Per quanto riguarda la parte generale di introduzione: quali sono le tue prime impressioni, le principali differenze rispetto alle precedenti ancora in vigore?
La più evidente delle differenze con le precedenti Indicazioni è sostanziale e pone il testo non solo in conflitto con quelle, come del resto era nelle intenzioni dichiarate del Ministro, ma anche con la normativa vigente, fatto che è certamente più grave, e con la storia e il presente del sistema scolastico.
Anzitutto, queste si definiscono “Indicazioni”, ma sono a tutti gli effetti “programmi”, secondo la vecchia concezione non più legittima dalla fine degli anni Ottanta. Alle Indicazioni nazionali, infatti, per stessa e inevitabile ammissione contenuta nel testo, competono «le norme generali cui devono attenersi tutte le scuole, siano esse statali o paritarie». E comunque nel rispetto della libertà d’insegnamento e dell’autonomia scolastica. È evidente quanto questo ineludibile limite sia ampiamente contraddetto dal testo: non attengono a questo livello istituzionale e normativo né le eccessive liste di contenuti, né le dettagliate indicazioni metodologiche, che competono all’autonomia delle scuole in quanto organismi istituzionali, dotati appunto di autonomia di ricerca e di sperimentazione, alla libertà d’insegnamento, nonché al confronto e alla crescita culturale della e nella scuola. E neppure, seppure su un piano diverso, l’interpretazione e le linee di indirizzo su argomenti specifici o le finalità e le visioni delle singole discipline, se vengono condotte in modo così smaccatamente di parte.
La declinazione dell’impianto programmatico e concettuale del testo esplicita questi diversi livelli, di cui solo quello centrale (gli obiettivi e le competenze attese, i criteri di valutazione) è di fatto oggetto delle Indicazioni. Le parti a monte, invece, l’“Organizzazione del curricolo” e la “Premessa culturale disciplinare” possono attenere alle linee generali, ma, così come sono formulate, hanno suscitato forti e giustificate riserve. Il documento e la coordinatrice rivendicano di aver lavorato salvaguardando le peculiarità e gli intrecci fra impostazioni disciplinari e psicopedagogiche, ma è proprio su questo terreno che il testo si pone in rotta di collisione con le elaborazioni e le istanze che governano attualmente la scuola, nonché con la storia della scuola pubblica e le linee di indirizzo su cui si è mossa nel dopoguerra. Non deve stupire, quindi, che abbiano suscitato forti e diffuse contrarietà.
La terza parte, denominata “Traiettorie per l’innovazione”, contiene tutte le sezioni estranee al mandato che la Commissione dovrebbe aver ricevuto per legge: metodologie, esempi, fino a concludersi con i “Suggerimenti di possibili ibridazioni tecnologiche”. Tali “suggerimenti” suscitano qualche fondato allarme.
Quelli che potevano essere degli stimolanti orizzonti di senso conclusivi, anche interdisciplinari, rischiano, invece, di essere allineati, fin dal titolo, con le connotazioni e gli impieghi purtroppo diffusi e operanti del termine “innovazione” e delle sue applicazioni, che sono fortemente condizionate dalle fonti erogatrici proprietarie e orientate spesso a visioni e pratiche produttivistiche e adattive. Ciò proprio mentre si apre invece la necessità di elaborare un solido e difficile percorso di salvaguardia dell’autonomia e dell’emancipazione cognitiva, linguistica e conoscitiva degli allievi, a fronte dell’ingresso e dell’utilizzo delle tecnologie digitali, attualmente gestito in modo tutt’altro che rassicurante.
Tali suggerimenti si possono ignorare, è detto, ma allora perché inserirli, al di là della volontà di apparire capaci e stimolatori di una presunta modernità? Viene il sospetto che siano lì proprio per avallare la presenza e l’invasività di quelle imprese e agenzie private cui la scuola sta già improvvidamente appaltando l’ingresso e l’uso delle tecnologie in contesti di apprendimento, anche perché impreparata ad agire diversamente e in modo più coerente con i propri fini. Anche in questo caso la presenza in questa sede è inopportuna, mentre sarebbero da avviare seri programmi di formazione e sperimentazione, possibilmente con piattaforme, ambienti e canoni a controllo pubblico e non finalizzati al profitto o all’addestramento.
Nella tua disciplina o nell’area di tuo interesse, cosa ti colpisce maggiormente?
Espongo alcune considerazioni su finalità e principi ispiratori (e in parte obiettivi) e tralascio gli eccessi compilativi di contenuti e i “suggerimenti” metodologici per le cose fin qui dette. In questa prospettiva, le indicazioni di italiano mantengono la promessa di attestarsi su posizioni opposte a quelle dell’educazione linguistica democratica, e infatti esprimono una visione della lingua elitaria, regolativa, rigida, intesa non come strumento libero per vivere la cittadinanza, ma come pratica obbligatoria per meritarla. Il problema non è solo quale o se più o meno grammatica, ma è il diritto all’istruzione, che palesemente qui non viene garantito, ma va conquistato – imparando la grammatica.
Gli alunni di origine straniera devono comunque acquisire la conoscenza della lingua italiana: è assolutamente evidente che l’integrazione passa in primo luogo dal poter parlare italiano, e dal piacere di farlo.
A questo livello, il “programma” di italiano sembra non voler essere da meno di quello di storia, per via di quell’incipit sulla supremazia (quasi il suprematismo) occidentale, che ha suscitato tante legittime rimostranze, epistemologiche e valoriali. Infatti, afferma: «Scopo primario della scuola è insegnare a leggere, a comprendere, e a scrivere in modo corretto». E vedremo in chiusura che, sul piano dei principi fondativi, c’è anche di peggio.
Anche l’eccessiva meticolosità nella compilazione degli “obiettivi specifici”, oltre a essere fuori luogo, ha una certa pericolosità. Non solo perché conferma il taglio nozionistico e normativo dell’impianto complessivo, ma perché la valutazione periodica e finale si è andata (forse un po’ troppo) concentrando sull’uso degli obiettivi specifici, e va quindi assolutamente evitato di porre in elenco, nelle Indicazioni, obiettivi eccessivamente micragnosi e restrittivi. A maggior ragione visto che il capitolo sulla valutazione si sforza di far riferimento alla necessità di valorizzare una «cultura della valutazione», che si configura come un processo sistematico e in continuo divenire.
In questa atmosfera non certo improntata a una concezione flessibile, diacronica, cooperativa della lingua, si disperdono e vanificano anche orientamenti interessanti, come l’invito a considerare l’educazione linguistica come «compito dei docenti di tutte le discipline», per altro punto cardinale delle tanto esecrate Dieci Tesi e disatteso principio, presente fin dai Nuovi Programmi del 1979 dell’allora scuola media; oppure che «lo scopo dell’insegnamento della letteratura, nel primo ciclo scolastico, è fare in modo che gli studenti prendano gusto alla lettura»; o una certa attenzione ai testi a scapito delle categorie storico-letterarie e della compilazione degli autori, anche se poi qualche classico inevitabilmente occhieggia. Ma soprattutto la “Letteratura”, che nell’organizzazione concettuale della disciplina sembra sdoppiare il programma di italiano, rischia di sottrarsi alla necessità di essere intesa, almeno nella scuola di base, come ambito strettamente correlato alla all’educazione linguistica e non come ambiente separato seppur complementare (con “Lingua”).
L’impressione complessiva che si ricava è che se gli esperti della disciplina in prospettiva didattica che li hanno elaborati avessero lavorato senza pressioni politiche distorsive, esterne o interiori, le Indicazioni sarebbero state, magari un po’ anacronistiche, ma più coerenti e passibili di confronto. Si finisce invece col pensare che la vera differenza con la linguistica democratica sia proprio nel loro intento discriminatorio e verrebbe da dire quasi classista.
Un’impressione che viene ovviamente confermata e sorretta dalla reintroduzione del latino a più di sessant’anni dalla sua cosiddetta abolizione. Si tratta infatti di un vero e proprio vulnus alla funzione emancipante della scuola pubblica e alla stessa identità unitaria dell’obbligo scolastico. È una scelta che nuovamente trasforma i tratti di ricchezza e le potenzialità educative della lingua e della cultura classica in strumento selettivo e discriminatorio, come purtroppo sono state a lungo intese e praticate, e da cui dovrebbero essersi riscattate da tempo. Si può opportunamente pensare di valorizzare l’impiego operativo dell’etimologia o della formazione e della struttura morfologica delle parole, dei fenomeni e delle relazioni semantiche, dove talvolta entra anche l’origine e l’evoluzione delle lingue (tutte quelle con cui la nostra è stata in contatto), ma pensare di proporre di arrivare alle seconda declinazione nella scuola secondaria di I grado per migliorare le competenze linguistiche o addirittura come strumento per combattere la dispersione non è solo contrario alla prospettiva democratica dell’insegnamento linguistico, ma anche alla realtà delle classi e al buon senso.
Le stesse distorsioni di natura politica e ideologica sono evidenti nel programma di storia, che è stato per questo giustamente contestato da più parti. Così com’è stata osservata la dissonanza tra il programma di storia e quello di geografia, che finiscono con l’essere l’accoppiata più contraddittoria e attorno a questioni invece assai delicate e rilevanti.
Se valgono ancora l’idea e la norma che le Indicazioni nazionali sono un documento che le singole scuole devono rapportate alla realtà in cui operano, le scuole sarebbero in grave difficoltà ad agire, poiché una quantità consistente delle cose scritte in questo testo è semplicemente inapplicabile o apparirebbe totalmente in conflitto con le realtà esistenti. E le scuole che volessero provare a tradurle in curricolo di istituto, andrebbero incontro a seri problemi e fallimenti educativi.
Visto che sono aperte le consultazioni, quali sarebbero i tuoi suggerimenti?
Parlare di consultazioni è improprio. Diciamo che sono in atto alcune procedure di democrazia apparente, che sono culminate in un questionario per le scuole, dove per ciascuna disciplina sono previste tre risposte chiuse, tutte e tre positive. Giustamente si sta diffondendo il rifiuto di compilarlo. Anche perché, su un simile argomento, i collegi docenti dovrebbero essere chiamati a esprimersi con una ragionata delibera e non con un questionario di gradimento.
La cosa è tanto più grave poiché ci troviamo di fronte a un problema istituzionale e professionale assai complesso.
Facciamo un esempio concreto che riprende e integra le cose dette fin qui. Dove si parla del patrimonio di culture ed esperienze è scritto:
La scuola ha il compito di valorizzare questo patrimonio, trasmettendo nelle forme riconosciute come legittime dalla comunità colta, comunicando il valore e il significato dello strumento linguistico e la necessità della correttezza, richiesta dalla sua stessa funzione sociale, pur in un mondo caratterizzato dalla pluralità linguistica e dall’uso strumentale dell’inglese internazionale.
Siamo ai confini del classismo linguistico e di fronte a una quanto meno originale concezione dei principi e delle implicazioni educative della sociolinguistica, nonché della cultura democratica. Chi ha insegnato e insegna tuttora nell’ottica, quasi nell’imperativo costituzionale (art. 3), di provare a «dare a tutti tutti gli usi della lingua» (De Mauro e Rodari, 1975) non avrebbe potuto e non potrà mai insegnare secondo la prospettiva riportata qui sopra. C’è nelle nostre scuole una quantità enorme di insegnanti che, in scienza e coscienza, si troverebbero in questa condizione, soprattutto fra quanti operano (e sono i più) dove non pullulano i rampolli della sedicente classe colta. E questo è un problema grave e di non facile soluzione.
Lo Stato, nella fattispecie del governo di turno, e con uno strumento quale le Indicazioni, non glielo può imporre, salvo scivolare gradualmente verso la pedagogia di Stato o, peggio, di regime. Perché la scuola pubblica appartiene alla Repubblica e non alla maggioranza che vince le elezioni, che non ne può disporre a suo piacimento. Si ha la sensazione, invece, che, a differenza di quanto è sempre avvenuto in passato, questo limite o non sia stato spiegato o sia stato ignorato durante i lavori della Commissione.
Per questo ritengo che l’unica strada oggi praticabile sia una risposta netta e chiara di rifiuto e di restituzione, simbolica e fattuale, del testo al ministero, perché non risponde ai criteri essenziali di rispetto delle norme e di almeno generalizzata condivisione. E quindi vada ritirato.
Per altro, non rispondere al questionario e rimandare le Indicazioni al mittente, motivando la propria non disponibilità ad assecondare “queste” Indicazioni non significa compiere un atto di insubordinazione o sottrarsi a un dovere professionale: è invece il legittimo esercizio della autonomia delle scuole e della libertà d’insegnamento, che scuole, dirigenti e singoli docenti dovrebbero veder garantite e protette. E spetta ai loro sindacati, alle associazioni e ai partiti di opposizione (perché è stato il governo, politicizzando troppo il testo, a farla diventare una questione politica) accompagnarli e metterli nelle condizioni di esercitarle (come previsto dalla Costituzione, della legge sull’autonomia e del sempre essenziale DL 297/1994).
Non è una situazione semplice. Siamo di fronte a un momento molto delicato della storia della scuola pubblica, che per certi versi rivela una profonda anomalia, che molti sembrano non cogliere nella sua gravità. In passato, scelte importanti per la scuola, così come i Programmi prima e le Indicazioni poi, sono stati il frutto dell’incontro e della convergenza fra forze politiche e culturali anche diverse, che hanno però trovato finalità e prospettive condivise. Ora, leggendo queste “Indicazioni”, si ha la netta sensazione che, fra le forze e le idee attualmente poste in campo da questa maggioranza di governo e quelle presenti in modo massiccio nel sistema scolastico, questa procedura non sia più possibile. La distanza è incolmabile, un punto di sintesi assai improbabile: rischierebbe di essere un ircocervo privo di senso. Lo testimoniano le molte analisi critiche di commento al testo, che costituiscono ormai una bibliografia ampia, che spazia dalle questioni più generali di paradigma culturale e di visione strategica, alle implicazioni relative alle singole discipline o a specifici nodi problematici. Quegli interventi non rilevano solo differenze su cui cercare soluzioni compatibili, ma denunciano un ribaltamento complessivo, lacerazioni incolmabili, contraddizioni profonde con la storia della scuola pubblica italiana e la coscienza professionale di molti. Il tempo della stesura di indicazioni condivise fra forze politiche diverse, alle condizioni attuali, sembra che sia finito o almeno temporaneamente non praticabile.
L’unica soluzione, istituzionalmente percorribile, è ricondurre le Indicazioni agli ambiti di esercizio del potere dello stato e del governo, cioè ai confini attualmente stabiliti dalle norme vigenti, definendoli in modo possibilmente più condiviso, e lasciare tutto il resto alla crescita del confronto culturale e sociale, a una autonomia scolastica finalmente capace di pensiero, di ricerca e di sperimentazione e alla libertà e responsabilità professionale dei docenti e dei dirigenti scolastici.