Del resto, pochi giorni fa, al convegno nazionale “L’innovazione tecnologica nella scuola italiana e i capi d’istituto. Quali orientamenti per una politica sostenibile ed efficace?”, un’ineffabile relatrice ci informava che, secondo recenti e attendibili ricerche scientifiche, è proprio Facebook la fonte di informazione privilegiata da parte di moltissimi tra i nostri adolescenti. Al dato non seguiva alcun commento preciso, se non l’invito a “tenere conto del fenomeno” nel progettare interventi didattici e percorsi formativi. Questa considerazione è in sé priva di un significato preciso e di una prospettiva definita; pertanto può essere interpretata in modi assolutamente differenti, addirittura divaricati, a seconda che si propenda per la tendenziale positività delle nuove abitudini o piuttosto si provi un qualche allarme di fronte a certi comportamenti. Per quanto mi riguarda, confesso che mi sono augurato che con l’espressione “informazioni” ricerca e relatrice intendessero le news e genericamente l’attualità, ma assolutamente non altro, in particolare nozioni e concetti necessari per integrare le proprie conoscenze culturali e i propri percorsi di studio.
La formidabile impresa commerciale di Mark Zuckerberg – trattato come concetto da Google, ma ancora come pseudo-errore di ortografia dai principali programmi di word processing – ha in effetti recentemente presentato il proprio motore di ricerca “sociale”, attivo per ora solo nella versione del sito che utilizza la lingua inglese e pertanto fornito di “Lista d’attesa” per quegli utenti italiani che volessero prenotare il servizio. La “socialità” della ricerca consiste nell’esplicitazione e nello sfruttamento delle connessioni costruite dall’incrociarsi tra le notizie personali e le immagini fornite dagli iscritti, i loro “Mi piace”, i messaggi e i commenti e così via, con un probabile rischio per la privacy, su cui infatti si discute prima ancora che il nuovo meccanismo abbia visto pienamente la luce.
Oggi pomeriggio in prima c’era l’assemblea di classe, a sua volta regolarmente richiesta dai rappresentanti di classe – beginners nel loro ruolo – e autorizzata da chi di dovere. In questo caso noi insegnanti segniamo la nostra presenza e annotiamo sul registro – di carta o elettronico – la particolarissima attività svolta. Poi è prassi comune allontanarsi con discrezione, per fare in modo che la discussione possa avvenire con la massima disinvoltura. I più pedanti tra i dirigenti scolastici pretendono dagli studenti scelti dai compagni per organizzare queste residue pratiche di democrazia scolastica un resoconto scritto. Non è questa la fattispecie, ma in ogni caso è mia abitudine chiedere, tornando in classe alla fine dell’assemblea, come sono andate le cose. Soprattutto nel primo periodo di frequenza di un nuovo percorso scolastico, infatti, gli studenti lamentano difficoltà di rapporto tra loro e cercano strategie per la soluzione del problema. Anche questa volta era andata così, con però una variante: in classe vi è tensione perché un allievo ha usato proprio su Facebook parole poco simpatiche nei confronti di un certo numero di compagni, indicati nel post incriminato – per ragioni che credo poco avessero a che fare con la riservatezza – soltanto con le iniziali.