“Ora che è novembre”, di Josephine Johnson

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Josephine Johnson (Missouri 1910 – Ohio 1990) è stata una grande scrittrice statunitense. In Italia è pressoché sconosciuta. Del Vecchio editore ha pubblicato nel 2015 il suo terzo romanzo, “Il viaggiatore oscuro” (“The Darker Traveler”, trad. it. di S. Sacchini). Da pochi mesi è uscito invece per Bompiani “Ora che è novembre” (“Now in November”, trad. it. di B. Masini), il suo primo romanzo, quello con cui nel 1935, a soli ventiquattr’anni, vinse il premio Pulitzer. 

Si tratta di un romanzo superbo, una storia di ambientazione rurale in cui il confronto fra uomo e natura si declina nell’ampia gamma di toni che la cultura americana ha elaborato dalla fine dell’Ottocento: la sfida, l’immedesimazione panica, la rassegnazione biblica, la condanna a un destino di minorità nel legame viscerale e asimmetrico con la terra.

Nella pagine di Johnson, tradotte con grande duttilità ed eleganza da Beatrice Masini, soffia la stessa precisione linguistica e la stessa amorevole attenzione nell’elencare i nomi di piante, di semi, di animali di attrezzi agricoli di varietà minerali e botaniche che troviamo in Walter Whitman, in Ralph Waldo Emerson e in David Thoreau, ma anche la finezza di osservazione psicologica di una Willa Cather e il senso del destino umano come intrinsecamente tragico di Faulkner.

Viene da domandarsi come una giovane donna di ventiquattro anni abbia trovato il coraggio di abbandonare gli studi, iniziati alla Washington University di Saint Louis, per ritirarsi nella soffitta della fattoria di famiglia e scrivere questa storia dove davvero “amore e paura crescono insieme con una precisione quasi matematica: più grande è l’amore, più grande la paura”.

Una famiglia composta dai genitori e tre figlie adolescenti torna a vivere nella tenuta di campagna, dopo aver lasciato la città per una non meglio precisata sventura economica che si estende anche alla nuova vita: la terra dove si trasferiscono è gravata da un’ipoteca. Marget, la voce narrante, Merle, la sorellina più piccola, e Kerrin, l’irrequieta e lunatica sorella maggiore, crescono sapendo che solo con caparbia, pazienza e con lavoro continuo quella terra arida e sassosa produce il cibo che le sazia e a stento il denaro che serve per pagare le rate del debito. Ogni frutto, ogni secchio d’acqua o di latte è pensato in termini di sopravvivenza e di risparmio per affrancarsi dall’ipoteca che grava sull’umore, sui gesti e sulle parole del padre come una nube perenne. Solo la madre con la sua fiducia nella vita, la sua capacità di accudire e adattarsi riesce a sollevare il peso di responsabilità che sagoma la vita quotidiana della famiglia. Ma non c’è solo la fatica: c’è la meraviglia per l’alternanza stagionale che anima il paesaggio, le piante e gli animali come fossero loro i veri protagonisti del romanzo.

Nell’occasione di una siccità che si annuncia fin dalla primavera e si protrarrà fino all’autunno un personaggio estraneo fa irruzione nella routine lavorativa: il giovane Grant, che viene in aiuto al padre come lavoratore a pensione per i lavori più pesanti.

Grant è istruito, la sera legge insieme al resto della famiglia Shakespeare e la Bibbia. Nonostante il lavoro nei campi, per la mancanza di pioggia, sia sempre più pesante, il ragazzo riesce comunque a rincuorare il padre, e con la sua ironia e gentilezza fa innamorare di sé Kerrin e Marget, mentre a sua volta è attratto dalla più giovane della tre sorelle, Merle.

Nessun affetto o trasporto verrà mai dichiarato apertamente, ognuno matura in solitudine il proprio dramma di impossibilità e rifiuto. Nel frattempo la pioggia non arriva, i mesi passano, Kerrin si lascia andare a una deriva psicotica sempre più evidente e incontrollabile. In seguito a un incendio che lascerà la fattoria semidistrutta, la madre ustionata e moribonda, Kerrin si suicida. L’intera contea è devastata da quella prolungata siccità.

“L’amore e l’antica fiducia se ne sono andati. La fiducia se n’è andata con Madre. Grant è andato via. Ma restano il bisogno e il desiderio, e da queste colline forse torneranno. Non riesco a credere che questa sia la fine. E non riesco a credere che la morte sia qualcosa di più che la cecità di coloro che sono vivi. E se questa è la consolazione di un cuore nel bisogno, o la facile fiducia che nasce dalla disperazione, non importa, poiché ci dà in qualche modo il coraggio di affrontare le mattine. Che a volte è tutto quanto il cuore può chiedere”.
Questa è la saggezza asciutta con cui Marget, voce narrante di una tragedia senza via di fuga, chiude il suo racconto.

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Alessandra Sarchi

Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell’arte; ha poi svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi: «Violazione» (2012), «L’amore normale» (2014) e l’ultimo, «La notte ha la mia voce», uscito nel 2017.

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