A una citazione di Calvino (“Ogni tanto mi accorgo che la penna ha preso a correre sul foglio come da sola, e io a correrle dietro. È verso la verità che corriamo, la penna e io”, Il cavaliere inesistente) segue un violentissimo attacco neo-luddistico agli strumenti di scrittura digitale. L’anatema coinvolge tastiere, Microsoft Word (a rappresentare la categoria dei software di videoscrittura), e – in particolare – il “grottesco eccesso di font”, colpevole a giudizio della filosofa di Imperia di contenere anche caratteri che “contraffanno la scrittura a mano”, la sola che ci restituirebbe “la verità sulla nostra intelligenza, sensibilità, unicità”. Posso capire il fastidio di Vassallo nei confronti dell’attrazione “per l’inautentico, il taroccato”, considerato anche il fatto che, nell’informarmi sulla possibilità di ottenere via Internet un font che clonasse la mia grafia personale, mi ero imbattuto in richieste economiche così esose che il perfino il mio narcisismo aveva dovuto arrendersi. Nel riflettere sulla questione, non posso però non tener conto anche del fatto che il mio modo di vergare segni con la mano, sia che usi una biro da pochi soldi, sia che impugni una stilografica la cui marca è tuttora uno status-symbol 1.0, è così vergognosamente illeggibile – e fin dall’infanzia più remota, quando, nonostante ambedue i miei genitori fossero laureati, doveva ancora entrare in casa la prima Lettera 25 Olivetti che ho poi usato per la mia tesi – che io stesso non riesco a decifrarla dopo poche settimane, anche senza impiegare alcun algoritmo di criptazione. Soprattutto, non posso non rilevare che l’insieme del ragionamento si basa su presupposti davvero fallaci. La penna è a sua volta una tecnologia di scrittura, così come l’insieme di PC e word processor: in ambedue i casi usiamo strumenti per tracciare segni dotati di significato su un supporto. E mi sento anzi di suggerire la lettura di un libro davvero illuminante (Scavetta, Le metamorfosi della scrittura, La Nuova Italia, 1992); il volume ricostruisce sinteticamente la progressiva liberazione della scrittura di testi complessi e articolati dai vincoli fisici e dalle conseguenti limitazioni cognitive implicati dai diversi supporti rigidi che si sono susseguiti nella storia. I passaggi dalla pietra, all’argilla, alla pergamena, alla carta, hanno segnato di volta in volta un evidente progresso operativo e un chiaro vantaggio culturale. L’argilla – così come la cera – tendeva naturalmente a seccare e quindi il processo di scrittura sulle tavolette con gli stilo doveva fare i conti con il tempo limitato della piena fruibilità del supporto, problema del tutto estraneo alle successive prospettive di redazione di testi. Il supporto flessibile tipico degli ambienti di scrittura digitali ci consente nella fase attuale di superare anche i vincoli spaziali tipici della carta: si pensi alla possibilità di cancellare, inserire, sostituire e spostare porzioni di testo senza doverlo riscrivere in toto. Del resto, la genialità di Giacomo Leopardi è testimoniata anche dal fatto che l’originale de L’infinito, vergato – va riconosciuto – con una grafia più che accettabile su carta e visibile in copia digitale online, contiene un numero di correzioni davvero esiguo, a fronte dell’efficacia del testo.