Non insegnare concetti, ma per concetti

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È appena uscito il libro, piacevole nella prosa e informato, di Alberto Gaiani, Insegnare concetti. La filosofia nella scuola di oggi. Di seguito proverò a discuterne alcuni punti che mi paiono deboli, perché ritengo che, nonostante i suoi limiti, il testo offra una stimolante occasione per riflettere.

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La più grave debolezza del libro, a mio parere, consiste nella fragilità dell’apparato metafilosofico che sta al fondo della proposta di Gaiani. Lo si riscontra nelle definizioni e caratterizzazioni che l’autore offre circa la filosofia. Leggiamo ad esempio: “si può identificare la specificità della filosofia nel fatto che essa prende in esame ciò che in senso stretto non appartiene a nessuno degli ambiti disciplinari dati, cioè i saperi che normalmente vengono definiti “scienza” o “discipline” (p. 86). Su questa base pare che non si possa qualificare la filosofia come “scienza”, né come “disciplina”, o che nessuno di questi due termini possa essere usato circa la filosofia, conclusione ben strana, dato che Google mi ha appena riportato “circa 29.100” risultati per “discipline filosofiche”. Si sa però che a volte su Internet la gente si esprime a casaccio. Però a guardare i link elencati vi si ritrova, tra l’altro, addirittura la homepage di una rivista, “Discipline filosofiche”, che ha un comitato scientifico di tutto rispetto. Oltretutto, definire qualcosa attraverso ciò che non è sembra un pessimo modo di procedere. In fondo anche l’astrologia non appartiene a nessuna dei saperi i quali normalmente vengono definiti “scienza” o “discipline”. Ne vogliamo perciò concludere che la filosofia e l’astrologia coincidono? Gaiani è ben consapevole che la definizione appena discussa della filosofia è “elementare” e la qualifica come “intuitiva” (ma credo intendesse “preriflessiva”).
Resta il fatto che egli non se ne libera semplicemente, ma la accoglie nel proprio percorso e soprattutto, come vedremo, non offre alternative di molto migliori. Quella più importante si lega con la proposta generale svolta nel libro: “ho avanzato la proposta di partire da un’idea di filosofia come sapere concettuale” (p. 125, ma vedi anche pp. 83, 143). Si tratta di una definizione di filosofia che porta però nuovi gravi problemi. Davvero la filosofia è un sapere? In cosa consistono i suoi contenuti? Proprio la difficoltà di rispondere a questo quesito, esibendo dei contenuti specifici, spingeva Immanuel Kant, come è noto, a dire che lo studente si inganna pensando di apprendere la filosofia, perché può “solo” imparare a filosofare. In questa definizione offerta da Gaiani a non andare bene non è però solo la parola “sapere”, che se adeguatamente spiegata potrebbe forse essere accoglibile. Che cosa potrà mai essere un “sapere concettuale”? I concetti sono ciò attraverso cui si descrive la realtà, o più ampiamente ciò attraverso cui si interagisce con essa. I concetti, soprattutto se presi singolarmente, non sono qualcosa che si insegna come contenuto, perché essi non costituiscono di per sé un contenuto. I filosofi a volte (ma non sempre) offrono delle concettualizzazioni e attraverso di esse svolgono teorie esplicative o, eventualmente, normative. La concettualizzazione però non è affatto un sapere, al massimo è uno strumento, un modello, un apparato. Molto di quello che fanno i filosofi poi non utilizza concettualizzazioni tecniche o comunque peculiari, ma si fonda sul linguaggio comune. Gaiani ritiene che sia giustificato definire la filosofia come “sapere concettuale” per il fatto che essa esercita “le proprie domande e le proprie ricerche su concetti” (p. 83). In realtà si tratta di una tesi che presta il fianco a facili falsificazioni. Il fenomenologo Adolf Reinach, ad esempio, non discute il concetto di promessa, ma la promessa. Nel primo caso avrebbe fatto psicologia (folk psychology, o psicologia sociale), mentre invece si è occupato di filosofia del diritto. Perfino il Kant della rivoluzione copernicana, per fare un altro esempio, non discute del concetto di sommo bene, ma del sommo bene: il concetto non potrebbe essere una sintesi di virtù e felicità. Però è vero che per comprendere la sua etica, cogliere il concetto che lui ha di sommo bene è fondamentale. Nondimeno, resta vero che nella loro attività di regola i filosofi non ricercano i concetti, piuttosto se ne servono per fare altro (per esempio spiegare come va il mondo o come dovrebbe andare). Del resto, se si usasse il paradigma che Gaiani propone, si sarebbe poi nei guai per distinguere la filosofia da altre discipline, come per esempio la fisica. Infatti, in fondo, anche la fisica utilizza un apparato concettuale che essa problematizza e sviluppa, evolvendo. Perché non dire allora che la fisica è un sapere concettuale? Gaiani cerca di chiarire cosa intende per concetto. Esso è “lo sfondo delle parole, senza nessun ammiccamento verso una qualche versione di platonismo” (p. 146). Mi pare sia una risposta vaga e infelice. Sullo sfondo della parola “gatto” potremmo ritenere ci sia il nome del nostro gatto preferito, poniamo “Silvestro”, ma non ne vorremmo concludere che il concetto di gatto è Silvestro. L’autore che più ha usato il concetto di sfondo, John Searle, ha ricevuto critiche tanto severe che oggi è estremamente cauto a riproporlo, peccato che Gaiani non sia stato altrettanto prudente. Nel complesso, il concetto di sfondo sembra avere una valenza cognitiva che mal si adatta a offrire il supporto oggettivo necessario in un discorso disciplinare.
Temo poi che la proposta di Gaiani finisca per essere un travestimento della didattica per problemi. Egli stesso, per come si esprime, rende quantomeno lecito il sospetto: “La didattica per parole pone a tema alcuni concetti che fanno problema in filosofia prendendo le mosse da alcune parole che usiamo nel nostro linguaggio ordinario e che, se indagate, mostrano di essere problematiche e degne di essere assunte come tema di un percorso di ricerca filosofico” (p. 125). Se non altro, mi viene da osservare, il modello per problemi era più limpido nel chiarire le ragioni del proprio porsi: lavoriamo su questioni che ci intrigano, su cui ci interroghiamo, che costituiscono una domanda viva, forse urgente.
Della proposta di Gaiani mi pare si salvi una giusta istanza, che l’autore esplicitamente riprende da autori come Cossutta, Girotti, Illetterati, Ruffaldi (p. 152), di una didattica che sia accorta nel non ridurre l’insegnamento filosofico a filastrocca di opinioni e al contempo sia capace di dedicarsi in qualche misura all’analisi concettuale e, preliminarmente, alla chiarificazione linguistica. Si tratta di due punti sui quali, in modi diversi, mi impegno da anni e che mi trovano in perfetta sintonia. La proposta di Gaiani mi pare si possa salvare, con una ricalibratura teorica, nella forma di una didattica di approfondimento. Essa può essere realizzata insomma con un’attività di didattica straordinaria che, inquadrandosi nel processo ordinario di studio dei classici, conosciuti attraverso una comprensione del lessico tecnico specifico e attraverso un’analisi delle mappe concettuali che ne ricapitolano e ne esplicitano i capisaldi del pensiero, svolge un lavoro di scavo ulteriore, eventualmente anche comparativo, sulla concettualizzazione.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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