Paura e socialità

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La tesi di Hobbes è che gli uomini costituiscono dei corpi sociali che si lasciano governare per paura di chi ha il potere sulle loro vite, nel caso in cui qualcuno acquisisca uno Stato con la forza, oppure per paura del caos che seguirebbe dalla pretesa che altrimenti ciascuno di loro potrebbe accampare su tutto.
Il Leviatano di Hobbes in un’incisione del 1651.

Si verrebbe a generare, in questo secondo caso, una guerra capace, alla fine, di non favorire nessuno e anzi di danneggiare tutti (vedi, in particolare, Leviatano, capp. XVII, XXI). Il motore che genera la socialità sarebbe, in ogni caso, la paura per la propria incolumità. Il contrattualismo moderno, ha dunque in Hobbes il suo padre e nella paura la propria fonte generatrice.
Del resto, già Machiavelli, più di un secolo prima, ne Il principe (1532), mostrava grande considerazione per la paura. Per quanto egli fosse cauto (perché non succeda che “la troppa diffidenza non lo [riferito al principe] renda intollerabile”) e mosso da un cinico realismo (gli uomini sono “tristi”), non c’è dubbio che Machiavelli ritenga la paura un importante strumento per regnare. Come recita il celebre passo, “è molto più sicuro essere temuto che amato” (cap. 17).

In effetti, se si pensa alle antiche società, la paura era uno strumento di governo normale e le punizioni esemplari verso chi non si piegava erano una fonte di efficace motivazione soggettiva e collettiva: un esempio per tutti, la conquista romana di Gerusalemme in seguito alla ribellione degli ebrei del 70 d.C., con la distruzione del tempio e di tutte le imponenti fortificazioni della città. In tempi più recenti, i regimi totalitari si sono serviti della paura con modi più sottili (l’utilizzo della polizia segreta e dei suoi metodi, la minaccia di deportazione, etc.), ma non meno efficaci. Insomma, quella che in Hobbes può sembrare una visione eccessivamente pessimistica, in Nelle antiche società la paura era uno strumento di governo normale e le punizioni esemplari verso chi non si piegava erano una fonte di efficace motivazione soggettiva e collettiva.effetti, trova documentazione in molte forme storiche di vita politica.
Per l’uomo occidentale che vive nelle società democratiche di oggi tutto questo è strano, lontano. La storia però documenta abbondantemente che le intuizioni di Hobbes e Machiavelli, per quanto piacerebbe poterle rigettare, sono in qualche misura fondate. Il fatto di capirlo aiuta poi ad apprezzare la società democratica occidentale in cui viviamo, che certo non manca di difetti, ma che presenta un indubbio pregio: la paura per la propria incolumità non è un sentimento che opera la costituzione del sociale o del politico.

L’altro Hobbes, la cui sola paura è rimanere senza tonno. © Bill Watterson.

L’istituto democratico pone la sovranità nel popolo. Questo, da soggetto in linea di principio istitutore e da titolare ultimo dell’azione di governo (chi governa agisce in nome del popolo), non ha motivo di spaventare sé stesso e, anzi, ha tutto l’interesse a non farlo, anche perché non ne ha bisogno. Il popolo può dunque contare sulla propria disponibilità a farsi carico delle decisioni che esso stesso prende. La democrazia è insomma un meccanismo politico efficace per evitare che sia la paura lo sfondo su cui si genera la cooperazione sociale e politica.

La democrazia è un meccanismo politico efficace per evitare che sia la paura lo sfondo su cui si genera la cooperazione sociale e politica.Questo aiuta a capire lo shock provato dall’Occidente l’11 settembre: ciò che sembrava ormai esorcizzato, lasciato fuori dall’orizzonte sociale, rientrava in scena prepotentemente. Il meccanismo democratico aveva superato, consolidandosi, il rigurgito di paura degli anni Settanta. Questi erano stati caratterizzati da una contestazione violenta, tanto più inquietante in quanto proveniente dal basso, cioè dallo stesso luogo della generazione del consenso democratico. Agli inizi del XXI secolo, invece, le tensioni interne erano ormai fondamentalmente inserite in una più o meno normale dialettica politica democratica.
Gli attentati terroristici di matrice islamica, per contrasto, mostrarono una violenza sotterranea e inafferrabile nella genesi, eppure palese e devastante nei gesti esemplari compiuti. Questa paura, per quanto destabilizzante, venne però nella sua ragione originaria per così dire “da fuori” rispetto al sistema, non mise in discussione la struttura sociale e perciò di per sé non ebbe, né avrebbe potuto portare alla crisi della democrazia. Questa, peraltro, potrebbe essere sfidata da alcune conseguenze collaterali derivanti dal terrorismo.

Per capire come la società d’oggi possa sopravvivere alla paura del terrorismo è utile guardare ad alcune importanti caratteristiche della lotta al terrorismo negli anni Settanta. Ne presenterò tre.
La prima è la conservazione della fiducia nell’istituto democratico. Qui la storia fornisce il controesempio: la tentazione di una risoluzione del problema abbandonando questa via era stata troppo forte nella Germania nazista. Conosciamo però gli esiti devastanti di quel cammino.
La seconda consiste nel rifiuto dell’antipolitica: la tentazione dell’antipolitica fu una via adottata, per esempio, in occasione del sequestro Moro. Il sistema politico Per capire come la società d’oggi possa sopravvivere alla paura del terrorismo è utile guardare alla lotta al terrorismo negli anni Settanta.democratico però è il luogo naturale di risoluzione, per via di mediazione, del conflitto delle preferenze e perciò è prezioso per la convivenza civile. La delegittimazione della politica è una carta pericolosa da giocare anche proprio per chi la gioca, a meno che questi non abbia un intento meramente dissolutore.
La terza consiste nel mantenimento delle procedure democratiche. Queste sono peraltro dotate di meccanismi di protezione che le rendono difficili da sovvertire, tanto che il ’68, ad esempio, pur con una protesta dal basso di proporzioni rilevanti, non fu in grado di compromettere la democrazia di cui si valeva proprio nell’atto di contestarla.
Insomma, la democrazia, coi suoi controlli incrociati e i suoi meccanismi dialettici, è la forma di governo che allontana la paura dal politico. Sarebbe ben strano allora allontanarsene per paura, anche se ciò è già accaduto.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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