Facciamo un passo indietro: siamo nel 2001, esordio del secondo governo Berlusconi. Letizia Moratti – ministro dell’Istruzione (non più Pubblica) – annuncia la volontà di intervenire sugli ordinamenti scolastici, decurtando di un anno il percorso della scuola superiore. A dicembre di quell’anno gli Stati Generali – celebrati in pompa magna a Roma, nel quartiere Eur, con uno spiegamento di forze degno di un G8 e con l’esplicita volontà di far intervenire solo chi era ben accetto ai “piani alti” – dimostrarono che la proposta era impraticabile. L’allora alleato Gianfranco Fini, vicepresidente della Camera, espresse in quella sede e altrove la sua ferma avversione. Moratti dovette tornare allora a più miti consigli; e non trovò di meglio da fare che tentare la carta opposta: quella del decurtamento della prima fase del percorso di istruzione. Dopo lunghe e penose discussioni, si pervenne a quell’ibrido che è ed è stato l’anticipo scolastico. La possibilità, cioè, di iscrivere anticipatamente alla scuola dell’infanzia e alla scuola primaria (fu Moratti stessa a sostituire con queste le precedenti denominazioni scuola materna ed elementare) i nati entro il mese di aprile.
Collaboravo allora con l’”Unità”; era ancora lontana quella crisi economica che ci ha fatto meglio avvertire come e quanto la maggior parte degli interventi sulla scuola fossero già a quei tempi dettati da necessità di cassa e, sin da quei giorni, dalla prospettiva di quella “crescita senza progresso”, prevista da Pasolini e concretizzata nel Pensiero Unico neo liberista, che ha escluso l’apprendimento disinteressato dagli obiettivi auspicabili del nostro Paese. La cosa mi sembrò sconcertante da più punti vista: innanzitutto per l’interscambiabilità delle opzioni, nessuna delle quali teneva in alcuna considerazioni ovvie e banali valutazioni di ordine pedagogico. Poi per la mediatica capacità della Lady di ferro della “scuola delle 3i” (ricordate?) di solleticare il precocismo dell’italo genitore, convinto di custodire un pargolo geniale, destinato a magnifiche sorti socio-professionali, da favorire con l’entrata anticipata in prima elementare. Infine l’iniquità del provvedimento, che si collocava – allora, seguito da tanti altri, poi – come atto istituzionalizzato di discriminazione sociale e culturale nel percorso formativo. In una cornice in cui la scuola materna continuava a non essere, come non è, obbligatoria. (Sia detto tra parentesi, a proposito di Europa: uno degli obiettivi dei UE2020 è la generalizzazione della scuola dell’infanzia.) Le zone più periferiche del territorio non hanno istituti, le grandi periferie urbane hanno scuole materne con liste di attesa smisurate. La differenza tra un bambino che abbia frequentato tre anni di scuola statale dell’infanzia e uno che non abbia avuto questa opportunità è apprezzabile; non tanto in termini di apprendimento di alcune capacità (saper leggere, saper scrivere), quanto in termini di abilità sociali: capacità di socializzare con gli altri, di rispettare le regole, di afferrare il senso della comunità scolastica e tutto ciò che l’esserne parte comporta. La scuola dell’infanzia pubblica, sempre più, è stata in grado di offrire strumenti e sollecitazioni fondamentali. E invece il monopolio, in questo segmento dell’istruzione nazionale, delle scuole paritarie cattoliche allarga la forbice delle discriminazioni e la lontananza dai principi di laicità e di uguaglianza.
Prevedere la possibilità dell’iscrizione anticipata significò individuare una fascia di utenza collocata nelle aree ricche, dove l’incremento demografico è basso. Senza fare nulla per aiutare coloro che vivono in aree più popolari e/o più disagiate. Insomma, la divaricazione dei percorsi – che credevamo e crediamo, nel progetto del Governo di allora e dei governi che si sono succeduti, cominciare a 13 anni, con la scelta tra istruzione e formazione professionale – iniziò da quel momento molto prima, fornendo ad alcuni la possibilità di accedere precocemente alla scuola, negandola definitivamente ad altri. Si costituì così una popolazione scolastica estremamente differenziata, con la presenza contemporanea di bambini dai due anni e mezzo ai quasi sei alla materna, dai cinque e mezzo ai quasi sette in prima elementare i cui ritmi di apprendimento, sviluppo di abilità sociali, maturità pareva costituissero un problema privo di rilevanza. Il progetto andava a cadere in un programma ben più ampio, desolatamente mirato a colpire i due primi ordinamenti scolastici, sui quali la Moratti si accanì particolarmente. Ricordiamo la solitudine in cui la scuola primaria e la scuola dell’infanzia si trovarono ad affrontare (nel totale miope disinteresse dei docenti medi) l’attacco.
La rivoluzione silenziosa inaugurata da Moratti (e continuata sostanzialmente da Fioroni, Gelmini, Profumo, Carrozza e Giannini), prevedeva la partecipazione delle famiglie. In quel progetto, nelle riunioni per il portfolio (sic!) dei figli, i genitori sarebbero stati chiamati ad individuare insieme all’insegnante le propensioni e, di conseguenza, i percorsi più adatti al bambino: esperienze, predilezioni, modo di essere. In una visione limpidamente classista quale quella proposta dal modello manageriale e individualista morattiano avrebbero avuto buon gioco le professioni dei genitori, le sollecitazioni ricevute in famiglia. E le famiglie dei più deboli? E gli extracomunitari? E l’idea di affidare i bambini alla scuola pubblica, dove le differenze sociali trovavano il luogo dell’annullamento?
La rivoluzione silenziosa di Moratti prevedeva un insegnante tutor: dalle 18 alle 23 ore curriculari, che significava soppressione di ogni criterio di collegialità, pluralismo, confronto. E disprezzo totale della professionalità e delle specializzazioni nelle aree disciplinari che le insegnanti del ciclo elementare si erano create in anni di formazione. Ma insegnante tutor significava, innanzitutto, risparmio, contrazione. E inserimento anche nel mondo scolastico di un carrierismo mortificante. La rivoluzione silenziosa inseriva quattro ore tra inglese e informatica all’interno di un orario curriculare di 27 ore obbligatorie. Il numero delle ore è invariato, le discipline aumentano. Unica certezza: la stabilità e inamovibilità delle ore dell’Insegnamento della Religione Cattolica. La rivoluzione silenziosa aboliva il tempo pieno come progetto didattico e pedagogico, sostituendolo con un dopo scuola che prevedeva tre ore opzionali decise dalle famiglie e ben dieci ore di mensa. È stato compito delle scuole – in particolare dopo la “riforma” Gelmini – attrezzarsi (chi ha potuto/saputo/voluto farlo con le risorse interne) per rispondere alle richieste e alle esigenze delle famiglie in quella direzione. Questo ed altro entrò in gioco dal 2003 – anno della legge delega 53, la “riforma” Moratti – che tentò di mettere a sistema tutto ciò:l’indebolimento intenzionale della scuola primaria e della scuola dell’infanzia, le punte d’eccellenza della scuola italiana. Che hanno continuato a funzionare grazie ad energia, passione, impegno, competenza e irrinunciabile senso della collegialità di molti che ci lavorano. E nonostante l’ostruzionismo di sforbiciate dissennate al bilancio, e di provvedimenti che, con i ritmi e i tempi distesi dell’apprendimento dei bambini, con l’idea di crescita e progresso che potessero continuare a camminare in parallelo, con investimento economico e soprattutto culturale, non avevano veramente nulla a che fare.
L’anticipo scolastico, che si collocava nelle intenzioni di Moratti come primo passo verso la contrazione di un anno a cavallo tra scuola dell’infanzia e primaria, si bloccò nell’ibrido attuale, lasciando la questione in mezzo ad un guado irrisolto (ed iniquo, fallimentare, controproducente). Periodicamente, dopo la questione viene riproposta – e con maggior accanimento dal 2008 in poi, perché la crisi ha reso preminente, anche se non esplicita, la limpida evidenza che il taglio di un anno di scolarità corrisponde più o meno 50 mila posti di lavoro, pari ad un risparmio di circa 1380 milioni di euro – alternando la proposta dell’anticipo a 5 anni alla scuola primaria con quella, altrettanto gettonata, della diminuzione di un anno della scuola secondaria di secondo grado: la dubbia equipollenza delle due operazioni è stata risolta assumendo la logica del ministero dell’Economia. Ça va sans dire.
In questi giorni tocca alla primaria. Giannini, che nei primissimi giorni dal suo insediamento si sperticò a lodare le illegittime sperimentazioni in corso del taglio di un anno alle superiori, e a rivendicare la necessità di quella operazione benedetta dal (presunto) diktat dell’Europa, oggi dichiara altro: «lo strumento migliore non è una scuola superiore di soli quattro anni ma la possibilità di mandare i figli a scuola un anno prima come accade già in altri paesi». E simili amenità, sempre percorrendo l’immancabile e glorioso sentiero esterofilo. Non una parola nel merito scientifico (e non economico) di questa possibilità.
A tanti, invece, la questione interessa – e non poco – proprio da quel punto di vista. Ed è per questo che ho posto alcune domande ad Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale presso l’Università di Bologna, pedagogista, educatore, filosofo e storico attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etica-politica. Goussot fa parte del comitato scientifico dell’associazione “Giù le mani dai bambini”, della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPES), ed è membro onorario dell’Associazione dei Pedagogisti Italiani.
La questione dell’anticipo scolastico – evidentemente – nel nostro Paese prescinde da qualsiasi valutazione di carattere pedagogico; prova ne sia il fatto che si alternano periodicamente la proposta di tagliare un anno alle superiori e quella dell’anticipo dell’accesso alla primaria. Lei cosa ne pensa?
La proposta di anticipare di un anno l’ingresso del bambino alla scuola primaria è un errore sia sul piano pedagogico che psicologico. All’età di cinque anni (per qualcuno potrebbe essere quattro anni e mezzo a seconda del mese di nascita) un bambino ha soprattutto bisogno di giocare, di sentire che può sviluppare in modo sereno il proprio potenziale di vita, ha bisogno di sentirsi amato e che ha il tempo di scoprire se stesso e il mondo che lo circonda (senza essere stressato dall’ansia di dovere raggiungere degli obiettivi previsti dal programma scolastico). La nostra Maria Montessori era molto severa sullo stress che rappresentava la scuola primaria per i bambini di 6 anni e per la pretesa scolastica e degli insegnanti di ‘immobilizzare’ l’energia vitale del fanciullo; a quell’età il bambino ha bisogno di muoversi, di poterlo fare esprimendo il proprio slancio vitale nella scoperta del mondo. L’apprendimento passa prima di tutto dall’attività motoria che è alla base (come ci hanno dimostrato Henri Wallon e, prima di lui, Rousseau) della costruzione dei meccanismi regolatori delle emozioni ; l’azione del bambino (il movimento, la gestualità, le percezioni, il coordinamento degli atti ecc…) sono alla base della costruzione del processo cognitivo. Poi il gioco, tramite il quale il bambino impara a sublimare (vedi Françoise Dolto), e l’apprendimento nell’attività ludica e pratica delle relazioni sociali lo preparano ad acquisire quelle tecniche di adattamento che attiverà nelle fasi successive del suo sviluppo. Tutta la psicologia dell’età evolutiva e la pedagogia dello sviluppo ci insegnano che il bambino ha bisogno di tempo; un tempo che è anche interiore e intrapsichico, per acquisire il senso del proprio Sé e per sviluppare le proprie facoltà di osservazione, associazione ed espressione. Faccio notare che era già Jean Jacques Rousseau che osservava come la cosa più importante per un educatore fosse quella di sapere perdere tempo: il tempo della vita e della crescita neurologica, psicologica, fisiologica e relazionale. Non so chi abbia consigliato il ministro ma rimango stupito; forse una certa cultura della performance e anche dello sviluppo delle competenze lette in termini precoci? Comunque sono tante le ricerche e gli studi che ci dicono che l’infanzia rischia di sparire in quanto processo primario dello sviluppo umano. Con questa proposta si va esattamente in quella direzione (vedi Neill Postman o B. Stiegler). L’infanzia è anche il luogo dell’affettività e la possibilità di vivere una relazione positiva e sicura, non di sentirsi giudicato e etichettato continuamente e di trovarsi sotto la pressione dello sguardo indagatore dell’adulto esperto (che sia maestro o altro). Personalmente sarei per fare il contrario: fare in modo che il bambino che compie 6 anni in dicembre rimanga alla scuola dell’infanzia; se ‘perde’ 6 mesi di scuola primaria non succede niente, recupera dopo questo tempo in termini di sicurezza affettiva e di strutturazione del proprio senso di sicurezza e di sviluppo di un linguaggio intrapsichico che li servirà ad affrontare le fasi e le transizioni successive.
In questi giorni Giannini, con un improvviso dietro front, sembra caldeggiare l’entrata anticipata alla primaria. Esistono e – se esistono – quali sono, controindicazioni a questa eventualità?
Per quanto riguarda l’allungamento di un anno della primaria lo si potrebbe concepire in senso inverso: allungare il tempo di permanenza nella primaria di un anno. Vi sono paesi europei dove s’inizia a 6 anni e si fanno 6 anni di primaria. La questione che non viene affrontata è quella della formazione e della preparazione pedagogica degli insegnanti e quello della relazione con i genitori e le famiglie. Penso che vi sono aspetti molto più importanti che quello di pensare ad anticipare di un anno l’ingresso alla primaria: 1) la preparazione pedagogica e l’aggiornamento del corpo docente della primaria in servizio; 2) un maggiore coinvolgimento della famiglia e dei genitori nella costruzione del progetto pedagogico, e lo sviluppo di una vera strategia co-educativa che veda la partecipazione degli insegnanti, dei genitori e degli attori della comunità; 3) una maggiore attenzione sul contenuto diseducativo e pedagogicamente problematico di numerosi programmi televisivi (una cosa che aveva a sua tempo fatto notare il maestro Mario Lodi); 4) l’assenza diffusa di luoghi di esperienza positiva per i bambini e le loro famiglie, spazi di gioco e opportunità e occasioni di socialità vera (e non virtuale come accade oggi); 5) una più grande attenzione per i rischi di trasformazione dei bambini in piccoli consumatori dipendenti da giochi virtuali e da nuovi ‘poteri ascendenti’, in grado di funzionare come quelli che l’educatore francese Célestin Freinet chiamava ‘giochi-droga’. Questo tipo di dipendenza, che spesso sostituisce la relazione vera, il gioco autentico (un bambino ha anche bisogno di giocare non solo con gli altri ma anche da solo, per sviluppare tramite la fantasia e l’immaginazione i segni dell’organizzazione di senso di quello che prova), tutto ciò finisce per uccidere la curiosità del bambino e per metterlo in una situazione di eccitazione, di stress e di ansia permanente. Se a questo aggiungiamo l’anticipo dell’ingresso alla scuola primaria temo che possa diventare un carico insopportabile e distruttivo per la salute mentale, emozionale dei nostri bambini.
Che cosa rappresenta/può rappresentare, secondo lei, un anno in più di scuola dal punto di vista individuale e collettivo?
Per la collettività significa doversi ritrovare con bambini che non abbiano avuto il tempo e lo spazio necessario per maturare e crescere in modo equilibrato nella gestione dei rapporti tra emozioni, sentimenti e apprendimenti. Personalmente mi auguro che gli operatori dell’educazione e i pedagogisti sappiano reagire a questa deriva produttivistica che vuole dei bambini sempre più ‘competenti’ e performanti, mentre abbiamo bisogno di bambini felici, che si sentono amati, ascoltati e compresi. Abbiamo anche bisogno di genitori e educatori che sappiano accompagnarli nel loro viaggio verso la vita per diventare dei cittadini e delle cittadine liberi e responsabili, autonomi e in grado di pensare con la propria testa. Era Maria Montessori che diceva, in un libro intitolato “Educare per un mondo nuovo”, che la cura e il rispetto dell’infanzia mettono le basi per la formazione di personalità aperte, pacifiche, tolleranti e che si sentono bene nella propria pelle. Ecco, è su questi aspetti che ci si dovrebbe concentrare se vogliamo custodire la bellezza e la poesia dell’infanzia ,cioè la bellezza e l’umanità della nostra società per il futuro.
Sogno un mondo in cui queste parole vengano lette non come divagazioni intellettualistiche o romantiche, economicamente improduttive, non come principi antichi e obsoleti, né come idealità impraticabili e inconiugabili con la “modernità”, ma come i capisaldi irrinunciabili per fare dell’uomo un uomo attraverso la scuola.