’importanza, ad esempio, del lavoro manuale, delle competenze pratiche, della tecnica quotidiana. E l’assoluta indifferenza alla visione scolastica dello status sociale.

Non è difficile prevedere cosa succederà alla nostra studentessa. Sarà esattamente quello che accade ogni volta che siamo in un luogo in cui non viene soddisfatto uno dei nostri bisogni più radicati: il bisogno di riconoscimento. Il bisogno di sentire che l’altro ci rispetta per quello che siamo, dà valore alla nostra identità, ci considera interlocutori degni. La scuola invece disconferma sistematicamente chiunque sia portatore di una visione culturale diversa dalla sua. Il risultato è la fuga.

Sono cose che sappiamo almeno dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso. Les héritiers di Pierre Bourdier e di Jean-Claude Passeron è del 19642; mostrava già, con molte statistiche e con analisi di grande raffinatezza, il legame tra successo universitario e continuità tra il mondo culturale e gli stili di vita della famiglia degli studenti e quelli del mondo universitario. Ed è anche uno dei temi centrali della Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, uscita tre anni dopo.

La scuola non riesce a convincere della propria importanza – e della importanza della cultura che veicola – coloro che provengono da famiglie in cui tale importanza non è già riconosciuta. Si tende a legare questo scarso appeal alla sistemazione lavorativa. Perché mai laurearsi in un Paese in cui abbiamo sotto gli occhi gli esempi di laureati precari (e spesso sono gli stessi insegnanti)? Ma ritenere che sia questa la ragione per cui si abbandonano precocemente gli studi significa considerare gli studenti, per citare appunto la Lettera a una professoressa, già «arrivisti a 12 anni»3. O a sedici, o a diciotto. E vuol dire che negli anni in cui ha avuto la possibilità di accogliere prima il bambino e poi l’adolescente, la scuola non è riuscita a trasmettere i valori in cui crede: lo studio, la cultura, l’arte, la scienza come valori in sé. Perché ha fallito?

La scuola deve educare?

La scuola deve istruire. Su questo siamo tutti d’accordo, anche se i punti di vista su come debba istruire sono diversi. Ma deve anche educare? E qui sembra che vi siano differenze inconciliabili. Per molti c’è una sorta di divisione del lavoro, per cui alla famiglia spetta l’educazione e alla scuola l’istruzione. Altri, che pure riconoscerebbero il compito educativo della scuola, temono la deriva moralistica, se non autoritaria di un simile compito. È una questione presente nel dibattito pedagogico almeno dai tempi di Condorcet e che non può essere risolta se non chiarendo bene i termini.

Escludiamo, naturalmente, che educare voglia dire limitarsi a trasmettere il rispetto delle norme sociali, quel compito che secondo molti docenti spetta alla famiglia (e che, per loro, la famiglia svolge male) e consideriamo l’educazione come trasmissione di modelli e valori. Difficile negare, da un punto di vista critico, che si tratti, per dirla con Tolstoj4, di una forma di dispotismo morale. E che sia anche pericolosa, quando a decidere quali sono questi valori-guida sono forze politiche la cui visione democratica è dubbia.

Proviamo ad assumere ancora lo sguardo della nostra studentessa al penultimo banco. Come tutti, fa molte esperienze. Alcune per così dire neutre, altre positive, altre negative. Alcune esperienze la rendono peggiore, altre migliore. Possiamo considerare educative queste ultime e dare dell’educazione questa definizione: ciò che ci fa diventare migliori. Non abbiamo fatto granché, se non spieghiamo cosa vuol dire diventare migliori. Se assumiamo lo sguardo dell’altro, potremo dire che la nostra studentessa è diventata migliore perché ha acquisito, ad esempio, il senso del rispetto dell’altro o ha cominciato a seguire le regole. O a studiare. Ma è ancora uno sguardo moralistico. L’unica che può rispondere è la studentessa stessa. Così come può rispondere ognuno di noi. Sappiamo che nella nostra vita ci sono stati dei momenti particolarmente importanti in cui siamo cambiati. Spesso è avvenuto fuori dalla scuola, in situazioni che difficilmente considereremmo legate all’educazione.

Cosa caratterizza una situazione educativa? Cosa accade, quando cambiamo in modo così significativo? «Ho constatato che ha un grande valore il momento in cui posso permettermi di capire un’altra persona», scrive Carl Rogers in La terapia centrata-sul-cliente5. Credo che ognuno possa verificare da sé la verità di quest’affermazione. Ma non è meno vera quest’altra affermazione: «Ha un grande valore il momento in cui mi accorgo di essere capito da un’altra persona». L’esperienza di essere capiti ci fa diventare membri di una comunità: possiamo capĕre, essere contenuti. E se la comunità è quella scolastica, l’esperienza di essere capiti ci consente di far parte effettivamente della scuola. Di farne un luogo nostro.

Capire

L’esperienza di capire ed essere capiti richiede una certa ricchezza e libertà relazionale, che a scuola è difficile. I ruoli sono asimmetrici, la comunicazione unidirezionale – il trasmettere, diceva Danilo Dolci, prevale sul comunicare e lo soffoca6 – e i ruoli prevalgono sulla personalità. Nella sua freddezza istituzionale, la scuola è il non-luogo in cui l’insegnante astratto e gli studenti astratti si confrontano con un sapere ugualmente astratto. Acquista senso, la scuola, man mano che si fa concreta. L’insegnante ha ora una storia, è questa-persona-qui con le sue passioni, i suoi dubbi, i suoi limiti, e così gli studenti. Abbiamo ora esseri umani che si confrontano e si riconoscono a vicenda. Dietro questi esseri umani esistono dei mondi culturali e sociali, alcuni dei quali sono stati analizzati da Luc Boltanski e Laurent Thévenot in De la justification7. C’è il mondo domestico, quello civico, quello mercantile, quello industriale, quello dell’opinione. Ne esistono molti altri. Ogni persona presente in un’aula scolastica porta in sé pezzi di questi mondi. E non può star bene, in quell’aula – non può essere capita – se quel suo mondo è disprezzato.

Una scuola efficace è il luogo profondamente significativo in cui più persone, attraverso relazioni umane autentiche, si confrontano a partire dai rispettivi mondi sociali e culturali di appartenenza, e proprio grazie a questo reciproco riconoscimento sperimentano la possibilità del cambiamento.

La riforma di cui la scuola italiana ha bisogno è, insomma, relazionale. Bisogna, semplicemente, trasformare la scuola in un luogo. Perché, bisogna ripeterlo, un ambiente in cui non si confrontano esseri umani reali, ma soltanto ruoli, è un non-luogo. Una classe è il non-luogo in cui i ruoli, con lo status corrispondente, ma soprattutto con la costellazione di comportamenti ad essi legati, vengono in primo piano; interagiscono non gli individui, ma le loro facciate sociali, create di proposito e costantemente adattate per adeguarle alle esigenze dell’istituzione. Un ambiente socialmente inautentico, che schiaccia e espelle coloro che maggiormente avvertono il bisogno di una relazione autentica.

Il pieno e il vuoto

«Troppo spesso», si legge nella bozza delle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e il Primo ciclo di istruzione, «si dimentica che un insegnante è magis, di più, e che è il volano del desiderio di apprendere di un allievo». Il quale, senza di lui, mai vorrebbe evidentemente imparare alcunché. «L’allievo, infatti, non sceglie di desiderare di imparare, sceglie il modello che sa stimolarlo in tale direzione»8.

Sono presenti in queste righe un bel po’ degli errori pedagogici che decretano il fallimento della scuola italiana. Chiunque abbia visto crescere un bambino sa quanto sia potente la forza che lo spinge verso la conoscenza; affermare che un bambino «non sceglie di desiderare di imparare» vuol dire bestemmiare quella «santa infanzia»9 per la quale Janusz Korczack chiedeva rispetto. In questo testo, che pretende di orientare degli insegnanti che per fortuna ne sanno di più degli esperti che l’hanno partorito, si svuotano bambine e ragazzi di ciò che hanno di più vivo: la tensione verso la conoscenza. E si riempie, invece, il maestro, rigorosamente maschio.

Da una parte il vuoto, dall’altro il pieno. Di qua il minus, di là il magis. E naturalmente è una profezia che si autoavvera. Una scuola che pensi solo negativamente, come vuoto, lo studente, di fatto quotidianamente non fa che svuotarlo. Alcuni si lasciano poi nuovamente riempire dal sapere autentico, legittimato10, della scuola. Altri si perdono. Vuoti a perdere, appunto.


NOTE

  1. Eurostat, Tertiary educational attainment, age group 25-64 by sex and NUTS 2 region, 12.12.2024, https://doi.org/10.2908/TGS00109.
  2. P. Bourdieu, J.-C. Passeron, Les Héritiers. Les étudiants et la culture, Les éditions de Minuit, Paris 1964. Traduzione italiana: I delfini. Gli studenti e la cultura, introduzione di G. Gurrieri, trad. it. di V. Baldacci, Guaraldi, Bologna 2006.
  3. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1996 [1967], p. 24.
  4. «L’educazione è l’aspirazione al dispotismo morale elevata a principio». L. Tolstoj, Quale scuola?, Emme Edizioni, Milano 1975, p. 79.
  5. C. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, a cura di A. Palmonari e J. Rombauts, Martinelli & C., Firenze 1994, p. 36. Corsivo nel testo.
  6. D. Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino 1988.
  7. L. Boltanski, L. Thévenot, De la justification. Les économies de la grandeur, Gallimard, Paris 2002 (seconda edizione).
  8. MIM, Nuove Indicazioni 2025. Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione. Materiali per il dibattito pubblico, p. 9.
  9. J. Korczack, Il diritto del bambino al rispetto, trad. it. di G. Frova, Luni, Milano 2004, p. 74.
  10. La scuola, si afferma ancora nella bozza delle Nuove Indicazioni 2025, «resta a sede principale per la trasmissione di conoscenze legittimate in senso storico-culturale» (ibidem).
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Antonio Vigilante

PhD in Dinamiche formative e educazione alla politica, è tutor coordinatore di Filosofia e Scienze Umane presso l’Università di Siena, campus di Arezzo. È direttore responsabile della rivista «Educazione Aperta» e direttore della collana “Ianus. Educazione e trasformazione sociale” della casa editrice Ledizioni. Si occupa di pedagogia e filosofia morale e interculturale. Il suo ultimo libro è La stanza di fronte. Tre saggi di filosofia interculturale (Ledizioni, Milano 2024). Cura il blog personale “Attraversamenti”.

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