Natə prisma

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La serie del momento, “Prisma”, ambientata a Latina, è ispirata alla raccolta poetica “Dolore minimo” di Giovanna Cristina Vivinetto: uno sguardo libero da pregiudizi e stereotipi sull’adolescenza italiana di questi nostri anni Venti.

«Io adesso non so bene cosa fare»: la frase la pronuncia Nina (l’attrice Caterina Forza), una delle protagoniste di Prisma, nuova serie di Amazon Prime Video, in un momento di affettività non binaria.
La sceneggiatura italiana, dopo tanta serialità prodotta all’estero con doppiaggi claudicanti, differenze culturali nonché vacue carnevalate, garantisce agli spettatori e spettatrici di Prisma la possibilità (finalmente!) di riconoscersi e identificarsi con maggiore immediatezza. Il merito è del regista Ludovico Bessegato e della sceneggiatrice Alice Urciuolo (lo stesso sodalizio di Skam Italia), il cui sguardo sugli e sulle adolescenti della generazione Z abbandona quel paternalismo e quella idealizzazione stereotipata tipica di altre produzioni in favore di una prospettiva matura ma empatica rispetto ai protagonisti (gli attori sono più grandi, ma poco importa).
Prisma
non celebra una neosantità queer, con aureole glitterate che illuminano nuche espianti; non ci sono languidi santi sebastiani balestrati dalle frecce dell’intolleranza. La serie prismatica, come il poliedro eponimo, mette piuttosto in scena senza tabù il mondo adolescenziale di oggi, tallonato da quello adulto che cerca di afferrarne l’essenza, ma non riesce a superare le categorie della gioventù che fu negli anni Ottanta: i «tossici», gli «spaccini», gli «sporcaccioni» contro gli animatori dei centri estivi, i bravi ragazzi e le brave ragazze delle buone compagnie (di quell’evo, nella serie, sopravvivono alcune musiche revival, in una colonna sonora che mescola con ritmo sapiente vecchio, tra cui uno struggente Tenco, nuovo, tra cui John Maus interprete di Molly Nilsson, a proposito di «tra i generi», e nuovissimo, tra cui il pianista Sampha, che con la sua No one knows me fa tornare tutti i conti).

L’attrice Caterina Forza (Nina) e l’attore Mattia Carrano (qui Andrea).

Al centro di Prisma ci sono due gemelli, Andrea e Marco, interpretati entrambi dallo stesso attore dunque doppiamente esordiente, l’impareggiabile Mattia Carrano. Un po’ Dottor Jekyll e Mister Hyde fusi insieme e ridistribuiti, i due fratelli sono in cerca di un’identità: Andrea esplora la queerness in compagnia della già citata Nina, femminista e lesbica in formazione, con le idee che sembrano già chiarissime e una méthode raziocinante da far invidia a Cartesio; Marco, più ombroso, è il brutto anatroccolo della famiglia e della scuola (anatroccolo che a un certo punto compare pure, come papero e come Calimero), bullizzato dai compagni a nuoto e bravissimo nel montare videoclip.
Intorno a loro si muove una pletora di ragazzi e ragazze che parlano e agiscono oltre qualunque frontiera definitoria, desiderosi di vivere una vita piena che gli adulti, i familiari sono incapaci di decifrare. C’è il trio di rapper (o trapper o post-rapper?) Klan Bruxelles (gli attori Lorenzo Zurzolo e Matteo Scattaretico con il vero rapper LXX Blood), che cantano Mattoni, brano donato alla serie da Achille Lauro, che in un episodio benedice i suoi giovani adepti dalla mascolinità fluida (altro che tossica), fatta di tornei Fifa, gare sportive e fratria simposiale; c’è Carola (l’attrice Chiara Bordi), una ragazza che si dovrebbe definire diversamente abile ma che, al di là del cambio di invaso per la gamba, soprattutto capisce come le relazioni plurime non siano sinonimo di lussuria; c’è il secchione Coccolino (Vittorio Aisa), personaggio-macchietta in cerca di autore che solo nel finale lo trova; c’è Raffa (Nico Guerzoni), che assiste con coinvolgimento Andrea al telefono della LGBTQ Line.

Il Giardino di Ninfa, a Cisterna di Latina, costruito a partire dal 1921 «all’inglese».

Anziché essere ambientata in città cosmopolite, la serie è girata a Latina, la Littoria delle «cose buone» di ducesca memoria, nel cuore delle bonifiche delle aree malariche dell’Agro Pontino; negli episodi, Latina è in coppia con Sabaudia (città che invece ha mantenuto il nome dell’epoca). Questo tocco di provincia italiana fa sì che sulle variegate vicende dei protagonisti si impongano le inconfondibili architetture razionaliste del Ventennio (e il nonno di Nina, mussoliniano un po’ arrugginito, conserva cimeli fascisti e un pappagallino che, solo in sua presenza, gracchia «du-ce, du-ce»). La Torre Littoria, dopo aver assistito a parate e manifestazioni nere, ora vigila sulle chiacchierate notturne di Nina e Andrea, che dalla stazione di Latina, ormai senza più littorine, sono catapultati tra i boa e gli eyeliner del Muccassassina.

A questo punto un illustre laziale direbbe O tempora o mores, ma si dovrà rassegnare ai cambiamenti perché il tempo delle verrine, delle catilinarie e delle filippiche è finito. Se proprio dobbiamo restare nell’ambito della letteratura latina ci viene piuttosto incontro Ovidio, con i miti di Tiresia e di Ifi, nel cui racconto la lingua si adatta per descrivere metamorfosi di transizione da maschio a femmina, e viceversa. Nella sceneggiatura i piccoli Marco e Andrea leggono in effetti del mito di Ermafrodito e Salmace in una versione «per ragazzi» che incredibilmente i loro genitori cattolici non sono riusciti a inserire nell’Indice dei libri proibiti di famiglia. Non sarà un caso che la scena rivelatrice sia ambientata nel Giardino di Ninfa, con una trasfigurazione acquifera che appunto ricorda la naiade Salmace.

La poetessa Giovanna Cristina Vivinetto alla Libreria Tuba in una scena della serie.

Ha ispirato la sceneggiatura e mosso la ricerca interiore ed esteriore di Andrea la raccolta poetica Dolore minimo (Interlinea, Novara 2018) di Giovanna Cristina Vivinetto; l’autrice, come una vera diva, compare in uno degli episodi della serie durante un reading alla Libreria Tuba, nel quartiere del Pigneto. I versi di Dolore minimo, che cantano la transessualità dal mito di Tiresia a oggi, aprono ad Andrea la possibilità di vedersi rappresentato e rappresentata al pari dei soliti io lirici declinati al maschile che cantano un tu femminile assente e indifferente. Con non scontata naturalezza le parole di Vivinetto (anche lei fratello e poi sorella gemella nella vita reale) mostrano come la letteratura fiorita all’ombra del canone abbia una forza espressiva capace di allargare i confini del noto e fornire agli inesperti le parole per chiamare le cose con il loro nome. «Io adesso non so bene cosa fare» dice Nina, e potremmo aggiungere «dire, descrivere», e i familiari, spesso tratteggiati come nemici ostili e invece semplicemente impreparati a declinare aggettivi e nomi nel modo voluto, dovranno chiedersi: «non so bene come comportarmi», «non so trovare le parole», «non so a chi rivolgermi per un confronto»…

Ogni ricerca di una identità, del resto, ha un aspetto di sofferenza, quel dolore antifrasticamente «minimo» che può diventare massimo. In Prisma si erodono le basi stesse dei percorsi identitari, perché forse il bello dell’adolescenza non è tanto l’arrivare a un punto fermo quanto la ricerca, il mettersi in gioco affidandosi a coetanei e coetanee. La criminalizzazione boomer di questi ragazzi e ragazze, che durante la pandemia di COVID-19 ha contagiato molto più del virus, non regge più. E anche la scuola deve fare la sua parte, adattando i fantomatici programmi e le liste dei libri da leggere alle facce dei prismi che si siedono ogni mattina dietro i banchi baciati dai colorati riflessi dei raggi solari. Come ha scritto Teresa Ciabatti in un post su Instagram, in Prisma trionfa «il talento, e la possibilità – non solo tematica ma anche fisica – di essere tanti, ciò che si vuole, ciò che si desidera. Ogni giorno qualcuno di diverso». A queste pluralità sfuggenti non servono esorcismi ma ascolto e condivisione, servono antologie e manuali, romanzi e poesie, immagini e serie in cui riconoscersi e con cui imparare a esprimersi. L’era della norma tramonta nei fatti, se non nelle aspettative di qualche nostalgico. E la luce, le luci del prisma illumineranno anche chi vorrebbe spegnerle; per evitare paure e fobie irrazionali, quando qualcosa ci coglie impreparati/e e saremmo per questo indotti/e a chiuderci in un qualche recinto ideologico, basta pronunciare la formula: «Io adesso non so bene cosa fare».


[Alcune poesie di Dolore minimo sono incluse e analizzate nel Controcanone, Loescher, Torino 2022]

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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