Premessa
La teoria e la prassi didattica nella scuola secondaria italiana sembrano oggi colpite da una forma di schizofrenia che paralizza di fatto l’evoluzione del sistema educativo: da un lato l’affermazione programmatica di un modello d’insegnamento fondato sempre più su di un profilo metacognitivo, in particolare sulle competenze (ovvero la capacità di reagire creativamente a situazioni problematiche autentiche), dall’altro un paese reale didattico che persevera sostanzialmente con le tradizionali modalità trasmissive, basate sul primato dei contenuti-conoscenze organizzati nei diversi curricula disciplinari.
La discrasia tra il paese legale (rappresentato congiuntamente dalle Indicazioni nazionali e le Raccomandazioni europee sulla scuola) e la realtà quotidiana dell’insegnamento in Italia si manifesta con plastica evidenza sul terreno della didattica della filosofia. Gli Orientamenti MIUR del 2017 per la didattica liceale della disciplina «propongono di declinare l’insegnamento e l’apprendimento della filosofia in chiave di: pensiero critico, capacità argomentativa, ragionamento corretto; didattica per competenze al fine di consolidare gli elementi cardinali delle competenze di cittadinanza». Il documento ministeriale insiste a più riprese sulla necessità di superare un approccio puramente teoretico e storico alla disciplina per far emergere con più chiarezza la sua vocazione pragmatica ed euristica («uno strumento conoscitivo ed operativo in grado di aiutare a comprendere e affrontare razionalmente alcuni fra i problemi che la vita ci pone ogni giorno»), riprendendo in gran misura la riflessione sulle conoscenze fondamentali operata dalla Commissione dei Saggi per la riforma dell’Istruzione già nel 1997. A proposito della filosofia, nel Documento finale del 1998, si legge: «L’insegnamento della filosofia – positiva specificità della scuola italiana – non può venire esteso indiscriminatamente nella sua forma attuale di ricostruzione storica. La sua destinazione generale consisterà nel dotare tutti i giovani di strumenti concettuali adeguati alla ragionevole costruzione di una soggettività propositiva e critica».
[…] Ma il vero e proprio mutamento di paradigma, che si è delineato gradualmente sul piano istituzionale, ha come contraltare un sostanziale immobilismo nelle modalità e nei contenuti dell’insegnamento filosofico in classe, ancora integralmente fedele al canone storico e a forme di comunicazione didattica tradizionali (in breve: la lezione frontale). Si tratta di una contraddizione non semplicemente ascrivibile alla tradizione gentiliana e storicista (ancora egemone nella didattica italiana), o al deficit di proposta ministeriale nel campo della formazione-aggiornamento del personale docente: a monte (o a fianco) delle ragioni di carattere politico e di sociologia culturale vi sono nodi epistemologici e pedagogici profondi su cui occorre tornare riflessivamente, per individuare delle condivise vie d’uscita dalla paralisi in cui versa l’insegnamento della filosofia in Italia.
Ripartendo dal confronto tra Kant ed Hegel: alla radice dell’attuale impasse didattica vi è infatti la contrapposizione e il dilemma tra i due paradigmi filosofici e didattici che inaugurano la riflessione contemporanea e che dividono tuttora gli insegnanti di filosofia in due fronti contrapposti e apparentemente incomunicabili. […]
Imparare la filosofia o a filosofare?
Il celebre richiamo kantiano all’autonomia della ragione come uscita dallo «stato di minorità» (pensare con la propria testa) vede la svalutazione dello studio storico della filosofia che, «invece di sviluppare la capacità intellettiva dei giovani che ci sono affidati e di formarla in vista di una futura conoscenza più matura e personale» induce in essi un’imitazione passiva e pedante dei pensieri altrui («li si inganna con una filosofia che si pretende già bell’e fatta»).
Questo è un passaggio cruciale nella riflessione kantiana sulla didattica filosofica su cui vale la pensa soffermarsi. Non esistendo una filosofia positiva che racchiuda sistematicamente tutti i concetti, allo studente si prospettano due vie: o imparare (storicamente) la filosofia dai maestri del passato (la si impara da coloro che hanno filosofato), oppure imparare a filosofare, ovvero «esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi (storici n.d.r.), ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi stessi principi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli».
[…] Mentre per Kant la mancanza di un unico e universale sistema metafisico rendeva la filosofia non insegnabile in forma sistematica (e a fortiori non banalizzabile come esposizione storica delle filosofie del passato), in Hegel, all’opposto, la fondazione metafisica della filosofia come divenire storico dello Spirito accredita la sua esposizione in forma sistematica e nello stesso tempo storica.
Hegel restituisce alla filosofia la sua dignità metafisica smarrita nel criticismo kantiano: la ricostruzione dialettica della maturazione progressiva dello Spirito attraverso le forme della natura e della cultura dà luogo ad una sintesi enciclopedica e insieme storico-fenomenologica del sapere umano. Nella sua forma ritrovata di sapere positivo, e nello stesso tempo storico, la filosofia è quindi insegnabile come una scienza che non può prescindere dall’evoluzione dei suoi concetti attraverso gli autori del passato: l’apprendimento della filosofia non può che coincidere con lo studio della storia della filosofia intesa come sviluppo realizzato della vita dell’Idea. […]
Una rivoluzione in mezzo al guado
Le due opposte concezioni della filosofia rappresentate da Kant ed Hegel offrono ancora oggi lo sfondo concettuale del dibattito sulla didattica e il riferimento ideologico principale degli addetti ai lavori, gli insegnanti della materia. Con un certo grado di semplificazione si può dividere il campo dei docenti di filosofia in due schieramenti.
Da un lato i difensori strenui di un’ortodossia hegelo-gentiliana, che vede nell’insegnamento dei contenuti storico-filosofici il fondamento della professionalità docente; poiché la storia della filosofia è il percorso naturale dell’esperienza del filosofare, la didattica è sostanzialmente centrata sul docente, titolare del sapere esperto e guida degli studenti nel loro incontro con i classici. Questo approccio (definibile senza una connotazione di valore tradizionalista) è largamente prevalente in Italia, sia per convinzione teorica, ma anche per la semplice mancanza di strade alternative collaudate e quindi percorribili.
All’estremo opposto vi sono coloro che vedono la filosofia principalmente come una teoria dell’argomentazione razionale, spendibile in diversi contesti pratico-discorsivi e didatticamente focalizzata sullo studente, visto come il terminale di un’attività di tirocinio di abilità cognitive e linguistiche generali. È questo un approccio poco seguito in Italia, ma diffuso in vari Paesi europei e che ha conquistato gradualmente cittadinanza (vedi sopra) all’interno dei think tank ministeriali e della normativa d’indirizzo scolastico.
Nei citati Orientamenti MIUR del 2017 viene infatti esplicitamente affermato il primato (kantiano) del filosofare sulla filosofia come conoscenza storica: «la formazione in ambito filosofico, dovrebbe avere come scopo quello di fornire solide competenze in campi quali la logica, strumento del corretto ragionare formale; la pratica dell’argomentazione e della negoziazione razionale, strumenti del ragionamento collaborativo e informale; la probabilità, intesa come strumento del corretto ragionare in situazioni di incertezza. Sono questi strumenti, infatti, che consentono di affrontare poi consapevolmente anche le altre discipline scolastiche, avendo tutte a che fare – chi più chi meno, chi strutturalmente chi contenutisticamente – con ragionamenti logici, con argomentazioni aperte e con situazioni probabilistiche». […]
Cambiare il paradigma: verso le “competenze” filosofiche
Avendo visto le difficoltà teoriche e pratiche che ostacolano il matrimonio tra l’indirizzo didattico storicista e quello per problemi, una risposta coerente può essere risolvere alla radice ogni ambiguo compromesso e sposare decisamente l’uno o l’altro paradigma. O perseguendo il vecchio filone storico-filosofico, magari corretto e implementato da momenti di didattica partecipativa e socratica, oppure compiendo il grande balzo verso una didattica integralmente strutturata su casi di studio filosofici, collegati strettamente al mondo della vita nei suoi diversi ambiti (etico-politico, teologico, scientifico, artistico).
Questa seconda opzione è quella caratteristica del mondo anglosassone, fatta propria (salvo recenti ripensamenti) dalla scuola secondaria francese. Essa fa capo alla tradizione del pragmatismo americano (sul versante della dimensione esperienziale dell’apprendimento) e al filone della filosofia analitica (per l’attenzione dedicata ai problemi logico-linguistici e alla dimensione applicativa della filosofia); una terza matrice della didattica filosofica basata sugli study cases è rappresentato dal versante cognitivista dell’Istruzione programmata che mira a rifondare l’insegnamento sull’asse delle funzioni intellettuali sottese ai contenuti di studio disciplinari.[…]
Un insegnamento strutturale e storico della filosofia
La terza via che qui di seguito proponiamo è una sintesi degli elementi virtuosi dei due paradigmi classici qui delineati (per semplificare Kant vs. Hegel). Essa prende atto che l’insegnamento della filosofia tradizionale si disperde spesso in una pletora di conoscenze inerti, che non innescano negli studenti competenze culturali e cognitive permanenti e trasferibili nei diversi contesti della vita sociale e culturale.
Il compito del docente di filosofia, superando l’osservanza quietistica di un canone storico ormai logoro, dovrebbe essere tornare con gli studenti alla cosa stessa del filosofare, ovvero presidiare costantemente la sfera dei significati generali del filosofare. Identifichiamo questa con la questione ontologica e gnoseologica, intese congiuntamente come la matrice del discorso filosofico, e le questioni di verità collegate di ordine politico, etico, epistemologico, teologico ed estetico. L’insieme di questi ambiti interconnessi rappresenta la struttura della disciplina, l’intelaiatura concettuale che deve affiorare costantemente in ogni contenuto e autore filosofico interpellati all’interno di un corso scolastico.
[…] Diversamente dall’approccio dominante, che sostanzialmente identifica ancora le competenze sotto un profilo cognitivo generale e presupposto alle discipline scolastiche, noi pensiamo che esse coincidano invece con l’utilizzo consapevole del linguaggio specifico della materia (nel nostro caso la filosofia), più che in un set di funzioni-abilità generali metadisciplinari. Questa visione (insieme strutturalista ed esternalista) dei significati della cultura è maggiormente consona all’impianto originale della competenza come capacità di mobilitazione di conoscenze dichiarative e procedurali in situazioni problematiche autentiche. Disconoscere l’autonomia del linguaggio filosofico e la sua specifica consistenza problematica, per un orizzonte astratto e prescrittivo di abilità cognitive e di competenze sociali da perseguire, significa perdere di vista la cosa stessa della filosofia e, con essa, compromettere la sua possibilità di dialogare proficuamente (dal suo interno) con la pluralità di orizzonti vitali che incontrano il ragionare filosofico.
Per allontanare questo rischio identifichiamo la competenza filosofica con la capacità di nominare e usare consapevolmente la struttura della materia filosofica (il plesso coerente di ontologia-gnoseologia e problemi di verità in campo etico-politico, epistemologico, estetico, teologico) e nient’altro. Ma questa competenza a sua volta non viene assimilata in astratto e direttamente, proponendo immediatamente casi di studio, quanto attraverso la mediazione di sequenze filosofiche in cui essi si manifestano e acquistano perspicuità.
Proponiamo un esempio concreto. Discutere di casi etici reali attraverso l’alternativa tra relativismo e assolutismo dei valori è un’operazione didatticamente virtuosa. Ma farlo dopo aver presentato l’emergere del problema dalla contrapposizione tra sofistica e filosofia arcaica, dà alla discussione del tema uno spessore problematico e una consapevolezza ontologica molto maggiore, perché inerente alla struttura stessa del linguaggio filosofico nella sua dialettica interna.
Sviluppare viceversa solo il versante storico-filosofico dell’argomento, senza una sua espansione di tipo tematico e attualizzante (e soprattutto senza mobilitare forme di didattica laboratoriale e interattiva), significa recidere il legame della filosofia con il mondo della vita e negare la sua stessa funzione formativa.
Viene esclusa quindi, in questa ipotesi didattica, la giustapposizione tra un insegnamento storico e uno seminariale sviluppato a latere, una semplice spartizione territoriale che lascia intatte le due scuole d’insegnamento. La didattica strutturale della filosofia tende al contrario a sviluppare la competenza filosofica (come capacità di mobilitazione di conoscenze e abilità in situazione), mostrando l’intelaiatura generale dei concetti filosofici all’interno delle sequenze filosofiche in cui si generano, ed applicandoli successivamente a casi di studio coerenti con i problemi che esse hanno portato alla luce. […]
Questo insieme di ragioni impedisce lo sviluppo del programma di filosofia secondo le sue coordinate storiche classiche (antica-medievale; moderna, contemporanea), divenute col tempo una gabbia d’acciaio burocratica che impedisce il libero esercizio della creatività e della professionalità del docente. La didattica strutturale e insieme storica richiede tempi più dilatati rispetti al circuito tradizionale spiegazione-ripetizione (con in mezzo una spolverata di lezione partecipata): essa è insieme tirocinio continuo sul linguaggio della filosofia, comprensione della sua declinazione storico-filosofica, applicazione ai casi concreti della vita sociale. E, a monte rispetto a questa piattaforma di contenuti, l’apprendimento della filosofia è esercizio riflessivo e dialogico che richiede, per sua intrinseca natura, un format didattico cooperativo e comunitario: il docente è chiamato a scendere dalla cattedra per accompagnare gli studenti nel tirocinio sul linguaggio filosofico e condividere con essi spazi di confronto e riflessione comune. […]
Conclusione
Dopo due secoli di contrapposizione filosofica e pedagogica è giunto il momento che i due paradigmi rivali (teorico-problematico versus quello storico) depongano infine le armi davanti all’urgenza di approntare un modello didattico adeguato ai mutamenti culturali del presente. Il primato crescente del sapere tecnico-scientifico e i mutamenti antropologici indotti dalle tecnologie digitali non implicano un’obsolescenza della filosofia, che anzi mantiene, in quanto sguardo critico sui fondamenti della cultura, un ruolo importante nella formazione integrale del cittadino.
Un compito difficile attende oggi la filosofia. Per conservare il suo ruolo sociale e educativo all’interno della società contemporanea essa deve preservare la sua tradizione storica e il suo linguaggio, senza però ritrarsi nella torre d’avorio di un sapere erudito; deve insegnare attraverso gli Autori senza farne dei monumenti autoreferenziali, dei sepolcri imbiancati chiusi di fronte all’urgenza dei problemi e delle domande di senso del presente. Deve infine aprirsi alla domanda di competenze spendibili nella società della conoscenza senza annacquare la sua struttura concettuale all’interno di astratte griglie cognitive, e svilire la sua identità culturale in nome di una funzionalità strumentale-economica (solo lontana parente dell’utilità filosofico-pragmatica).
Per realizzare questa difficile operazione di sintesi anche il docente di filosofia deve ricalibrare il suo ruolo nel segno della versatilità e flessibilità didattica: scendere dalla cattedra, dove custodisce il monopolio del sapere esperto, per diventare l’organizzatore di momenti strutturati di apprendimento condivisi con gli studenti, sperimentare nuove formule di lavoro in classe, aprirsi alle risorse della tecnologia digitale.
Questo non significa abdicare al ruolo di formazione intellettuale svolto dall’insegnante, quanto mirare alla sua più piena realizzazione nei contesti mutati della scuola di massa del nuovo secolo: la trasformazione simmetrica del modo d’insegnare e dell’identità professionale del docente di filosofia è un’operazione complessa e laboriosa, ma non può essere più differita, pena il declino della filosofia nel sistema educativo e (ciò che più conta) lo smarrirsi della sua funzione sociale e culturale.