Non solo Antropocene

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«Il caso è chiuso», almeno secondo Philip Gibbard, geologo all’Università di Cambridge e segretario generale dell’International Commission on Stratigraphy, e sta parlando della bocciatura ricevuta dall’Antropocene. Infatti, dopo circa 15 anni di studi e discussioni, una commissione di geologi ha decretato che l’epoca in cui viviamo è ancora l’Olocene, ma il dibattito scientifico e terminologico è più aperto che mai.

 

E quindi l’Antropocene non c’è più? In realtà l’epoca geologica in cui stiamo vivendo, comunque la si voglia chiamare, è caratterizzata dall’ampio – e forse irreversibile – impatto umano su tutti gli ecosistemi terrestri. Eppure, il 5 marzo 2024, l’Unione internazionale di scienze geologiche (IUGS) ha bocciato il lavoro dell’Anthropocene Working Group che da anni raccoglieva prove per aggiungere un nuovo nome all’elenco delle epoche.

Facciamo però un passo indietro. Il termine “antropocene” è stato coniato originariamente dal biologo statunitense Eugene F. Stoermer negli anni Ottanta del secolo scorso, ma ha guadagnato popolarità a partire dal 2000 grazie al premio Nobel per la chimica Paul Crutzen e al suo libro Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era (Mondadori, 2005). Da allora è diventato oggetto di studio e di riflessione in vari campi scientifici, come la geologia, l’ecologia, le scienze ambientali e sociali. L’adozione formale del termine come una nuova epoca geologica è stata però a lungo dibattuta all’interno della comunità scientifica, almeno fino a qualche settimana fa, quando la sua bocciatura ha fatto un certo rumore.

Infatti, i requisiti per aggiungere nuove epoche alla scala geocronologica sono molto stringenti: per esempio, serve una data d’inizio certa per separare l’Antropocene dal periodo attuale, ovvero l’Olocene, che dura da circa 11.700 anni. Ma anche le proposte di quale evento si debba scegliere come inizio della nuova epoca erano varie: una possibile data era il 16 luglio 1945, quando nel deserto del New Mexico è avvenuto il Trinity test, cioè l’esplosione della prima bomba atomica (raccontata anche dal pluripremiato film Oppenheimer). Ecco perché il gruppo di lavoro sull’Antropocene si era concentrato sulla proposta di utilizzare come inizio della nuova epoca un forte aumento delle tracce di plutonio trovate nei sedimenti di un piccolo lago in Canada; la scelta però ha suscitato parecchie controversie e alcuni membri della commissione giudicatrice si sono rifiutati di votare. Il rifiuto era giustificato dal fatto che molti geologi ritengono una durata di solo sette decenni troppo breve per rappresentare adeguatamente il cambiamento planetario causato dalle attività umane, fossero anche gli isotopi del plutonio liberati dalle esplosioni nucleari.

Tuttavia, altri esponenti della comunità scientifica erano (e sono ancora) favorevoli a riconoscere l’Antropocene come una nuova epoca geologica poiché rappresenta un cambiamento significativo rispetto all’Olocene, durante il quale la Terra ha mostrato una stabilità che ha permesso anche alla civiltà umana di prosperare. E c’è l’imbarazzo della scelta fra le tracce delle attività umane che potrebbero testimoniarlo: non solo le ricadute dei test nucleari, ma anche la pervasività delle microplastiche, la perdita di biodiversità o la crisi climatica in atto.

Insomma, il caso non sembra affatto chiuso. E, al netto delle dispute geologiche, il termine Antropocene è ormai entrato a far parte del nostro discorso quotidiano, arrivando anche sui mezzi di comunicazione più mainstream. L’idea che l’influenza umana sul pianeta sia così significativa da alterare i suoi sistemi naturali su scala globale è largamente accettata (fatte salve alcune sacche di negazionismo); eppure, anche dove c’è accordo sul concetto fondamentale c’è chi dissente sul termine in sé. E non mancano proposte alternative per enfatizzare ora alcuni aspetti ora altri.

Per esempio, lo storico Jason W. Moore critica l’idea di Antropocene e usa il termine “Capitalocene” – coniato dall’ecologo svedese Andreas Malm – per descrivere la nostra epoca, enfatizzando il ruolo specifico del capitalismo nell’impatto umano sull’ambiente, come spiega nel libro Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (ombre corte, 2017). Secondo Moore, l’attuale crisi ambientale non è semplicemente causata dall’umanità in generale, ma piuttosto dalle dinamiche economiche e sociali del capitalismo. La sua teoria si concentra sul ruolo del sistema capitalista nel promuovere la crescita economica illimitata, l’estrazione e lo sfruttamento delle risorse naturali, l’ineguaglianza sociale e la produzione di rifiuti e inquinamento. Secondo questa idea è il capitalismo, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sulla ricerca del profitto, che ha portato a una serie di crisi ambientali, tra cui i cambiamenti climatici, la deforestazione e la perdita di biodiversità. Chi preferisce questa parola sostiene che concentrarsi sull’aspetto socioeconomico dei problemi ambientali serva ad affrontare in modo più efficace la crisi climatica. Tuttavia, non mancano critiche e dibattiti sulla validità e l’utilità dell’uso di Capitalocene rispetto ad Antropocene, e alcune persone ritengono che entrambi i termini possano coesistere e integrarsi nella comprensione complessiva delle sfide ambientali e sociali contemporanee.

Un’altra proposta alternativa, ma meno diffusa, è “Piantagionocene”: una parola usata per la prima volta nell’ottobre 2014 all’Università di Aarhus, in Danimarca, durante la conferenza Anthropologists are talking about the Anthropocene. Alla conferenza partecipavano esperti ed esperte di antropologia, biologia, geografia e studi femministi, che condividevano un certo scetticismo verso i termini Antropocene e Capitalocene. Questo nuovo concetto anticipa la data di inizio dell’epoca in cui viviamo fino a metà del XVII secolo e focalizza l’attenzione sull’agricoltura basata sugli schiavi, e non sul carbone, come momento cardine della transizione. Infatti, il sistema economico basato sulle piantagioni ha avuto un impatto significativo sulle dinamiche socioeconomiche e ambientali, specialmente durante il periodo coloniale (ma anche post-coloniale), quando era alla base della produzione di merci di esportazione come zucchero, caffè, cotone e tabacco. Le piantagioni spesso implicavano la deforestazione su larga scala, lo sfruttamento intensivo e coatto del lavoro umano, oltre alla manipolazione degli ecosistemi locali a vantaggio di chi li controllava. Usando Piantagionocene si sottolinea come queste dinamiche abbiano avuto un impatto duraturo sull’ambiente e sulla società, creando profonde disuguaglianze, causando dislocazione delle comunità indigene e influenzando i cicli biogeochimici. È dunque un termine utile per enfatizzare le radici storiche del capitalismo, del colonialismo e delle attuali ingiustizie climatiche.

Schiavi e schiave tagliano canne da zucchero nella colonia britannica di Antigua nel 1823 (©Wikipedia),

Un’ultima proposta terminologica da citare, tra le altre, è quella della filosofa e zoologa Donna Haraway – che aveva partecipato alla conferenza di Aarhus – descritta nel suo libro Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (Nero, 2019). Secondo Haraway per comprendere il mondo in cui viviamo è necessario modificare radicalmente il nostro modo di pensare alla realtà, sviluppando quello che l’a.trice definisce “pensiero tentacolare”. L’etimologia del termine deriva infatti da Chtulhu, l’essere dalla testa di polpo creato da H.P. Lovecraft, però la grafia è leggermente diversa e richiama la parola greca khthon, traducibile con “terra”, ma con particolare riferimento al mondo sotterraneo. Dunque, il concetto di Chthulucene si contrappone ad Antropocene (ma anche a Capitalocene e Piantagionocene) suggerendo un’immagine più complessa e interconnessa della vita sulla Terra, fatta di relazioni intricate, invisibili e sotterranee. Una metafora efficace per descrivere queste connessioni tra gli esseri viventi è quella del fungo (creata dall’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing), i cui miceli si sviluppano intrecciandosi per kilometri sotto le foreste. Haraway ci incoraggia a “restare con i guai”, cioè ad affrontare le tante crisi ambientali e sociali del nostro tempo, promuovendo il concetto centrale della “parentela” (kinship) per sottolineare la necessità di riconoscere e coltivare legami con tutte le forme di vita sul pianeta.

A questi termini se ne affiancano altri sempre nuovi come: Wasteocene per evidenziare come la nostra sia l’era degli scarti industriali, Omogenocene per il flusso ininterrotto di specie tra le due sponde dell’Atlantico dopo il 1492 o ancora Pirocene per i megaincendi che divampano sempre più spesso… E la lista potrebbe continuare.

Comunque la si chiami, però, l’epoca in cui viviamo ci pone davanti a una crisi senza precedenti, che dobbiamo provare a risolvere.

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Sara Urbani

Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, lavora per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e per i magazine online La Falla e Meridiano 13.

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