Nausicaa, l’amore lontano di Odisseo

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La principessa e il naufrago, tra xenía ed eros: l’idillio mancato e un personaggio problematico nell’ultimo libro di Giorgio Ieranò.
Un’immagine dall’Odissea di Franco Rossi.

Quando Giorgio Ieranò nel suo ultimo libro Omero, Nausicaa e l’idillio mancato (il Mulino, Bologna 2023, pp. 162, euro 14) ha menzionato la Nausicaa dell’Odissea televisiva di Franco Rossi del 1968, cioè l’affascinante Barbara Bach, non ho potuto che ritornare ai tempi della mia infanzia.
Sì, perché – credo – un bell’impulso a studiare e poi occuparmi anche professionalmente del mondo classico è venuto (anche) da quella serie televisiva che i bambini della mia generazione seguivano con una passione smisurata; e quell’Odisseo (Bekim Fehmiu), quella Penelope (Irene Papas), quel Telemaco (Renaud Verley) e, ovviamente, quella Nausicaa di cui si diceva sono rimasti nella mia mente come immagini o vere e proprie icone dei personaggi di quel poema che poi avrei letto, tradotto, spiegato, insieme a diverse generazioni di studenti.
Insomma: anche se poi Barbara Bach è salita agli onori del gossip per ben altro (è stata moglie del batterista dei Beatles Ringo Starr) per me è sempre rimasta quella fanciulla che, mentre giocava a palla in riva al mare, si imbatté nel naufrago più famoso di tutta la letteratura universale, quell’Ulisse che forse nessun moderno ha descritto meglio del verso foscoliano «bello di fama e di sventura».

La principessa e il naufrago

Ma torniamo al libro, che – come è tipico del suo autore – mescola piacevolezza nella prosa e raffinatezza nei contenuti, senza mai scadere nell’arido accademismo.
Tutto ruota intorno all’incontro tra l’eroe e la bellissima principessa dei Feaci, giunta con le sue ancelle (bellissime anch’esse, ovviamente) a lavare i panni proprio sul lido dove Odisseo – travolto dall’ira di Poseidone dopo essersi mosso dall’isola di Ogigia, patria nella ninfa Calipso – giaceva “spiaggiato”, nudo, incrostato di salsedine e terribilmente affamato. Un incontro narrato nel VI libro dell’Odissea, cui fa seguito il VII, nel quale si descrive la lunga conversazione del re di Itaca con i regnanti Feaci, i genitori di Nausicaa appunto, e cioè i nobili Alcinoo e Arete.
In questi due libri (entrambi tradotti con convincente chiarezza da Ieranò in coda al saggio) apprendiamo che i Feaci sono un popolo ben strano: grandi navigatori, politicamente ed economicamente evoluti, sono però poco avvezzi – data la marginalità geografica della loro isola, che qualche commentatore ha addirittura identificato con l’Aldilà – ad avere a che fare con stranieri. Eppure, sia la giovane principessa, sia i genitori regnanti, mostrano grande rispetto per lo straniero, dando una straordinaria prova di xenía (ospitalità), e accettando di riaccompagnarlo in patria benché sapessero che gli dèi avrebbero potuto punirli (c’è sempre di mezzo l’ira di Poseidone, che a Odisseo – e ai suoi “amici” – è aspramente avverso). Che differenza con l’accoglienza sanguinaria del ciclope Polifemo, che pure dei Feaci è… lontano parente: stranezze delle genealogie mitiche!

Frederick Leighton, Nausicaa, 1878 collezione privata.

Tra xenía ed eros

In realtà, dietro la xenía – che pure è evidente – c’è altro, molto altro, ma soprattutto c’è eros (non saprei se con la maiuscola o la minuscola). Infatti l’attrazione fisica e spirituale tra la principessa e l’eroe è più volte rimarcata, poiché lei è bella «come la dea Artemide» o «come un germoglio di palma», mentre il vigore del divino Odisseo è paragonato a quello di un leone, simbolo di esuberante virilità.
Nei loro discorsi, inoltre, più volte appaiono accenni al matrimonio, come quando Nausicaa dice alle sue ancelle «Oh, se solo un uomo come lui potesse essere chiamato mio sposo» (VI, 244); né parrebbe contrario a ciò il re Alcinoo «dal grande cuore», con le parole «Volessero il padre Zeus e Atena e Apollo / che, da uomo quale tu sei, con pensieri simili ai miei, / spossassi mia figlia e fossi chiamato mio genero» (VII, 311-313).
Ma l’allusione a Eros (questa volta sì, con la maiuscola) è – secondo Ieranò – addirittura precedente a queste affermazioni, poiché il gioco della palla (spháira) che vede coinvolte Nausicaa e le sue ancelle è il preferito del dio dell’amore: e non è un caso che sia stato proprio il grido delle fanciulle per una palla caduta in acqua a svegliare Odisseo che dormiva «vinto dal sonno e dalla fatica» (VI, 2).

Impossibile, tra tante dottissime citazioni di autori antichi presenti nel libro relative a questo sport d’antan (in realtà ancora praticato su tutte le spiagge del mondo!), non riportarne anche una più moderna – impastata di retorica fascista – tratta da un articolo di Alfredo Bertagnoni pubblicato sul Corriere della Sera del 20 maggio 1933:

Risorga tra noi la bella e fascinatrice vergine Nausicaa, figlia di Alcinoo, fresca e vigorosa nella persona, vivace nel suo intercalare il gioco della palla ai lavori femminei: essere vibrante di sentimento e di moto, promessa sicura di vite rigogliose.

Infastidisce davvero la trasformazione di una creatura tanto delicata, in bilico tra ingenuità e passione, in una sorta di atletico modello per le «piccole italiane» e di generico invito alla procreazione; eppure è anch’essa indizio della vitalità del mito classico e della sua dimensione universale ed eterna, che si palesa anche nel caso di queste inaccettabili storpiature. Pochi anni prima, tra l’altro, Carducci e Pascoli avevano fatto di Nausicaa che lava i panni il prototipo della perfetta massaia…

L’idillio mancato

Ma è bene ora dalla retorica tornare alla poesia, e cioè a Omero, nel cui raffinato racconto i nostri due personaggi non solo non si sposano, ma neppure cominciano quel flirt che tutto sembra far presumere che invece scoccherà. Prevale infatti, in entrambi, un pudore, una delicatezza di atteggiamenti, che se bene si confanno – secondo la mentalità del tempo – a una principessa adolescente, sono invece quasi inattesi per il nostro guerriero reduce da Troia: ma Odisseo non è come gli altri, ha una raffinatezza di modi e di pensiero che i suoi compagni achei si sognano. Perfino l’atto consueto del supplice, cioè abbracciare le ginocchia di chi lo accoglie, gli pare quasi sacrilego giacché il naufrago dice alla fanciulla «ho una paura terribile / di toccarti le ginocchia» (VI, 168-169); non sarà così, poco dopo, davanti alla madre Arete – regalmente assisa in trono e dunque in posizione di sicurezza e superiorità – alla quale «gettò le sue mani intorno alle ginocchia» (VII, 142).

L’incontro tra Odisseo e Nausicaa su un vaso a figure rosse del V sec. a.C Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera.

Probabilmente aveva torto il filologo Richard Bentley che – nel Settecento – ipotizzava che l’Odissea si rivolgesse a un pubblico femminile; è però vero che i clamori guerreschi dell’Iliade lasciano qui spazio anche ad altri valori, atteggiamenti e sensibilità.

Si tratta dunque – scrive Ieranò – di un «idillio mancato», che sembra da un lato elevare Nausicaa a un livello spirituale più alto di Circe e Calipso (che giacquero invece con l’eroe), dall’altro evita alla giovane il rischio «di entrare a pieno titolo in quella galleria di donne abbandonate e dolenti… che punteggiano il mito e la letteratura antica: Arianna, Medea, Didone». (p. 97). Donne relictae, queste, alle quali Goethe voleva affiancare anche la principessa dei Feaci componendo una tragedia in realtà mai scritta – Nausicaa appunto – che terminava con il suicidio della ragazza dopo avere appreso la volontà di nóstos dell’amato.

Un personaggio problematico

Omero, dunque, crea un personaggio molto più problematico rispetto alla donna “sedotta e abbandonata”. Costruisce una figura dal futuro aperto e dal destino incerto (non mancarono mitografi più tardi che la vollero sposa di Telemaco!), che svolge però un ruolo narratologico fondamentale: è l’aiutante che salva Odisseo da morte sicura e che parimenti rappresenta l’ultimo contatto dell’eroe con un mondo fantastico fatto di viaggi e incontri indimenticabili. È colei – scrive Ieranò – «che segna il culmine e, al tempo stesso, la fine della meravigliosa avventura» (p. 117). Poi ci sarà, per Odisseo, il ritorno a casa, la vendetta, il recupero degli affetti familiari, ma anche tanta, tanta, nostalgia: di guerra, di mare, di mostri, di terre lontane, ma fors’anche – la più dolce di tutte – delle «rose che non colse» durante l’incontro con Nausicaa, troppo giovane e bella per essere amata carnalmente, troppo simile a una dea (nell’animo prima che nel corpo) per non essere rispettata. Le avesse «colte», lo ribadisco (ma non poteva e doveva farlo), la fanciulla sarebbe stata però nella sua mente una Circe qualunque, mentre così l’anziano re di Itaca avrà continuato a pensare di non «avere mai visto nulla di così straordinario tra gli uomini» (VI, 160) e avrà rinnovato, oramai seduto sul legittimo trono, il «sacro stupore» di quell’incontro. . Un incontro, se mi è lecito dire, degno del successivo amor cortese, che ci fa quasi pensare a Jaufré Rudel: perché se la «saggia» Penelope sarà per lui sempre l’unico, vero «amore vicino», verrà dal ricordo di Nausicaa «dalle candide braccia» una piacevole ancorché malinconica suggestione di «amore lontano».

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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