Una breve, doppia, premessa a queste poche considerazioni sulle nuove indicazioni di Storia. La prima è che non sono docente né nella primaria né nella secondaria di primo grado, ordini ai quali questa bozza si riferisce. Pertanto, più che entrare nel merito dei contenuti, ho preferito riflettere sulle premesse e le finalità dell’insegnamento della Storia, ritenendo di poterlo (forse doverlo?) fare, da storico, autore di pubblicazioni scientifiche e manuali scolastici, docente nei Licei e – perché no? – soprattutto da cittadino. La seconda è che, accingendomi a scrivere queste note (che propongo in forma schematica, di elenco), mi sono astenuto dal leggere quello nei giorni scorsi è stato pubblicato da firme assai più autorevoli della mia: mi scuso dunque se qualcuna delle mie osservazioni già è stata fatta da altri, risultando così noiosamente ripetitiva. Pertanto – citando quell’Alessandro Manzoni che di «storia» e «invenzione» (e poi si capirà meglio perché citi questi due concetti) se ne intendeva davvero – se «fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta». Anche se, noia dei lettori a parte, non mi dispiacerebbe che quelle che si leggeranno qui sotto fossero perplessità largamente condivise.
Prima nota: a mio avviso inopportuna l’enfasi iniziale sulla tradizione occidentale come unica capace davvero di “fare storia” e produrre soluzioni – per così dire positive – per l’esistenza umana. Ciò soprattutto in vista dell’alta percentuale di studentesse e studenti che, nei primi cicli scolastici degli anni a venire, saranno di origine straniera o comunque portatori (anche) di una cultura diversa. Inoltre, davvero un po’ troppo verbosa la storia dell’umanità “in pillole” fatta alle pp. 68-69, con citazioni sparse di metodo storiografico che alludono a Erodoto, Tucidide, Tito Livio, Tacito, Machiavelli, Condorcet, Croce, Gentile, Gramsci etc. Questa sezione contiene – tra l’altro – un’idea per certi versi discutibile: infatti se lo scettico Montale scrivendo che «la storia non è magistra / di niente che ci riguardi» senza dubbio esagerava, suggerire che dalla storia – per di più insegnata a bambini e ragazzi – possiamo/dobbiamo desumere la «consapevolezza del bene e del male», non è forse un po’ troppo? Insomma, cominciare con la lode dell’Occidente e finire, ad effetto, con l’esplicitazione dell’idea di bene e male è davvero il modo giusto di costruire una premessa metodologica alla didattica della storia?
Seconda nota: dispiace che per dare corpo a questa tesi identitaria di primato dell’Occidente (perlomeno metodologico, lasciamo perdere la dimensione etica), e a cascata della centralità della storia nazionale, si citi in modo del tutto decontestualizzato una frase di Marc Bloch, da Apologia della storia. Non dico che non l’abbia scritta (la conosco benissimo e la cito spesso anch’io perché ho una venerazione per lo storico e l’uomo: ho qui sulla mia scrivania proprio la rinnovata edizione dell’Apologia pubblicata nel 2024 da Feltrinelli) ma enunciata così, al di fuori – ripeto – del contesto di riferimento è davvero fuorviante. March Bloch, tra l’altro, venne fucilato dalla Gestapo, e cioè dagli esponenti di un regime – quello nazista – che dell’esasperazione del primato identitario aveva fatto la propria parola d’ordine. Ma non è questo il punto vero. È che l’idea di mondo (e finanche della sua “storia”) degli anni Quaranta del Novecento non può essere quella attuale, neppure per quanto riguarda la rilettura del nostro passato: è lo stesso March Bloch, ad esempio, a denunciare dubbiosamente alcune sue incomplete conoscenze, e qui cito alla lettera la sua Apologia: «Nelle storiografie da cui abbiamo ereditato (dell’estremo Oriente non saprei dire) la storia era prima di tutto una cronaca di capi». Sicuri che lo storico di oggi – in un mondo globalizzato e fornito di IA – potrebbe permettersi una frase del genere?
Terza nota: comprendo bene la difficoltà di far leggere e interpretare le fonti a bambini o ragazzi privi delle competenze necessarie. Però l’idea che il mancato perseguimento di questo obiettivo (definito «irrealistico») possa essere compensato da un approccio «narrativo», quasi emozionale, è forse un po’ eccessiva. Intendiamoci: è pure possibile, addirittura utile, raccontare le vicende di Muzio Scevola o Menenio Agrippa (proprio questi esempi compaiono nella bozza ministeriale), ma se fare storia significa «narrare», allora – in virtù della difficoltà nell’interpretare le fonti di cui già si è detto – perché allora non inventare qualcosa, oppure cercare selettivamente solo quello che ci appaga? Il rischio non mi pare di poco conto. E perché poi i giovanissimi non si potrebbero emozionare osservando – faccio solo qualche esempio – antiche statue, immagini di scavi archeologici, cimeli o lapidi commemorative? Proprio così «irrealistico» provarci? Oppure la leggenda, l’aneddoto, la narrazione rappresentano una facile scorciatoia per arrivare prima a quella esplicitazione dell’idea di bene e male cui già prima si accennava? Che ci fossero rischi di questo tipo già lo aveva spiegato proprio Manzoni, già da me prima citato; infatti, quando nella Lettera al Fauriel afferma che il romanziere può «profittare della storia» ma «senza farle concorrenza» ci ricorda come il narratore e lo storico debbano avere approcci diversi, dal punto di vista metodologico, nella descrizione di fatti e personaggi.
Quarta nota: non vedo, nel complesso, grosse novità nelle indicazioni specifiche dei contenuti disciplinari. Ma confesso – e già l’ho anticipato – di non essere troppo esperto di questi ordini di scuola, e dunque non entro nel merito, neppure sul diverso rapporto tra storia e geografia. Eppure mi viene il sospetto: non è che l’interesse fosse soprattutto, al di là dei contenuti, quello di dare un indirizzo metodologico-ideologico ai docenti?
Mauro Reali