Non so niente, se non che sono straniero

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A che punto è l’educazione interculturale, a quasi trent’anni dalla circolare ministeriale 205 che individuava come suo obiettivo la «promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme»? Ne parliamo con Aluisi Tosolini, ragionando sullo stato dell’arte della scuola oggi.
Ribolla, Italia. Foto © Federico Borselli.

Dirigente scolastico del Liceo “Attilio Bertolucci” di Parma, Aluisi Tosolini, negli anni Novanta del secolo scorso, quando era un insegnante di filosofia e scienze umane, ha fatto parte della Commissione Nazionale del Ministero della Pubblica Istruzione per le problematiche interculturali, per la quale ha contribuito a realizzare il kit multimediale Educazione interculturale per la scuola dell’autonomia1. In qualità di formatore e di consulente ha collaborato alla realizzazione di numerosi progetti interculturali fondati sull’idea che la scuola dovesse rivestire il ruolo di «intellettuale sociale», assumendosi la responsabilità di formare cittadine e cittadini capaci di abitare la città multiculturale, ovvero di collaborare attivamente alla costruzione di una «casa comune delle differenze».

Ancora oggi Tosolini prosegue quel lavoro culturale attraverso la direzione della collana editoriale «Bibbia, cultura, scuola» con Brunetto Salvarani (edizioni Claudiana) e il coordinamento nazionale della Rete Italiana Scuole per la Pace, con la quale ha curato la pubblicazione delle Linee Guida per l’educazione alla pace e alla cittadinanza glocale (maggio 2017). È inoltre tra i fondatori del Movimento Avanguardie Educative promosso da 22 scuole e Indire2 e il liceo che dirige è una delle cinque scuole italiane riconosciute come changemaker dalla ONG Ashoka3.

Simone Giusti: Mi hai chiesto di iniziare il nostro dialogo sull’educazione interculturale a partire dai versi di un poeta contemporaneo, Pierluigi Cappello: «non saprei nient’altro di me se non sapessi di me che sono straniero». Perché?

Aluisi Tosolini: Non saprei trovare un modo migliore per descrivere il mio stato d’animo oggi, e sintetizzare così il punto in cui sono arrivato. La doppia negazione, molto socratica, definisce una visione del mondo in cui mi riconosco: non so niente, se non che sono straniero, forestiero. Il fatto che sia detto nella lingua friulana nella koinè dell’alta Carnia, zona di Tarvisio, al crocevia di quattro diverse lingue, esprime bene il mio personalissimo sentirmi figlio di un confine. Del resto sono madrelingua friulano – o ladino che dir si voglia – e l’italiano l’ho imparato come L2 a scuola. 

Se dovessi dire oggi, col senno di chi dalla fine del secolo scorso in avanti ha lavorato nel mondo dell’educazione interculturale, la sola cosa che mi rimane oggi è la consapevolezza di non sapere nient’altro che questo: 

no savarès nuealtri
di me se no savès
di me che o soi forest.

Testo che può essere letto anche secondo una diversa interpretazione: se non sapessi che sono forestiero non saprei niente altro di me. Ovvero: la consapevolezza di essere un forestiero è una condizione per comprendere qualcos’altro di me e la mia conoscenza di me stesso (autoconsapevolezza) non si esaurisce nel sapere che sono un forestiero, ma per giungere a conoscere le mie identità necessito prima di riconoscere che sono (anche) forestiero.

Simone Giusti: Intendi dire che di tutto il lavoro fatto sull’educazione interculturale non rimane che questa consapevolezza? Lo so che non è poco, ma forse non era l’obiettivo principale.

Aluisi Tosolini: Occorre ammettere il fallimento di tante iniziative che avrebbero dovuto contribuire all’affermazione di idee e princìpi di cui stentiamo a trovare traccia nella società italiana di oggi. Sono tempi cupi, questi che ci si aprono davanti. E la loro cupezza non può esimerci dal chiederci dove e come abbiamo fallito. Perché, è evidente, abbiamo fallito, siamo stati sconfitti, non siamo stati capaci di trasformare in egemonia (gramsciana) la nostra riflessione sulla dimensione interculturale e sui processi di “glocalizzazione”. Sconfitti da una globalizzazione cieca e sorda nei confronti della differenza, capace di omogeneizzare e omologare tutto e tutti. Allo stesso tempo, sconfitti da una localizzazione che si fa cinismo e gretta chiusura identitaria. Non so (ancora) dove abbiamo sbagliato, ma è certo che siamo stati sconfitti e abbiamo fallito, almeno a livello di società. A scuola, non so ancora.

Simone Giusti: La scuola, stando almeno ai documenti e alle norme, continua a sembrare uno dei luoghi più avanzati e aperti della società italiana. Forse non è del tutto vero.

Aluisi Tosolini: Il miglior documento uscito sull’intercultura risale al 2007 e si intitola La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri4. È un testo chiaro, onesto, che riconosce l’esistenza, nel nostro Paese, di un doppio binario dell’educazione interculturale: quello dell’integrazione degli alunni stranieri, che vengono inseriti subito nelle classi insieme ai loro coetanei, e quello dell’interazione, che ha per destinatari tutti gli alunni della scuola, i quali avrebbero dovuto arricchirsi reciprocamente proprio grazie alla valorizzazione delle diversità presenti all’interno della scuola.
In sintesi, si trattava, per noi che ci occupavamo di questi argomenti, di dotare le scuole di strumenti e di competenze utili a garantire l’accoglienza dei nuovi arrivati, che avrebbero dovuto apprendere rapidamente la lingua italiana ed essere messi in grado di interagire positivamente nella classe. Ma si trattava anche di dare sostanza a uno dei princìpi più alti espressi dalla circolare ministeriale 205 del 1990, che affermava che «L’educazione interculturale avvalora il significato di democrazia, considerato che la diversità culturale va pensata quale risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone…». Quest’idea, nonostante tutto, ha continuato ad agire nella scuola italiana, anche se cambiando nome. Non si parla più ormai di educazione interculturale, ma di competenze di cittadinanza, di cittadinanza globale, di cittadinanza glocale e di educazione alla pace.

Simone Giusti: Ho avuto modo di leggere le Linee guida per l’educazione alla pace e alla cittadinanza glocale inviate dal Miur alle scuole nel 2017, alla cui elaborazione hai partecipato in prima persona. È effettivamente utilissimo il riferimento alle competenze per una cultura della democrazia del Consiglio d’Europa, e ho particolarmente apprezzato la parte sul ruolo e le responsabilità del dirigente scolastico della scuola autonoma, richiamato a essere «soggetto attivo, direttamente impegnato nello sforzo di rendere la scuola istituzione capace di «rimuovere gli ostacoli di ordine culturale e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 della Costituzione italiana)». Tu che sei un dirigente scolastico, come applichi questi princìpi nella tua scuola?

Aluisi Tosolini: La scuola che dirigo, nel suo piano di miglioramento, si è data due obiettivi: riequilibrare gli esiti degli studenti all’esame di Stato (troppo sbilanciati sia verso l’alto che verso il basso, in una strana curva a U) e sviluppare ulteriormente la dimensione della cittadinanza glocale ed europea. Per raggiungere il secondo obiettivo abbiamo pensato di rafforzare le pratiche dello scambio tra scuole, in modo da favorire la mobilità internazionale dei nostri studenti. Ma non basta mandare gli studenti all’estero, occorre anche sostenerli nello sviluppo di competenze e nella loro autovalutazione, fondamentale affinché prendano consapevolezza delle loro capacità e delle loro responsabilità. Ed è altrettanto importante che i docenti sappiano fornire indicazioni puntuali e riscontri sul percorso di crescita degli studenti. In qualità di dirigente scolastico, ho chiesto aiuto a Mattia Baiutti, ricercatore presso la Fondazione Intercultura e autore del volume Competenza interculturale e mobilità studentesca. Riflessioni pedagogiche per la valutazione (ETS, Pisa 2017), che ci ha supportato nella progettazione della formazione dei docenti e nell’elaborazione degli strumenti di valutazione delle competenze culturali [vedi l’articolo di Mara Fornari, N.d.R.]. Altre attività che cerco di sostenere sono il Service Learning, l’educazione alla cittadinanza attraverso attività di solidarietà e al servizio della comunità, e la formazione degli studenti al debate, il dibattito pubblico. Soprattutto quest’ultimo è fondamentale alla manutenzione della democrazia, che non può esistere in assenza del confronto diretto tra i cittadini e le cittadine. La conversazione faccia a faccia – ce lo ha confermato Sherry Turkle nel suo fondamentale La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, Einaudi, Torino 2016 – è necessaria e non può essere in alcun modo sostituita dalla comunicazione mediata dai dispositivi digitali.
Il Liceo Bertolucci è stato individuato dall’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia Romagna per la realizzazione di percorsi di formazione su questi temi. Ma devo dire che è abbastanza deprimente, come scuola, dover sempre mettere in campo iniziative speciali per fare qualcosa che dovremmo e potremmo fare ogni giorno, come “normalità” del processo educativo.

Simone Giusti: Tornando all’analisi degli insuccessi, mi permetto di avanzare un’ipotesi. Ho sempre pensato che, mentre l’emanazione delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola del primo ciclo (2007 e 2012) e, in generale, l’adozione di un impianto valutativo e didattico centrati sulle competenze, andassero nella giusta direzione, favorendo la democratizzazione della scuola italiana, la direttiva ministeriale sui Bisogni Educativi Speciali (2012) abbia bruscamente interrotto il cammino intrapreso, separando nettamente quello che abbiamo chiamato il binario dell’accoglienza degli alunni stranieri dal binario dell’interazione e dell’educazione interculturale vera e propria.

Aluisi Tosolini: La norma si presta a essere interpretata come la sanitarizzazione o medicalizzazione o, anche, istituzionalizzazione dello straniero, trattato alla stregua di un malato (peraltro incurabile, visto che lo Stato si rifiuta poi, anche in caso di successo scolastico, di riconoscergli la cittadinanza). Spostando tutta l’attenzione sul deficit linguistico e, quindi, sulle procedure per l’integrazione, da ottenere con misure speciali di tipo dispensativo e compensativo, si corre il rischio di abbandonare il progetto di rendere la scuola adatta al mondo che cambia, e di costringere invece i nuovi utenti a cambiare forma e dimensioni per riuscire a passare dalla porta di una scuola che rimane esattamente come è sempre stata. Se sulla soglia del mio ufficio un giorno si presenta un elefante, ho due alternative: posso cambiare la porta, adeguandola alle esigenze del mio ospite, oppure posso chiedere all’elefante di inginocchiarsi, o ancora posso prenderlo a martellate per ridurlo alle dimensioni della porta, oppure posso chiedergli di tornare dopo una drastica dieta dimagrante. Ecco, a un certo punto noi abbiamo costretto gli studenti e le studentesse ad adeguarsi. Invece dovrebbe essere la scuola a (ri)mettere in discussione se stessa.

Riguardo alle indicazioni nazionali e al rinnovamento della scuola, occorre ammettere che anche in questo caso non siamo riusciti a cambiare il nostro rapporto con i saperi. Il modello gentiliano continua a dominare le menti di troppi insegnanti, che boicottano la scuola democratica o semplicemente fanno finta di non accorgersi che il loro compito non dovrebbe essere quello di preparare gli alunni ad affrontare il successivo grado scolastico, ma di prepararli a vivere da cittadine e cittadini liberi e responsabili. Siamo troppo bravi a fingere di cambiare, e nessuno chiede conto dell’applicazione o meno di una normativa che è molto più avanzata e adeguata alla società democratica di tante pratiche tradizionali. Sono sostanzialmente finte le certificazioni delle competenze rilasciate ormai da quasi un decennio, e sono altrettanto sostanzialmente finte le programmazioni per competenze. Anche gli esami di Stato, in fondo, servono soprattutto a fare i confronti tra una scuola e l’altra, una specie di concorso di bellezza a cui partecipano le diverse istituzioni scolastiche, che finalmente hanno l’occasione di presentarsi in pubblico. Lo studente è una variabile, e nemmeno la principale…

Diciamo la verità: la scuola, quella tradizionale, quella che abbiamo sempre fatto, non è riuscita a fornire le basi culturali di negoziazione per poter pensare a una società pronta a cambiare a partire dalla pluralità di appartenenze linguistiche, culturali e/o religiose. Cos’altro deve succedere per convincerci a cambiare davvero?

Simone Giusti: Mi trovi d’accordo, soprattutto sulla necessità di cambiare. Ma non per sperimentare qualcosa di inusuale, bensì per applicare la norma e, quindi, rispettare il dettato costituzionale, che stabilisce il senso e i limiti della nostra libertà di insegnamento, funzionale al pieno sviluppo della persona e al raggiungimento dei risultati stabiliti di volta in volta dal Parlamento. Dal 2010 certifichiamo le competenze chiave di cittadinanza dei nostri alunni senza che essi sappiano di cosa si tratta. Forse occorre proprio ricominciare dal rispetto della legge, senza stare a scomodare le teorie psicopedagogiche.

Aluisi Tosolini: Siamo continuamente distratti da false emergenze, e anche per questo poco inclini a credere che la società in cui viviamo sia quella a cui dobbiamo tutti prepararci, non quella di quando eravamo giovani. Non ci sono invasioni in corso, non abbiamo masse di nuovi bambini e bambine o ragazzini e ragazzine da integrare. E per quel che riguarda le competenze linguistiche, che per molti insegnanti di liceo rappresentano un ostacolo insormontabile, è sufficiente e necessario evitare di osservare gli alunni da quell’esclusivo punto di vista. Basta prendere in considerazione altre competenze, e allora tutto cambia. La ricerca pedagogica ci insegna che sono i contesti educativi a creare la percezione dell’uguaglianza e della diversità, della somiglianza e della differenza. Luisa Zinant, studiosa dei contesti educativi eterogenei e plurilingui, ha fatto una ricerca molto interessante sulle seconde generazioni e le nuove tecnologie7, nella quale dimostra che la percezione della differenza tra italiani e stranieri scompare dal momento in cui si trovano a usare le tecnologie digitali. In quel momento, mentre usano lo smartphone, per esempio, tutti sono vicini, abitano lo stesso spazio. Ciò non significa che è possibile o auspicabile l’abolizione delle differenze, ma solo che, attraverso la gestione consapevole degli spazi, è possibile rendere le persone coscienti del fatto che le differenze non sono assolute, che sono situate, e che non è necessario nasconderle o eliminarle. Allora cerchiamo di organizzare, a scuola, ambienti plurali diversi che rendano possibile la valorizzazione della diversità qualsiasi essa sia (di genere, di abilità, di lingua, di religione ecc.). La scuola, che non si percepisce come un ambiente educativo eterogeneo, crede ancora oggi di avere il compito di omologare e omogeneizzare. Come se ancora dovesse, come nel 1861, fare gli italiani, o dare a tutti una lingua universale e standardizzata.

Simone Giusti: Nonostante tutto, continuiamo a lavorare per perseguire l’obiettivo che avevi indicato nel 2007 in A scuola di intercultura: fare della scuola un intellettuale sociale, capace di usare la propria autonomia per cambiare la società e per collaborare alla costruzione di una «casa comune delle differenze», no?

Aluisi Tosolini: Certo che lavoriamo per quello, ma uno deve fare i conti con la sconfitta o la frantumazione di ciò per cui ha lavorato tutta la vita. In una società multiculturale l’educazione interculturale e alla cittadinanza avrebbe il compito non solo di riprodurre se stessa ma anche di innovare. La società cambia. A Milano il 27% delle coppie che si spostano sono miste. Qui a Parma, dove vivo e lavoro, all’incirca il 30% dei nati oggi è non italiano o figlio di coppie miste, quindi devo supporre che il 30% degli abitanti di Parma tra vent’anni sarà dunque di “stranieri”? La soluzione sarà l’apartheid? La separazione tra cittadini di serie A e B? Non possiamo pensare a una parte di cittadini che ha pieni diritti e prende le decisioni e una parte che sta a guardare. Dobbiamo cambiare, e abbiamo già dimostrato, in altri casi, di essere in grado di farlo.
La scuola, che non si percepisce come un ambiente educativo eterogeneo, crede ancora oggi di avere il compito di omologare e omogeneizzare. Come se ancora dovesse, come nel 1861, fare gli italiani, o dare a tutti una lingua universale e standardizzata.Faccio un piccolo esempio a partire da un fenomeno che ho già analizzato in un mio libro (Città, Emi, Bologna 2006): la rotatoria. Il codice della strada italiano prevede che si dia la precedenza a destra. O almeno così è stato fino alla diffusione anche in Italia della rotatoria, un dispositivo che prevede che chi è dentro possa girare tutto il tempo che vuole e che coloro che vogliono immettersi, i nuovi entranti, diano la precedenza a chi è già dentro e sta girando. In quella situazione noi siamo stati capaci di rinegoziare le regole, mettendo persino in discussione la regola del codice della strada. Ecco, piaccia o non piaccia, le
cose cambiano. E quello che sarà fra trent’anni in Italia non può essere il risultato di un processo di adeguamento ma qualcosa di diverso, frutto della rinegoziazione di sé, delle norme e degli stili di vita. Negoziazione che – certo – chiede condivisione delle regole. E la regola base è, a mio parere, proprio il punto di partenza della dimensione interculturale nel sistema formativo italiano. Ovvero quella dimensione che invera la democrazia.


NOTE

1. Reperibile online sul sito di Rai Educational: http://www.educational.rai.it/corsiformazione/intercultura/default.htm.
2. http://avanguardieeducative.indire.it/.
3. https://www.ashoka.org/it/programma/le-scuole-changemaker.
4. https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf
5. http://www.perlapace.it/wp-content/uploads/2017/05/LineeGuidaPaceCittadinanza.pdf.
6. https://rm.coe.int/competences-for-democratic-culture-resume-it-revised-web-a5/1680717a26.
7. Seconde generazioni e nuove tecnologie. Una ricerca pedagogica, ETS, Pisa 2014

Aluisi Tosolini è autore di New media, Internet e intercultura (con Sebi Trovato, Bologna, Emi, 2001), Città (Bologna, Emi, 2006), A scuola di intercultura. Cittadinanza, partecipazione, interazione: le risorse della società multiculturale (con Simone Giusti e Gabriella Papponi Morelli, Trento, Erickson, 2007), Acqua e intercultura (con Davide Zoletto, Emi, 2007), Comparare (Trento, Erickson, 2010). Per Loescher ha scritto il manuale La filosofia e le scienze umane (2006).

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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