Oggi tutti la conoscono semplicemente come “Malala”, o come “la ragazzina Pakistana che ha fatto il discorso all’ONU”. Il “Time” le ha dedicato una copertina lo scorso aprile, inserendola nella lista delle cento persone più influenti al mondo. Del resto, sempre l’anno scorso, è andata molto vicina a ottenere il premio Nobel per la pace, assegnato poi all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac).
Tutto inizia quando, a undici anni, e con lo pseudonimo di Gul Makai, Malala Yousafzai lancia un blog per la Bbc (la televisione inglese) in cui descrive la sua vita nello Swat, una regione del Pakistan nordoccidentale, sotto il regime dei talebani: sempre più scuole chiuse e una legge islamica molto severa che penalizza soprattutto le donne. Giovane ma sorprendentemente determinata, Malala non fa giri di parole. In un post del 14 gennaio 2009 dal titolo “I may not go to school again” (“potrei non tornare più a scuola”) si dichiara preoccupata perché il suo preside non ha fissato la data di riapertura dopo le vacanze estive: «non ci ha informato sui motivi, ma io credo che i talebani abbiano vietato l’educazione per le ragazze a partire dal 15 gennaio».
Un coraggio che quasi le costa la vita. Il 9 ottobre 2012 alcuni uomini armati la raggiungono a bordo del pullman su cui sta tornando da scuola e le sparano ferendola alla testa e al collo. Malala si salva miracolosamente. La sua storia, però, fa il giro del mondo, tanto da portarla il 12 luglio 2013, in occasione del suo sedicesimo compleanno, a parlare al palazzo delle Nazioni Unite di New York. Indossando lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto, Malala lancia un appello per l’istruzione dei bambini di tutto il mondo: «Lasciateci prendere in mano i libri e le penne. Sono le armi più potenti. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo». Un discorso che ha ricevuto l’ovazione dei rappresentanti delle istituzioni presenti nella sala Trusteeship Council del Palazzo di Vetro: tutti in piedi per un lunghissimo e caloroso applauso.
Il diritto all’istruzione per tutti
Il diritto all’istruzione è uno dei diritti fondamentali della persona ed è sancito da moltissimi documenti internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, che recita, all’articolo 26: «Ogni individuo ha diritto all’istruzione gratuita e obbligatoria almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali».
Un principio reso giuridicamente vincolante dal Patto sui diritti economici sociali e culturali delle Nazioni Unite, che fissa cinque punti fondamentali:
– tutti hanno diritto all’istruzione di base (elementare) in una qualche forma, ivi compresa l’istruzione di base per gli adulti;
– essa deve essere gratuita e obbligatoria;
– lo Stato ha l’obbligo di tutelare questo diritto dalle intromissioni di terzi;
– esiste libertà di scelta dell’istruzione senza interferenze da parte dello Stato o di terzi;
– le minoranze hanno diritto all’insegnamento nella lingua di loro scelta, in istituti al di fuori del sistema ufficiale della pubblica istruzione.
Nell’aprile 2000, in occasione del Forum Mondiale di Dakar sull’Istruzione, la comunità internazionale si è impegnata a raggiungere entro il 2015 un’istruzione di base di qualità obbligatoria e universale. I 164 Paesi partecipanti hanno definito un’agenda basata su sei obiettivi:
1. espandere e migliorare la cura e l’istruzione di tutti i bambini e le bambine, in particolare di quelli più vulnerabili e svantaggiati;
2. assicurare, entro il 2015, l’accesso all’istruzione primaria universale obbligatoria, gratuita e di buona qualità per tutti i bambini, in particolare per le bambine, per i bambini che vivono in condizioni difficili e per quelli che appartengono a minoranze etniche;
3. assicurare che i bisogni educativi di tutti i giovani e gli adulti siano soddisfatti attraverso un accesso equo a programmi di istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita;
4. raggiungere un aumento del 50% nell’alfabetizzazione degli adulti, specialmente delle donne, e un accesso equo all’istruzione primaria e alla formazione continua per tutti gli adulti;
5. eliminare le disparità di genere nell’istruzione primaria e secondaria entro il 2005 e arrivare alla piena parità di genere nel settore educativo entro il 2015, con una particolare attenzione a un pieno ed eguale accesso all’istruzione primaria e di buona qualità per le ragazze;
6. migliorare tutti gli aspetti della qualità dell’istruzione e assicurare a tutti l’eccellenza così che risultati visibili e valutabili siano raggiunti da tutti, specialmente nel leggere, scrivere, contare e in altre abilità essenziali per vivere.
Per realizzare questi obbiettivi è nato Education for All (EFA), un programma che coinvolge in primo luogo i Paesi in via di sviluppo a completare i piani d’azione nazionali (cioè a indicare con precisione obiettivi, impegni, strategie e risorse necessarie), i Paesi donatori (ovvero quelli ricchi) a finanziare tali piani, e gli Organismi internazionali (UNESCO, UNICEF, UNDP, Banca Mondiale e FAO) ad assistere entrambi nella programmazione e nella realizzazione.
Nonostante sembri ormai inevitabile il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati per il 2015, e nonostante la crisi economica mondiale in atto dal 2008 abbia condizionato la disponibilità di risorse per l’educazione dei Paesi donatori, la 36° Conferenza Generale (svoltasi nell’ottobre 2011) ha confermato il programma EFA come il più importante impegno politico internazionale per la promozione dell’istruzione per tutti.
Le “quattro A”
Katerina Tomasevski, studiosa dei diritti umani, è stata dal 1998 al 2004 il primo interlocutore speciale sul diritto all’istruzione della Commissione delle Nazioni Unite sui Diritti Umani. Fino alla sua prematura morte, avvenuta nel 2006, si è impegnata in un costante lavoro di denuncia delle ipocrisie della retorica internazionale sul diritto all’istruzione, universalmente proclamato a gran voce, ma di fatto sistematicamente ignorato da quasi tutti i Paesi. È suo il The State of the Right to Education Worldwide del 1994, un documento che analizzava le leggi e le pratiche educative di 170 nazioni, focalizzandosi sul divario fra l’accesso all’istruzione de jure (ossia come principio formale) e de facto (ossia sulla sua realizzazione concreta). Nello stesso documento, per misurare attraverso indicatori concreti il diritto all’istruzione, Tomasevski proponeva anche quattro concetti analitici: availability (disponibilità), accessibility (accessibilità), acceptability (accettabilità) e adaptability (adattabilità).
Il criterio della disponibilità implica che l’istruzione sia gratuita e finanziata dal governo e che vi siano sia infrastrutture adeguate (edifici sicuri, scuole nei villaggi e nelle aree rurali, servizi igienici e di trasporto adeguato) sia insegnanti qualificati in grado di svolgere questo delicato compito. La questione degli insegnanti è particolarmente centrale, per esempio, nel garantire la parità di accesso all’istruzione fra studenti e studentesse. In tutte le regioni del mondo, infatti, la percentuale di insegnanti donne impiegate nell’istruzione superiore è inferiore a quella presente nelle scuole primarie. Un dato preoccupante non solo in sé e per sé, ma anche tenendo conto del fatto che, in molti Paesi del mondo, i genitori rifiutano spesso di permettere alle figlie di essere istruite da uomini, scoraggiandone così la scolarizzazione secondaria.§
Il secondo principio, l’accessibilità, stabilisce che il sistema scolastico non sia discriminatorio e che siano prese misure concrete affinché i soggetti più emarginati non siano esclusi. Nella pratica questo significa, per esempio, assicurarsi che nei vari Paesi siano aboliti tutti i possibili ostacoli giuridici e amministrativi, come la necessità di un certificato di nascita per essere ammessi a scuola. Un altro parametro da monitorare è che l’educazione sia economicamente alla portata di tutti, compresi i suoi costi indiretti, come le spese per i libri di testo e le uniformi. O, ancora, che siano adottate le leggi che vietano il lavoro minorile.
Un punto abbastanza spinoso riguarda l’impiego di “azioni affermative”, ovvero di leggi speciali che attribuiscono un vantaggio ai soggetti considerati più “deboli”, quali per esempio le donne. Le polemiche che circondano tali provvedimenti si concentrano spesso sulla difficoltà di stabilire esattamente quale sia il punto critico in cui l’obiettivo dell’uguaglianza può dirsi raggiunto. Basti pensare ad alcune nazioni, in particolare dei Caraibi, che dopo aver istituito misure speciali per le ragazze in materia di istruzione si trovano ora nella situazione opposta, cioè con un sistema educativo che sembra faticare a includere i ragazzi. La Giamaica è un esempio calzante.
Per accettabilità si intende che il contenuto della formazione, sia nel sistema educativo pubblico che in quello privato, sia rilevante, non discriminatorio, culturalmente appropriato e di qualità. Ma anche che i curricula siano pluralisti e liberi da indottrinamenti politici o religiosi. Riconoscendo che il contenuto dell’insegnamento è un fattore determinante per il suo ruolo come trasmettitore di discriminazione o promotore dell’eliminazione delle discriminazioni, molti Stati hanno avviato un processo di revisione dei programmi di studio e dei libri di testo, al fine di sradicare immagini stereotipate, manifeste e implicite, dei ruoli di genere.
Infine, l’ultima delle “quattro A”, l’adattabilità, si riferisce alla necessità che l’educazione debba adattarsi alle esigenze degli individui (per esempio i bambini con disabilità o appartenenti a minoranze etniche e linguistiche) e delle società (rispettando tutte le feste religiose e culturali riconosciute).
L’istruzione per tutti: un problema vero
L’istruzione funziona certamente come un moltiplicatore che, se effettivamente garantito, enfatizza il godimento di tutti i diritti individuali e della libertà. Oltre ad essere la chiave per lo sviluppo economico, aiuta le persone a sviluppare al massimo il proprio potenziale e a emanciparsi dallo stato di povertà e di emarginazione. Nonostante i significativi progressi compiuti negli ultimi anni, tuttavia, sono ancora 72 milioni (circa il 10% della popolazione mondiale in età scolare primaria) i bambini che non hanno accesso all’educazione di base; il 70% di questi vive nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e occidentale, cifra che in realtà si presume sottostimata, non considerando il numero di bambini che, nonostante risultino iscritti, non frequentano la scuola. Basti pensare che nei Paesi in guerra o in situazioni di post conflitto i dati non sono disponibili o affidabili.
Una dimostrazione del fatto che, in linea con quanto ha sostenuto Tomasevski, il linguaggio dei diritti umani, incluso quello all’istruzione, necessita in una certa misura di essere sottratto al diritto formale astratto ed essere calato all’interno dei contesti concreti in cui è applicato. Questo significa comprendere che, oltre che catalizzatore di processi di emancipazione, il diritto all’istruzione per tutti è strettamente dipendente da alcune condizioni culturali e socio-economiche. E che incidere su queste ultime può rivelarsi a volte più efficace che imporre standard di scolarizzazione rigidi e universali.
Sembra per esempio poco efficace spendersi in campagne a favore della scolarizzazione femminile se non si aumentano le opportunità lavorative per le ragazze. Uno studio di UNICEF ha dimostrato per esempio che in Egitto in almeno il 50 % dei casi esaminati la decisione dei genitori di non mandare le bambine a scuola è fortemente influenzata dalla percezione che l’istruzione non garantisca una futura occupazione. Una percezione, del resto, in linea con quanto attestato da UNIFEM (Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne): i salari medi delle donne sono inferiori a quelli degli uomini in tutti i Paesi in cui sono disponibili i dati. Considerazioni di buon senso, ma tutt’altro che scontate nel mondo del diritto e delle agenzie internazionali, spesso caratterizzati da un eccesso di formalismo.