Nuovo umanesimo e “benessere digitale”

Tempo di lettura stimato: 8 minuti
Cosa resterà della DAD? Come cambierà il nostro rapporto con le tecnologie, anche a scuola? Perché è importante che proprio la scuola sia il luogo in cui riflettere su benessere e cultura digitale? Ce ne parla Elena Rausa, docente del “Banfi” di Vimercate, scuola capofila del progetto “Benessere digitale”.
studenti e smartphone
Immagine tratta dal sito benesseredigitale.eu

Con una rapidità inimmaginabile soltanto pochi mesi fa, il lockdown in seguito alla pandemia da COVID19 ha costretto all’apprendimento da remoto la popolazione studentesca italiana, rivoluzionando i tradizionali approcci metodologici attraverso l’impiego di tecnologie che gran parte dei docenti italiani frequentavano in modo marginale. Chi scrive sa per esperienza che le prime settimane di chiusura delle scuole – tra febbraio e marzo – hanno mobilitato sforzi di aggiornamento che in tempi normali avrebbero occupato mesi e forse anni.

La didattica a distanza, tra emergenza e normalità

Pur nella diseguale diffusione ed efficacia delle pratiche di didattica a distanza, il dato comune – almeno per le classi della Secondaria di primo e secondo grado – è stata la centralità degli strumenti digitali che hanno consentito scambio di materiali, incontri in diretta, elaborazione di prodotti multimediali. Studenti e docenti si sono misurati (e si stanno ancora misurando, perché l’anno scolastico ha visto terminare le sue lezioni, ma non ancora le sue tradizionali appendici, come scrutini, compilazioni di relazioni, Esami di Stato ecc.) con una didattica che, se pure non soddisfa tutte le istanze pedagogiche a cui eravamo abituati, certamente lascia intuire il suo principale potenziale nella predisposizione di strumenti utili alla costruzione collaborativa e intergenerazionale del sapere.

Non entrerò in valutazioni generali sulla didattica a distanza (che su questo spazio hanno già avuto espressione), poiché mi sento ancora immersa in una sperimentazione progressiva di strumenti e metodi che non mi permette di tracciare bilanci. Certo, la scuola in cui mi sono trovata virtualmente a insegnare non è la scuola che avrei scelto, ma devo riconoscere di avere trovato in questa stagione elementi di stimolo alla riflessione pedagogica; senza contare che, sin dal primo giorno di chiusura, come molti colleghi, ho vissuto come un dono insperato la possibilità di non interrompere la relazione educativa con i miei studenti. Da quella relazione e dalla sopravvivenza del gruppo classe passa una forma attutita ma preziosa di normalità che è parte del benessere generale di ciascuno di noi.

Benessere digitale: ricerca sociologica e percorso educativo

Ed è proprio del concetto di “benessere” che vorrei parlare, prendendo spunto dal coinvolgimento in un progetto formativo intitolato Benessere digitale, a cui ho partecipato sin dal 2017 e che oggi, nella sua seconda fase, vede l’Istituto in cui insegno, il Liceo Scientifico e Classico “Antonio Banfi” di Vimercate (MB) [Scuola Amica de «La ricerca», n.d.A.], come ente capofila.

“Benessere Digitale” è in origine il nome del Centro di Ricerca dell’Università di Milano Bicocca che si occupa del rapporto tra media digitali e qualità della vita. Nell’anno scolastico 2017-18, da questo centro è stato appunto avviato un progetto rivolto alle scuole (congiuntamente finanziato dall’Università di Milano-Bicocca e da Fastweb s.p.a.), nel quale si prevedeva un intervento di educazione ai nuovi media rivolto agli insegnanti e agli studenti delle classi seconde di 18 scuole secondarie di secondo grado.

A tale intervento era unito un esperimento randomizzato volto a misurare miglioramenti nelle competenze e nei comportamenti digitali da parte degli studenti delle classi coinvolte rispetto alle altre classi dello stesso istituto (classi di controllo).

L’aspetto innovativo del progetto è che sono stati gli insegnanti stessi, dopo aver ricevuto la formazione, a effettuare l’educazione ai media nelle classi sperimentali, secondo un percorso articolato in quattro moduli.

Il primo era volto a sviluppare in studenti e educatori l’abilità di riconoscere e gestire la quantità tempo speso sugli smartphone, in un’ottica di contenimento del sovraconsumo. Il secondo puntava a potenziare le cosiddette life skills in ambiente digitale, concentrandosi in particolare sulla comprensione delle dinamiche di relazione online e sui concetti di “identità digitale” e di “netiquette” (una sorta di galateo che dovrebbe ispirare i nostri comportamenti digitali alla tutela del proprio e dell’altrui benessere psicologico e alla cura della relazione). Il terzo modulo aveva lo specifico obiettivo di migliorare le competenze di ricerca e valutazione delle informazioni online, e mirava a migliorare le conoscenze relative alla ricerca e selezione delle informazioni, potenziando consapevolezza e sensibilità all’autorevolezza delle fonti. Infine, il quarto modulo puntava a raffinare il senso di responsabilità e la consapevolezza rispetto ai processi di produzione e pubblicazione di contenuti online, di qualsiasi natura; qui si è data particolare attenzione ai processi metacognitivi e auto-riflessivi, relativi all’intenzione comunicativa di chi pubblica e alla ricezione del messaggio, e sono stati affrontati alcuni aspetti legali, quali la privacy e il diritto d’autore.

Il percorso ha avuto una sua efficacia e il monitoraggio degli studenti, attraverso un test in ingresso e in uscita, ha evidenziato un miglioramento nelle abitudini d’uso dei media, nella competenza digitale e anche nel benessere più generale (qui maggiori informazioni e report della ricerca). Chi volesse saperne di più può trovare una parte dei contenuti formativi e i risultati della ricerca sono delineati in Benessere Digitale a scuola e a casa. Un percorso di educazione ai media nella connessione permanente (Milano, Mondadori, 2019), a cura di Marco Gui (direttore del Centro e professore associato nel Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca).

Un progetto in evoluzione

Come accennavo, ho partecipato al progetto formativo nel 2017, in virtù del caso, essendo la mia seconda Liceo Scientifico di allora classe campione. Non nascondo alcune fatiche e perplessità iniziali, legate essenzialmente all’impegno per un aggiornamento che non avevo pianificato e al fatto che il lavoro con i ragazzi ha occupato un numero importante di ore curricolari che avrei voluto destinare alla disciplina che insegno. In realtà, ho poi riscontrato alcuni innegabili benefici, principalmente dipendenti dal fatto che la formazione non era legata allo sporadico intervento di un esperto esterno, ma integrata al percorso curricolare. Per intenderci: argomenti come il diritto d’autore o la diffusione delle fake news si sposano perfettamente con la riflessione su temi quali la trasmissione culturale e libraria nel medioevo e la falsa donazione di Costantino, senza contare l’opportunità didattica e pedagogica di lavorare sulla verifica della qualità delle informazioni scientifiche o sulla tutela dei diritti fondamentali della persona anche nel web. “Buona didattica” e “buona cittadinanza”, si sarebbe potuto dire già allora, accettando di far posto a questi temi (di valenza antropologica e epistemologica trasversale) nella didattica curricolare; immaginiamoci oggi, dopo le ricadute tecnologiche della didattica a distanza.

Nell’autunno 2019 il progetto è entrato in una seconda fase, che tiene conto di alcune criticità esplicitate dai docenti delle scuole precedentemente coinvolte: il percorso, più snello e diluito nel tempo, interessa un numero maggiore di scuole e di classi (non più solo quelle campione), gli interventi di aggiornamento contano su una formazione in larga parte a distanza, quelli con gli studenti puntano a coinvolgere l’intero consiglio di classe. Tuttavia è stata l’accelerazione imposta dall’inattesa emergenza a palesare l’utilità e l’urgenza di un approccio formativo di questo tipo, che integra la riflessione sulle nuove forme di comunicazione e le discipline curricolari, evidenziando come il sapere stesso sia anche un processo comunicativo diamesico, che ora viaggia attraverso linguaggi parzialmente nuovi.

L’età filtro del digitale? Quel che non siamo disposti a perdere

Negli ultimi mesi abbiano decisamente stravolto il nostro rapporto con computer, smartphone e new media in generale. Molti adulti educatori, e non necessariamente i più anziani, avranno avuto l’impressione di essere costretti a varcare il confine di una terra straniera, proprio mentre un decreto ci imponeva di stare a casa: un paradosso che segna un cambiamento radicale, e personalmente dubito che si tornerà alla scuola e al mondo da cui veniamo. Certo torneremo a fare lezione con i nostri corpi, mi auguro, e finalmente in sicurezza, ma forse non sarà così scontato rinunciare ad alcune delle modalità organizzative, didattiche ed educative sperimentate in questi giorni. Qualunque sia il nostro pensiero sulla DAD, qualcosa è inesorabilmente accaduto.

Può darsi che la nostra generazione stia vivendo la circostanza e l’opportunità di attraversare una delle cosiddette età filtro, come furono il passaggio dal rotolo di papiro al libro di pergamena, dal manoscritto alla stampa, come fu anche la definizione di un canone “scolastico” al tempo di Carlo Magno e Alcuino di York. La differente circostanza per cui il digitale memorizza per sempre ogni cosa, mentre la cultura antica faceva i conti con la dissoluzione e la cancellazione del passato, è solo apparente: un mondo in cui nulla si cancella rischia d’essere un mondo in cui nulla resta.

Se l’impressione è vera, se gli storici di domani guarderanno a questo tempo come a una strettoia della storia, tocca alla nostra generazione la responsabilità di decidere cosa far passare dall’altra parte (non tanto quali contenuti, ma quali valori antropologici, estetici, civici imprescindibili) e in quale modo. Ragionare di benessere e di cultura digitale in questi termini mi pare un compito da “umanisti” (in senso lato, non disciplinare), perché la tecnologia è l’occasione che pone l’essere umano al centro, e la scuola è il luogo in cui questa riflessione può fondarsi su una collaborazione intergenerazionale, che è poi la via maestra per il benessere di oggi e per quello di domani.


Addendum
di Mauro Reali

Abbiamo pensato che al punto di vista di una docente di Liceo come Elena Rausa si accompagnasse quello del responsabile del progetto sul Benessere digitale, cioè il professor Marco Gui, dell’Università di Milano-Bicocca. Le sue risposte ad alcune nostre domande (formulate, ahimè, “a distanza”: segno dei tempi…) saranno pubblicate su queste colonne appena possibile; per ora, ci limitiamo a ringraziarlo per la sua cortese disponibilità.

Condividi:

Elena Rausa

Docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: “Le invisibili” (Neri Pozza, dal 9 febbraio 2024), “Ognuno riconosce i suoi” (Neri Pozza, 2018), “Marta nella corrente” (Neri Pozza, 2014).

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it